di Giuseppe Genna
800 km/h. 9.700 m di altezza. Henry Kissinger, quello che conosciamo tutti, volava infastidito verso l’Europa, un continente che gli dava fastidio. Il fastidio è il trono vacante dove i giorni sistemano il proprio uomo di paglia. Ogni giorno, un regicidio. A fastidio si sostituisce fastidio. Non c’è pace in questa processione di morti che hanno vissuto per poco e di vivi che moriranno all’indomani. Considerato lo spazio di vita di cui è dotato, il fastidio è un insetto morale. Il fastidio è allunare il 22 luglio 1969 e scoprire che qualcuno c’era arrivato prima di te. Il fastidio è essere eletto presidente degli Stati Uniti e scoprire che non sei l’uomo più potente della Terra. Il fastidio è scoprire che non sei nemmeno il secondo uomo più potente della Terra. Il fastidio è ritirarsi in una toilette d’aereo e, dopo avere cagato, scoprire che il bidet non è compreso nelle forniture. Il fastidio è sposarsi. Il fastidio è separarsi. Il fastidio è tradire con il cuore in gola una donna che ti sta tradendo senza cuore in gola, con una donna che sta tradendo un uomo senza avere il cuore in gola. Il fastidio è volere scopare con una donna che ti vuole inculare, e non per metafora. E’ fastidioso vivere tanto quanto è fastidioso non vivere. Lo stesso dicasi per il morire. E’ fastidioso il rigurgito dopo avere mangiato tanto quanto è fastidioso il rigurgito per non avere mangiato affatto. E’ fastidioso vedere cibi stracotti quando si ha fame, tanto quanto vederli se si è appena finito di mangiare.
Henry Kissinger, profondamente infastidito, tornò a sedersi nella sua poltrona lisa, ma elegantemente. Aveva gli occhiali senza montatura inondati dalla luce a flash azzurrini di uno schermo completamente muto in fondo alla sala, prima della cabina di pilotaggio. Uomini e donne con gli occhi fissi ascoltavano da una cuffia una voce raccontare quello che succedeva : gli americani in americano, i tedeschi (se c’erano tedeschi, a bordo) in tedesco, gli italiani in italiano, anche i polacchi in polacco. Una Babele istantanea connessa attraverso cuffie di plastica dotate di dispositivo a infrarossi a novemilasettecento metri sollevati da terra. E c’era qualcuno che aveva registrato in qualche studio la trama di quella roba mesi prima, a terra…
Guardò fuori dal finestrino, scartando la bianca e spettrale parte terminale dell’ala, una sottospecie dei fastidi catalogata insieme ai moscerini nell’occhio, alla raucedine durante un convegno, al brufolo il giorno dell’intervista al network nazionale.
Guardò e vide il nero. Il mare era nero e non si scorgeva un’increspatura e nemmeno l’increspatura sospesa, umida e raggelata, di una qualche nube a mezz’aria. Tutto era sereno, limpido, ma nero. Iridescente l’aereo forava una periferia del nulla, a quanto pareva. Alzò gli occhi e vide la luna. Nettissima, stagliata e pallida, e quasi riusciva a distinguere cratere da cratere, mare morto da mare morto. Incredibile: non riusciva a vedere un mare, vivo, a diecimila metri sotto di sé, e riusciva a distinguere un mare, estinto, a milioni di chilometri di distanza, sopra di sé. La Luna… Sembrava un cadavere appeso in cielo, la testa di un astronauta che boccheggia senza ossigeno nel proprio casco perdendosi negli spazi siderali. Più minerale gli sembrava, più disperante gli appariva il fatto che una roccia salina stesse lì, inerte e numinosa, blandita dagli sguardi telescopici di stupefatti dilettanti di astronomia e convocata nelle preghiere segrete e notturne della specie umana ogni giorno che Dio ha inviato in Terra.
Gli sguardi telescopici… Avevano battuto palmo a palmo con gli occhi tutta la superficie lunare, per ritrovare, sospesa come carta stracciata nell’assenza di vento e di gravità, la bandiera americana piantata da Armstrong il 22 luglio 1969. E non l’avevano trovata. Cratere per cratere, landa per landa, sempreuguali, sempre deserti, sempre dello stesso colore grigiastro che assumono i cadaveri quando mummificano e non si putrefanno. E il lander dov’era finito? E i resti delle altre spedizioni? Henry sorrise. Avevano inventato la Trasmissione. La Trasmissione era una trasmissione televisiva, irradiata dagli studi Nasa a Cape Canaveral in tutto il mondo, quattro studi per simulare l’allunaggio e mettere la strizza ai russi, e tutto il mondo c’era cascato, tutti a fare la telecronaca in diretta dell’allunaggio che avveniva sugli schermi curvi dei televisori di tutto il pianeta, (Henry rideva), tutti a commentare con gli aneddoti di servizio lo storico momento in cui ecco vedete l’uomo ha messo piede sulla Luna, e ce l’aveva messo davvero, solo che avevano chiuso la Luna in quattro studi a Cape Canaveral, dicevano, e Cape Canaveral era l’anagramma di Cape Carnavale, (Henry rideva), dicevano, ed ecco perché a occhio di astronomo quella bandiera fissata in assenza di vento e gravità non era apparsa sulla superficie lunare, perché, dicevano, l’avevano piantata in uno dei quattro studi Nasa, e alcuni avevano studiato la simmetria delle ombre proiettate da Armstrong e Aldrin sulla polvere lunare e ci avevano trovato incongruenze, e anche il riflesso della Terra nel casco nero di Armstrong non poteva essere autentico perché la Terra non appariva come immagine speculare ma come in fotografia, dunque era un fotomontaggio, (Henry rideva). Dicevano questo, dicevano e dicevano, e Henry controllò per un attimo il proprio riflesso sulla superficie plastificata dell’oblò dell’aereo e non riuscì a distinguere se si trattava di un’immagine riflessa o di un fotomontaggio, perché la destra era identica alla sinistra, e sorrise pensando di essere perfettamente simmetrico, e perfettamente simmetrico a se stesso.
Per un attimo si incantò lì, nello spazio di vuoto pneumatico tra la superficie interna dell’oblò e la superficie interna dello stesso. Incantato, semisospeso, come uno spettro tra quel vuoto e se stesso. Poi qualcosa lo distolse.
Aveva visto come un brandello di tessuto biancastro, sbattere contro l’ala bianca del jumbo, andare a sbattere, volare via, poi tornare in avanti, controcorrente, poi sparire. Forse era un uccello… Forse era un razzo… Ma poi, per un attimo, (Henry sorrise), gli era sembrato un uomo, sì, un uomo. Un uomo in piedi sull’ala di un aereo lanciato a un mac… Aveva sorriso di nuovo, aveva scosso la testa, aveva rivisto quello straccio biancastro sbattere contro l’ala…
Premette la faccia contro l’oblò. La premette tutta. Si schiacciò contro il vetro. Si spiaccicò con forza. Le labbra pressate in un bacio a bocca semiaperta sul vetro plastificato, gli occhiali che impedivano di premere ulteriormente, i palmi delle mani bianchissimi nelle zone di pelle in cui pressava maggiormente, cercò di spiare, e vide lo spettro di Aldo Moro seduto sull’ala del jumbo che lo guardava. Era Aldo Moro, non c’era dubbio, era lo spettro di Aldo Moro. Stinto, smagrito, cinerino, con l’occhio bovino e triste lo guardava, curvo e silenzioso come il fantasma di un cammello, una camicia grigiastra addosso, dei pantaloni grigiastri addosso, seduto sull’orlo dell’ala del jumbo, lo guardava con tristezza, i capelli al vento, il capo ondeggiante, lo osservava e sembrava tristemente accusarlo.
Henry aguzzò la vista, cercò di stoppare l’allucinazione, e non era un’allucinazione.
Poi Aldo Moro parlò. La sua voce veniva dall’interno, al di qua del vetro, un punto imprecisato all’interno dell’aereo, e non da fuori.
“Ciao Henry”.
“Cosa vuoi?”
“Volevo che ti ricordassi di me”.
“Io mi ricordo di te”.
“Volevo ricordarti che sei colpevole, che non devi scordarti che sei in colpa”.
“In colpa?”
“Sei in colpa”.
“Di cosa ho colpa?”
“Della mia morte”.
“Della tua morte?”
“Della mia e di tanti altri”.
“Credi che io mi senta in colpa?”
“No. Per questo sono qui. Per ricordarti che sei in colpa”.
“Io non sono in colpa”.
“Tu non ti senti in colpa, ma sei in colpa”.
“Io non sono in colpa, non ho colpa di niente”.
“Come puoi dire una cosa simile?”
“Non hai ancora capito? Non hai ancora capito niente, neanche adesso che sei morto?”
“Cosa devo capire?”
“Non c’è colpa. Nessuno ha colpa. Io non ho colpa”.
“Non esisterebbe la colpa? Tu non saresti colpevole?”
“No. Non tra me e te, non quando si ha a che fare con la politica. Siccome però la politica è tutto, praticamente non esiste la colpa”.
“Non è vero”.
“Sì, è vero”.
“No”.
“Si, è vero. Ma neanche adesso che sei morto lo capisci? Non sapete tutto, voi che siete morti?”
“No”.
“Te lo dico io, allora. Ti ricordi quella frase che continuavi a ripeter? La ripetevi sempre, a ogni incontro internazionale, sempre, te l’avrò sentita pronunciare decine di volte…”
“Quale frase?”
“Non te la ricordi? Faceva così : ‘Clausewitz osserva che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi’… Adesso te la ricordi?”
“Sì. E allora?”
“Allora ti riempivi la bocca con quella frase. A ogni vertice, quella frase. Ci davamo di gomito, io e gli altri, dicevamo: oddio, adesso ricomincia con Clausewitz… Beh, questo dimostra che non hai capito niente. Niente”.
“Spiegami”.
“Se la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi. Lo capisci? Eri in guerra. Tu non hai mai capito che eri in guerra. La politica è una guerra. O si torna a casa vivi o si torna a casa morti. La guerra è una politica che finisce, la politica è una guerra che non finisce mai”.
“Sono una vittima di guerra. Mi stai dicendo che mi hai eliminato come si elimina un nemico in guerra”.
“Sì”.
“Ma io non ero un nemico”.
“Sì, lo eri”.
“Non è vero. Eravamo amici. Pagavate. Pagavate il mio partito”.
“Pagavamo perché eravate meglio dei comunisti”.
“Avevo ragione, allora. Avevo ragione e facevo di tutto per non crederci”.
“Sì, non eravamo vostri amici”.
“Voi ci avete tradito”.
“Noi? Noi chi?”
“Gli Stati Uniti. Voi avete tradito noi italiani”.
“No. Io ho tradito te”.
“Tu hai tradito tutti noi”.
“Non è vero. Non abbiamo tradito gli italiani. Noi vi abbiamo promesso il nostro sogno, e adesso voi sognate lo stesso nostro sogno”.
“Noi non sogniamo nessun sogno. Noi non abbiamo più sogni”.
“Anche da morto non capisci il tuo popolo. Non l’hai mai capito, il tuo popolo, e il tuo popolo non ha mai capito te. Tu dovresti essermi grato…”
“Grato? Io?”
“Sì”.
“Perché?”
“Perché tu sei diventato parte del sogno che abbiamo regalato agli italiani”.
“Non capisco…”
“Tu sei il presidente assassinato con cui inizia la storia degli italiani. La nuova storia degli italiani. La storia degli italiani che sognano il nostro sogno”.
“Stai dicendo che da voi c’è Kennedy e in Italia ci sono io”.
“Esatto. Finché sogneranno il nostro sogno, gli italiani ricorderanno Aldo Moro”.
“Io non volevo essere ricordato. Io volevo servire e scomparire”.
“Questo hai fatto. Sei scomparso e sei servito”.
Il fantasma di Aldo Moro ciondolò la testa, con una lentezza sconsolata eppure naturale. Non c’era posa in quella sfinitezza triste, in quella povertà laida e irriconoscibile, più sfocata dell’immagine dei giornali, con la camicia bianca e consumata e la testa china e il sorriso spento e la Repubblica in mano. Il suo capo ciondolava in avanti, a Henry e agli altri era sempre sembrato un’iguana patetica, un rettile, e loro l’avevano mummificato nel ricordo e Aldo Moro sembrò cercare ancora lo sguardo di Henry Kissinger e non lo trovò e si disciolse come acqua nel vento e sparì nell’aria gelida e veloce.
[racconto pubblicato su Fernandel, nuova serie, maggio/giugno 2001]