Ed eccoci, a guardare il corpo di Franco Battiato. Il suo silenzio, la sua assenza, la sua malattia hanno dato l’occasione all’oscenità del discorso dominante (a cui si accenna qui più sotto) di parlare infidamente e vergognosamente con inaccettabile rumore, insostenibile presenza e la boria dei finti sani, che sempre si accompagna al momento terzultimo del grande show, prima della morte e della canonizzazione. Così va il mondo ora, ci vuole Spotify perché i giovani sappiano che esista Lucio Battisti, altrimenti non lo sanno, e perché venga giudicato dai più recenti come un artista banale dalle melodie piatte. Cazzi loro. Invece, quanto a Battiato, sono cazzi miei – sono *anche* cazzi miei. Franco Battiato è il motivo per cui io ho iniziato a scrivere e non ho mai smesso, indipendentemente dall’interesse che ho suscitato negli altrui sguardi. E’ una questione interiore. Ricordo, alla morte di De André, l’esplosione del cordoglio on line in forum dedicati, all’interno dei quali rintracciavo messaggi di commozione inutile da parte di amici e conoscenti, spalmati sull’intera nazione. Reagivo con un moto di schifo netto e un senso di colpa intermittente per il fatto di non intendere minimamente la mia partecipazione in quel gorgo di lacrime elettroniche, sguaiatezze sentimentali, enfasi del lutto per conto terzi. Il primo muro del pianto, che avremmo visto erigersi sempre più di frequente, con l’apice mostruoso di quelli che erano Charlie. Moto popolare, il necrologio, come il meteo – qualunque giornalista conosceva bene questa amara verità di massa, e in parte la conosce anche oggi, nell’età in cui non si conosce più niente. In questo tempo numinoso per certi versi e oscuro per altri, o forse per i medesimi versi, accade che Franco Battiato, ovvero la mia infanzia umanistica e la mia pubertà letteraria, si eclissi. Che lo faccia intenzionalmente o meno, poco importa. Perché lo faccia, se per una grave malattia degenerativa o per un moto umorale non ricomponibile secondo le armonie dell’interiore, poco importa ulteriormente. Il fatto è che non c’è in scena. Chi non è in scena, si sa, è fuori dalla scena: quindi è nell’osceno o, più spesso, è osceno. Non è questo il caso di Franco Battiato. Il fatto di averci creato l’immaginario pop e meno pop gli butta addosso un carico di responsabilità che gli sono state lautamente pagate nel corso degli anni, fortunatissimi per sua stessa ammissione. E’ stato splendido, vero? E continua a esserlo e lo sarà, sempre, splendido: uno splendore che è stato l’oggetto stesso intorno a cui ha fatto musica e testo Battiato. Osservarlo in immagini che potrebbero risalire a un anno fa, nella sua fragilità anagrafica e, da quanto si comprende se si guarda il suo sguardo, ben più che anagrafica; apprezzare l’incertezza di fantasma che sempre ci coglie quando andiamo declinando, ammesso che si abbia la supposta fortuna di declinare e non di interrompersi di colpo; desiderare, con l’ardore che ha cantato egli stesso, portargli conforto, ricondurlo dove non esiste lo smarrimento; riparare l’indifeso, recuperare l’offesa; sentire insieme il tempo; amarlo di più, mentre già lo si è amato di più; comprendere davvero cosa significa che torneremo ancora e in quali corpi e con il medesimo pneuma – questi sono gli effetti di un’oggettività, che è la soggettività di Franco Battiato esposta in evidenza e nascosta privatamente. E per ciò stesso: grazie. Grazie, gratitudine al tempo, alle anime, all’esserci e all’esserci stati. Non ci sarà mai, mai, mai oscenità.