Aldo Bonomi, uno dei pesi massimi della sociologia contemporanea, e Pierfrancesco Majorino, assessore al welfare nella giunta milanese ed esponente di peso del Pd, hanno composto un ritratto perfetto delle istanze, dei moventi, dei crimini che prendono corpo nella politica della paura che le destre oscene stanno inscenando, inverando e piegando a proprio vantaggio, per scatenare una mutazione genetica del comparto democratico. “Nel labirinto delle paure”, edito da Bollati Boringhieri, è un manuale di battaglia e un’accorta elaborazione di strategie contro la deriva autoritaria e oscurantista, propalata dala vasto network sovranista (o, meglio, neonazionalista): è l’interpretazione della realtà, da giocarsi per riaprire il fronte della speranza. Un saggio che esibisce un tempismo perfetto, verrebbe da dire: purtroppo. E’ una fenomenologia completa, un’analisi impressionante per acribia e per apertura di visuale – un sogno che è realtà, declinabile in programma politico o, più precisamente, la base solida su cui innestare un programma politico. Mi pare una lettura imprescindiibile dell’oggi e nell’oggi. Sono prospettive che confortano, si esce dalla lettura tornando a sentire che non si è soli in questo avvitamento verso il precipizio, che è antropologico e generale e andrebbe interpretato e accompagnato, smentendo le narrazioni suprematiste vigenti, come scrive Majorino: «La destra – la più becera da un po’ di anni, con il suo armamentario di medievalismi e revisionismi storici –, che vince in parte del mondo e in Italia, spiega con parole molto semplici che da questa fase di cambiamento ci si deve salvare. E offre una zattera. Una zattera agghindata di richiami al passato e forse priva, a bordo, di una bussola. Ma sempre di zattera si tratta. E la colloca nel mezzo di un mare in burrasca. Racconta, poi, che la zattera è terribilmente incapiente rispetto a quanti cercano un approdo, e getta a mare quelli che possono “rubare”, attraverso un atto disperato che si fa furto, un posto per la salvezza. Oppure non li fa nemmeno salire a bordo, i cercatori di futuro. Non si assume l’onere, e la responsabilità, di accogliere chi ha bisogno in virtù della sua condizione, ma si permette il lusso etico di selezionare il “bisognoso”, di gerarchizzare tra i deboli e di confidare dunque, per usare un’espressione per me terrificante, che la “guerra tra poveri” divampi. La “guerra tra poveri”, infatti, non è una conseguenza (magari sopportata proprio da questa nuova destra) della fase storica nella quale siamo. È, semmai, proprio il piano inclinato perfetto, ciò che determina la condizione essenziale affinché i leader neonazionalisti mostrino tutta la loro capacità egemonica. La “guerra tra poveri” è il progetto politico di chi vuole alimentare la fuga dall’identificazione delle responsabilità reali e dall’effettiva realizzabilità delle proprie promesse elettorali. Dividere gli ultimi (i migranti, e tra loro quelli in fuga dal continente africano) dai penultimi (i “connazionali” poveri) fa sì che questi non cerchino verso l’alto la causa del proprio malessere e dei propri giustificatissimi timori ma li rovescino verso il basso o verso l’altrove oscuro rappresentato ancora oggi dalla paura nei confronti dell’“uomo nero”».