Scrivere oggi: scrivere l’oggi

Non vedo più il libro. Quest’oggetto energetico, che soltanto una miopia tutta contemporanea ritiene essere un veicolo di informazione o peggio di comunicazione, è una canalizzazione delle più angeliche e demoniche intercettazioni a cui l’umano possa arrivare. Mi ricordo gli opening credit de “La tempesta” di Greenaway, riadattamento semplicemente assoluto del dramma shakespereano: c’erano vari libri, aristotelici anzitutto, tra cui un volume che tremava sismicamente, trattenuto da una fibbia che allacciava copertina e quarta, foderate di cuoio: non stava fermo, scalpitava, vibrava di moto proprio. Ecco: il libro è questa cosa. Oggi, mi pare, non c’è più. Incrocio a iosa occasioni di presentazione, festival, esposizioni di miliardi di titoli, interventi di scrittori nel visibile ovunque – e tutto mi pare decadenza, fossilità, assenza di bradisismo, vuota maniera, impermanenza calcarea, musealità cerea. Questo passaggio storico tocca intimamente due perennità: quella biologica (macchine e artifici stanno entrando nel corpo: una forma radicale di biopolitico) e quella testuale (trascendimento e oblio del libro, a partire dal grande libro della natura). Dio stesso è un evento anzitutto testuale per l’occidente, che elabora un’ermeneutica infinita sulle Sacre Scritture – era davvero interminabile quell’interpretazione, quell’infinita conversazione? No, non lo era: finisce oggi. Affrontare il progetto di un nuovo libro, in questo tempo, significa tenere presente l’assenza stessa della categoria di immaginario, sostituita da un’attualità bruciante e in continua frenetica evaporazione. E si impone anche la necessità di considerare che, insieme a Dio, l’altra entità onnipresente e bugliolo di libido sfrenate e segreti altissimi è l’inconscio, che oggi non ha ruolo né nominazione in nessun discorso pubblico. La bidimensionalità, prima che si arrivi a una tridimensionalità bidimensionale, è imperante, così come l’abbattimento del confine e quindi della dialettica, nella surproduzione di storie, sempre più elementari e riguardabili come grottesche, se ci si assesta sul protocollo storico che preludeva a questa velocità. Il lettore era, come accennava Paul Virilio, il primo dromofobico, ovvero un individuo collettivo terrorizzato dall’accelerazione delle cose materiali e psichiche? Forse lo era, ma non è mai stato il *mio* lettore, anche se sembra che lo sia adesso, quando lo stremo con vomitate testuali che sono incongrue rispetto al presente, che è brachilogia purissima, paratassi continua e dimenticabile, semplificazione allo zero di Kelvin (DeLillo: “Zero K”) e barocchismo privo di vita vivente. Il fiore del male non è più tale, perché, davvero, cosa è il male? Il fiore della pietra o del metallo, piuttosto, è la norma civile e incivile di ciò che è compiutamente e storicamente odierno. Avvicinare una storia, imporla rispetto alle possibilità orizzontali e mai considerando quelle verticali, nell’abbattimento di ogni simbolo, mito, fabula, sedimentalità, voce e senso – un limbo narrativo, una nebula astratta e veloce, una radicalità della trascurabilità di tutto e di tutti, mentre emergono, inconnessi tra loro, elementi pesanti, metalli ignobili nel vaporoso genere steam, ottocenteschi e hugoliani, eppure non tematizzati, poiché la tematizzazione è una delle mosse interdette dal Cloud… Di questo e da questo credo si debba partire per narrare oggi – o, almeno, è ciò da cui parto *io*, questo schifo di pronome che si deve tornare a indossare, smentendo la sensazione di oscenità, di nudità angosciata, di mortalità comminata istante per istante. Da e di questo, dunque, scrivo. perché scrivo? Me lo hanno chiesto amici, l’altra sera, e io ho risposto: “Non scrivo per nessuna missione e quindi non per restare. Non scrivo per nessuna storia. Scrivo perché scrivo e, soprattutto, perché è accaduto Kafka”.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: