Memorie da quel tempo berlingueriano

Questa posa, questa capigliatura, i capelli brizzolati, questa complessione fisica, questa cifosi tenera, queste grisaglie, queste cravatte, questa soppesata nonchalance nei confronti della realtà, questa responsabile facilità dell’assumersi la responsabilità, questi colori, questo simbolo, questo microfono, questa fede al dito, questa calma in pubblico che sfiora la riottosità ed è pudica, questa memoria assunta e assimilata di sapere che “noi comunisti abbiamo sessant’anni di storia alle spalle e in galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi” – questo prussianesimo comunista italiano, questa indefettibilità ovunque e sotto ogni aspetto, questo rigore, questa nevrosi assai tenera e spigolosa contro tutta la psicosi che ribolliva sotto, questo dolore antico, questa sofferenza del mondo e di se stessi: io li ricordo: erano di Enrico Berlinguer e di mio papà, e di moltissimi altri, in un tempo, alla fine dei tempi.

Quando è morto ero nel marciapiede della piazza e mi chinavo ad allacciare una stringa cattiva di scarpa da tennis, imitazione cattiva di Nike, acquistata al mercato rionale della piazza sui marciapiedi, e passa una donna in follia, un’eumenide, una babajaga, nell’aria a nessuno dice a chiunque “E’ morto è morto è morto è morto” e portava un giornale nell’aria, l’Unità, come un’ostensione di icona mariana, e c’era scritto il titolo a tutta pagina “E’ morto” sopra la foto di Enrico Berlinguer in una barca a vela. Quella mitezza si conosceva e contagiò per l’aria, vivamente constatavamo il morto tutte, tutti. Come era grave la sua lievità, papà. Come era padre, papà. Come si insinuava nelle pieghe della mia carne, venerato da tutte le chiese, papà. Come mai sei caduto dal cielo, papà, figlio dell’aurora?

Aveva un farfugliamento strano, poca saliva, il tremito del nervo trigemino, strana tosse, la sera a Padova fino al coma. Strada per strada, casa per casa, noi vedevamo nell’immaginazione di una televisione l’ictus allargarsi in bianco e nero, la macchia nel cervello allargarsi. Diceva alla fine del tempo che fare i filosofi giova a poco, ma certe cose le possono sapere soltanto i filosofi. I funerali di Togliatti nella pittura fumettistica di Renato Guttuso vedevano lui ovunque nelle genti e questo era un poster della mia infanzia accanto al letto. Stringeva sempre la mano docile e vera alla mano bronzea e clemente di Aldo Moro: erano padri. Un milione di genti, un popolo, conosce il predominio delle sue volontà e lo celebrano il giugno, romano, piangendo. Nessun portone rimase chiuso. Giorgio Almirante si chinava sulla bara della mia gioventù. Enrico Berlinguer perdette la mia gioventù. O padre! O madre! O lettere! O umanità!

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