Scena dell’inverno nucleare

annolucecovernetUna scena dal romanzo L’anno luce (Saggiatore Net, 8 euro), il quale impatta in qualche modo con lo pseudothriller in uscita dopo l’estate per Strade Blu Mondadori, Le teste. Protagonista è un manager quarantacinquenne, numero due di una importante azienda di telecomunicazioni, arrembrante e spietato, soprannominato il Mente. Qui lo troviamo in una scena di dialogo con sua moglie, Maura, recentemente vittima di uno choc traumatico che l’ha costretta a un soggiorno ospedaliero, presso il reparto neuropsichiatrico. E’ mistero sul trauma che ha procurato lo choc alla donna. Il Mente è strattonato dalla vicenda coniugale e da quella aziendale: aggressivi concorrenti vogliono conquistare la sua azienda per fare una fusione. Siamo a metà libro. L’anno luce verrà pubblicato in Francia, per le edizioni Métailié, per la traduzione di Serge Quadruppani. [gg]

La cucina è bianca e le sedie sono bianche, è un materiale sintetico.
Dalla finestra alta la luce si versa come un liquido fastidioso. Puntando, lo sguardo va verso la parete lontana della facciata cieca, in cemento chiazzato di umido, del casamento oltre il vasto giardino condominiale, dove gli scivoli giocattolo colorati sono vuoti perché è mattino. Non c’è una bici legata nel cortile tenuto bene.
Sembra l’inverno nucleare.
Lei è sveglia da qualche ora. Ha preparato la colazione, ha affrontato il proprio mutismo. Il freddo che la domina dall’interno. Un gelo neolatino. Lei assiste impotente a tutto, sopraffatta dal disagio morbido, pervasivo. E’ così: è in malattia, via dall’insegnamento, per chissà quanti giorni ancora. Giorni vetrosi e sfiancanti come il parentado, prima poco frequentato, che sgradevolmente ora si ripresenta a chiedere notizie della sua salute. I lombi le fanno male e a tratti non sente il corpo. E’ normale, questo.
Lei ora prepara meticolosamente il caffè, i fiocchi di cereali, le bevande per il Mente.

Lui entra in cucina e si siede dalla parte sbagliata del piano americano.
Il caffè provoca il gorgheggio e il metallo della cuccuma è distorto dal calore eccessivo.
Lui sta compilando un messaggio al cellulare e a lei piacerebbe incantarsi nell’iridescenza dello schermo cellulare.
Infinite sedute con lo psichiatra che le ha trovato lui. E’ isolata dal desiderio di lui di murarla nel segreto. E’ stanca. Ripetuti esami al Neurologico. La presenza insistita di sua sorella e l’assenza di domande dei genitori, sostituite da carezze e sorrisi caldi e morbidi come la moquette.
I fiocchi di cereali sembrano corpicini mummificati, arsi dal tempo che è fuoco, un lento impercettibile abbrustolire.
“Ierisera”.
“Cosa?”
“C’era un programma su tre piccole mummie del centocinquanta dopo Cristo. I Romani non mummificavano. Gli aristocratici si facevano ardere. Avevano lasciato le viscere nel corpo delle tre bambine, ritrovate in uno scavo, era il 1964, a Roma, in via Grottarossa. Uno scavo edilizio. Abitiamo sopra i morti. Nella terra della discarica hanno trovato i pezzi del sarcofago e la prima mummia, trasportati lì per caso con gli altri materiali dello scavo per fare le fondamenta. 1964. Le immagini erano in bianco e nero e la mummia era una bambina di otto anni. La trasmissione cercava di darle un nome. Non si sapeva perché fosse morta, chi”.
“Ti ha impressionata?”
“Perché dovrebbe?”
“Vuoi dirmi qualcosa?”
Vuole dire, lui, se lei vuole dire che si sente una mummia, una bambina di otto anni, se si sente di essere i morti su cui si erigono le fondamenta edilizie oppure il palazzo che si costruisce sulla necropoli.
“Prima, un servizio prima, parlavano dei sacrifici umani, gli Atzechi, successori degli Olmechi, una popolazione di cui non sappiamo nulla, il grado scientifico a cui erano arrivati. Facevano sacrifici umani. Strappavano il cuore, era un onore. Intere squadre giocavano alla pelota su una piramide a ziggurat e i giocatori che perdevano la partita venivano sacrificati. Fenomeni di cannibalismo. Hanno trovato accanto agli altari ossa spezzate. Prevedevano il corso del tempo. Calcolavano scrutando gli astri. Erano raffinati”.
“Il passato non è mai raffinato. Noi siamo raffinati. Loro no”.
“Olmechi e Atzechi risultano essersi sovrapposti. Due specie diverse, come. Una ha soppiantato gli altri. Elaboravano complesse misurazioni del tempo. Cicli e spirali. Tempo che torna, qualitativo. Un complesso calendario fatto di ingranaggi circolari di pietra dura, in base al moto delle stelle. Ma non è questo”.
“Cosa vuoi dirmi?”
“Il tempo. Per noi è ricorsivo solo a certi livelli. Le ore. Adesso sono le nove, domani le nove tornano, dopodomani anche, sempre. E’ martedì, torna tra una settimana e poi una settimana. I mesi, anche. Ma non gli anni. Gli anni non tornano. Non c’è ricursione. Per loro no: tornano anche gli anni”.
“Questo sarebbe raffinato?”
“E’ curioso. Al sentimento del tempo sostituivano la conoscenza del tempo. Questo è raffinato”.
“Non possono verificare. Non possono verificare se a distanza di un millennio un anno torna. Questa è New Age. Noi la usiamo nel marketing. Il marketing è ricursione, computo, sentimento e conoscenza a doppia elica. Simuliamo il dna. Scrutiamo astri interni, facciamo ricerche. Soddisfiamo, questa è la nostra raffinatezza”.
Il cellulare vibra, hanno risposto a lui, all’sms.
C’è un fiocco secco di cereale sul piano americano della cucina, sembra una piccola salamandra, un trilobita fossile, il sacrificio vegetale sull’altare liscio e pulito, contemporaneo. Il nostro ziggurat firmato dal designer.
Adesso per un attimo ha un tremito e non sente il corpo, lei. E’ uscita dal coma psichico con il sistema nervoso che dissocia e non riconosce a tratti gli organi.
Fatica a mistificare il segreto che l’ha condotta al limbo. Fatica a rimuovere. E’ convinta che suo marito non sappia niente, che nessuno sappia niente, nessuno le ha detto niente. Lei dispone della verità del dramma. Della causa che ha originato tutto. Come i sacerdoti che leggevano le viscere, scrutavano la vena porta, le diramazioni della carotide.
“Tu ti occupi di voce, di telecomunicazione, non di astri”.
“Scherzi? Siamo gli Olmechi, nessuno saprà a che grado di raffinatezza eravamo giunti. Gli astri emettono frequenze sonore, voce. Gli inglesi sono come Cortéz, ci hanno donato coperte infette di vaiolo. Non ci siamo fidati ma non è bastato. Abbiamo contratto il vaiolo. Un sistema immunitario deficitario. Ci stiamo estinguendo”.
Non le parla mai del suo lavoro, ma lei sa tutto. Sa tutto e questo è parte del terribile segreto che nasconde a suo marito, nessuno sa niente.
“Hai la terapia oggi?”
“Ospedale. Vedo Fresia”.
“Esami?”
“Torre di Londra. MMPI. Sono test. Per capire se capisco. Come sto”.
Metronomia dell’umano è testare le competenze cognitive in questi casi al giorno d’oggi. Indici, complessi schemi a incrocio, griglie interpretative per statistiche complesse, risultati da reinterpretare. Orfismi medici. Olmechi, terapeuti.
Ma non è quello.
E’, piuttosto, il vuoto, le ore vuote.
La sensazione che tutto è perduto basterebbe a dare un senso. Non questo persistere. Non questo esaurirsi di niente che sia stato accumulato. Questa è l’adozione del vivere, l’adozione del morire. Questo è l’esistere vicario. E’ peggio di una crisi matrimoniale. E’ il divorzio dal senso, dal sentirsi vivi. Niente c’è, niente c’era e, vuoi sapere?, cosa dovrebbe esserci domani? Il tempo è ricorsivo, tranne gli anni. I capelli si sfibrano, si perdono in flussi d’aria che soffiano dal basso di traverso le griglie della metropolitana. Quel capello ha un destino. Non si riesce a disporre di un calendario per i suoi movimenti. E’ nella casa di qualcuno, finisce sulla lingua di un estraneo, a contatto con malattie distanti. Questo mulinare, nonostante gli psicofarmaci, ustiona con lentezza assoluta, sfibra l’esserci.
Tocca la scatola dei cereali.
E’ presente alle indicazioni proteiche indicate sulla scatola dei cereali, alle note produttive nei paesi arabi. Diversi idiomi, tutti contemporaneamente compressi su questa scatola di cartone, che sa di cartone e soia, un lontano aroma di piedi. La geografia collassa. I tempi slittano uno sotto l’altro, si impennano, inabissano.
Sei sul discrimine, è come se dicessero le ore, i giorni di questo inverno nucleare.
Sei riemersa da un sonno comodo, questo è Hellraiser.
Aveva desiderato maniacalmente i figli, non c’è senso in tutto questo. Inseminazioni artificiali. Ovuli espulsi da uteri capaci di ferocia, necessitati al rifiuto. La disarmante ferocia della povertà. Il livello basale. Figli estranei, tuoi, non tuoi. Estranei che crescono enormemente mangiando. Il corpo è fatto di cibo. Crescono per giudicarti enormemente, per fare sentire fino a che punto sia sfibrante essere arsi vivi da questo slittamento lineare di tutti i fuochi, questa indecenza che chiamiamo maturità, tempo.
Sono disperato, pensi, perché quando pensi non usi il femminile e neanche il maschile.
“Hai preso gli psicofarmaci?” chiede lui.
“Senza acqua, in pratica. Lo stomaco mi fa male e la gola è gonfia, sento che mi stringe”.
“Nodo gastroesofageo, ha detto l’ospedale. Lo sai. E’ una compressione nervosa. E’ psicosomatico”. Dice così lui e ingurgita i fiocchi fradici di sostanza lattea, un cucchiaio troppo colmo per non sporcare l’angolo della bocca. I peli di lui, ispidi, lucidi, spessi, così neri da sembrare blu. La sua pelle un tempo profumata, ma questo ricordo non emerge. Siamo svegli ma è come dormissimo, non ci accorgiamo di, non pensiamo a, non ricordiamo che.
Non dormono insieme nonostante quello che è successo.
Lei pensa che lui pensi che si sia trattato di loro, della crisi.
Non scopavano da un anno, questa è la verità.
Questa è la verità: dopo qualche anno i corpi non sono magnetizzati, non più. Il sesso è faticoso, alla seconda, lo si pensa, in qualche modo si calcola.
Lui pensa, lei pensa, che è crollata. E’ la malattia del tempo. Non ci sono cosmetici psichici, le rughe fanno danno, non sono rimediabili. Come un’elefantiasi cerebrale. Il disagio, non è più lei, non più, lei pensa che lui pensi. Questa stordita forma di renitenza a tutto che chiamiamo la nostra vita.
Questa attesa del cancro finale. Della malattia fatale.
Questo presagire la flebo delle ultime ore, quando il corpo è affetto dall’ittero, il volto irriconoscibile, una mummia vivente a cui non hanno svuotato le viscere.
L’etere è solcato da messaggi.
Mancano gli intercettori. I demoni sfrecciano incrociandosi. Gli Olmechi lo sapevano. Prediligevano cibarsi di radici e cereali, mummificando i corpi di chi abbandonava il loro tempo così curvo da collassare su se stesso.
Casalinghe olmeche e insegnanti occidentali ai tempi del rover su Marte.
Lei è in ogni istante a conoscenza di quanto le è successo. Parlare non conduce alla cura del passato. Il passato è raffinato e sa riemergere. Una nuova razza olmeca, ferocissima, oggi, potrebbe essere richiamata in vita dalla transgenesi. Un lembo di una mummia olmeca potrebbe garantire il dna, le doppie eliche che restano incapsulate nel tempo, pronte a risvegliare antichi orrori.
Ecco, il corso dei suoi pensieri, di lei che costeggia il discrimine, di lei investita dallo risacca della disperazione lenta, definitiva. Immedicabile, che proviene da prima, da sempre.
Nessuno la capisce e lei nasconde un terribile segreto.
Un sacrificio umano.
Lei ha compiuto un sacrificio umano senza disporre della visione degli dèi che lo pretendevano, senza scrutare gli astri dagli osservatòri naturali di Tenochtitlan.
Lo sa, non lo rivela, sta vivendo dopo una vita, è già morta.
Tutto è finito.
Lui lo sa e dice: “Devo finire”. “Finire prima di andare a lavorare” dice e si alza e va a studiarsi i documenti per quanto sta per accadere, più importante della riunione più importante della vita. Sempre, qualcosa, dopo, è più importante di qualcosa di importante prima.
Quando esce lui, lei è seduta sotto l’esasperante getto di luce dalla finestra, in controluce una mummia carbonizzata dal tempo, di otto anni, incantata che non vede la fiancata senza finestre del palazzo di fronte.

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