C’è un grado del degrado, che non c’entra nulla, ma davvero nulla, con l’ideologia capitalista che impone il *decoro*, nelle città grandi e piccole, per portare un ulteriore colpo agli sfruttati, agli emarginati, agli abbandonati, che non hanno rinunciato ai propri diritti, bensì sono stati talmente pressati dalla “società”, dal mercato, dalla perenne lotta di classe, che si ritrovano isolati, polverizzati, preda di disperazione e capaci di reagire come possono a un movimento colossale di depredazione e impauperimento materiale e morale. C’è, appunto, un altro tipo di degrado, che non ha nulla a che vedere con il degrado reale, autentico, concreto, alla mano. Si tratta di un degrado politico ed etico e anche conoscitivo, che statuisce una sorta di nuovo patto sociale, facendo perno sull’incultura, sulla prospettiva per cui ogni ascensore sociale dovrebbe muoversi da solo, pneumaticamente conducendo i *chiunque* a un eldorado facile e tutto economico, addirittura finanziario, privo di qualunque spunto valoriale, desertificato quanto a conoscenze e intenzionalità. E’ l’alienazione contemporanea, che l’Italia propone, ben più di altri contesti nazionali, come via fatale da percorrere nell’era del sistema imperialistico delle multinazionali, per giungere ad autoverificare la distopia che si è immaginata da sempre e che forse nell’abitante medio della megalopoli di “Blade runner” (il primo) ha una sua filologica rappresentazione. Questa melassa in cui il fenomeno collettivo affonda è tutta la contemporaneità italiana, che l’ultimo rapporto Censis descrive in termini di “sovranismo psichico”, cioè di autopercezione fuori sesto, di incattivimento generale, di aggressione linguistica e fisica, di esclusivismo per via dell’egoriferimento assoluto e sballatamente narcisistico. In occidente, non esiste un luogo che abbia condotto a un simile avanzamento il processo di brutalizzazione delle menti e delle folle. E’ il vecchio adagio dell’Italia come laboratorio sociale all’avanguardia, poiché in retroguardia da sempre. L’emersione del carattere nazionale, che da secoli è riconosciuto e quindi nemmeno teorizzato bensì constatato, dice di questa perduta gente, i cosiddetti “concittadini”, che la nostra è una landa devastata, cariata, patologica, microfascista non come ma più delle altre popolazioni. Il suprematismo incongruo, la macchina della falsificazione a livelli inauditi, il presidio del proprio particolare – ecco alcuni degli ingredienti utilizzati nell’immonda ricetta, che prepara la mensa italiana, quel pane quotidiano che non è mai stato pane degli angeli, nonostante il Carosello nei Sessanta e Settanta del secolo scorso cercasse di mistificare, a uso e consumo delle borghesie italiote. Davvero c’è stata una borghesia in questo Paese? Davvero si è tentata la rivoluzione? La storia dell’accelerazione ha in questo lembo meridionale del continente un suo atto iniziale, continuamente ripetuto: è Piazza Fontana oppure è Aldo Moro oppure è Vermicino oppure è Tangentopoli oppure è Berlusconi oppure, ora, è il peggiore tra i populismi possibili. Il popolino, in quest’ultimo caso, non è affatto popolo, come da copione italiano. Siamo a Masaniello più il digitale. Siamo al crollo di educazione e sanità, con l’entusiasmo della folla che non dispone più di un padre molto reverendo che vada a “sopire, troncare, troncare, sopire”. L’imbarbarimento è un regresso alla natura, a queste latitudini. La volgarità di Stato ha il suo contraltare perfetto nell’oscenità di massa. L’assassinio politico risponde a un’esigenza di omicidio collettivo, da parte di una popolazione che desidera morbosamente la pulizia etnica a partire dal pianerottolo del condominio in cui abita, per arrivare a Mussolini appeso, Craxi esule col diabete che lo divora, Bossi sotto ictus per la gioia delle genti, Renzi che salta (Berlusconi sta evitando tutto ciò, gli va dato atto di essere stato ed essere tuttora un navigatore politico di altissimo livello). Conoscere gli italiani, non soltanto a questo punto, è un’opera di penosa compromissione di qualunque sistema etico, perché l’italianità è un contagio, una vaiolosi dell’anima, una sciatica della pietà, una nazione-emendamento. Il fare schifo, qui, sottintende un tale godimento dello schifo medesimo, da lasciare non tanto senza fiato, quanto con un’intollerabile alitosi. La piazza dell’altro giorno, cinquantamila persone e non di più plaudenti a quella Pasta del Capitano, supporter con elmi cornuti e terroni entusiasti di chi li disprezzava con il vergognoso epiteto, racconta una crassa classe sociale, né borghese né proletaria e non unicamente imprenditoriale, che era in cerca da tempo di una rappresentanza capace di esportare l’odio radicale su palcoscenici ambiguamente illuminati, magari internazionali. La specificità italiana gode nell’abominio e supera di molto la comorbilità francese, che dura dai tempi in cui le vecchiette cucivano assise in Place de Greve, assistendo alle pubbliche decapitazioni. Si sarebbe portati a pensare che la Francia illumini, sia pure tenebrosamente, la via all’eterna rivoluzione di popolo, ora con l’emblema del gilet giallo, mentre da noi l’opzione della mobilitazione è stata consumata da tanto tempo, quando cioè il popolo gambizzava giudici e giornalisti, andando di molto oltre e sacrivicando il suo Kennedy nazionale, ovverosia il presidente democristiano, l’artefice della Repubblica e il dispensatore di un discorso infinito e sfinente, con cui si teneva sotto ipnosi una nazione intera, che nazione non era mai del tutto, come di fatto non lo è oggi. La piazza salvina, imbottita di una psicofarmacologia a base di grassi polinsaturi derivanti da cassoele e pasta al forno, interprete di un’estetica da vichingo declinato alla principe di Salina, in piena confusione simbolica, ignorante in modo talmente saccente da considerare il ragionamento stesso un abominio e una colpa – questo assembramento ex nordico nella ex capitale italiana (Roma non lo è più da tempo, non immemore, ma comunque da tempo) è l’espressione più verace della nostra antichità, che è sempre un’anticaglia da spacciare nelle botteghine dei souvenir, con cui da anni fottiamo il portafogli ai bolsi turisti stranieri, spersi tra Totò Peppino e Bud Spencer, catatonici nel paradiso infernale che da sempre ci costruiamo, con i campanili così come le inarrivabili periferie italiane, in un luccicare di paillettes e di biografie di Umberto Smaila, reale successore dell’Umberto savoiardo, che fu il re prettamente italiano. La pavidità eletta a sistema di aggressione. La luccicanza del falso contro il vero, che non è mai arido, il che pure ci aveva prescritto come terapia il nostro maggiore poeta moderno. L’estinzione del dubbio, per porre termine a qualunque fatica. Il tirare innanzi a nord e a meridione. L’abilità a scagliare la prima pietra contro il figlio di Dio. L’esaustiva bruttezza della lingua più celestiale, applicata al commercio delle anime, il che significa al furto continuo. Qualunque stereotipo verificato. Qualunque malattia contratta e debellata. Qualunque visione stanca per via della perennità. Quella piazza del supposto popolo, in piena Roma, era tale non essendolo. Si riparte da qui: dalla fine, sempre, come prescrive il decalogo italiano, che il Mosè nazionale ha scritto di suo pugno, per spacciarlo come ordine del Supremo. Attendiamo il prossimo giro, aspettiamo il tramonto di questi qua e l’arrivo di quegli altri. Buonanotte, bimbe e bimbi nazionali: ci si rivede all’alba successiva, noi italiani siamo gli unici ad avere realizzato che c’è sempre un’altra alba e non dobbiamo fare fatica a costruirla e garantircela: ci è data e l’abbiamo rubata, indifferentemente.