di WILLIAM T. VOLLMANN
[da “The Review of Contemporary Fiction”, conversazione con Larry McCaffery, 1993]
Il mio mondo primario e basale è un “mondo di sogno” in cui vivo da quando ero ragazzo. Questi mondi che vedo e dei quali scrivo sono dunque reali e coesistono, e io non devo lasciare il mondo suppostamente reale per abitare ed esperire gli universi di cui parlo. Credo si tratti di qualcosa di simile a una vocazione. E tuttavia mi è chiaro che, per queste stesse ragioni, tali universi sono al medesimo tempo irreali, il che comporta che io non possa prendere troppo sul serio nulla di essi. Nessuno di questi universi ha precedenza sull’altro. L’amara verità è che io mi annoio con quasi tutte le persone comuni. Non è che io ritenga di essere migliore degli altri (se proprio devo dirla tutta, è piuttosto vero il contrario: io penso sinceramente che gli altri siano persone migliori di me, visto che per loro è più facile essere felici e vivere la propria esistenze, laddove per certe ragioni io sono costretto a cercare senza requie qualcosa di nuovo e di non comune). Mosso da una simile predisposizione, esercito una ricerca che risiede totalmente nel reperire gente che non ha niente di familiare per me. Ciò spesso comporta che io mi infili in vicende che sono assai vicine a quel “mondo di sogno” di cui fin da ragazzino ho fatto esperienza, e più le persone con cui vengo in contatto mi offrono difficoltà di approccio e comprensione – cioè: più io apprendo -, più io mi sento a casa. E’ in questo modo che perfino il processo di ricerca dell’esotico o dell’improbabile diventa un’abitudine. E’ come un sogno.
Nella mia esperienza di scrittura sono sicuro sia implicita una sorta di tendenza all’autodistruzione, ma perfino ogni cane ama il proprio angolino territoriale che può marcare pisciandoci sopra. Uno dei modi in cui io riesco a marcare il mio territorio è risolvermi ad andare in luoghi in cui gli altri scrittori non hanno la minima intenzione di recarsi. In questo modo non avverto la benché minima competizione – non essendoci scrittori che potrebbero scrivere meglio di quanto io faccia circa quei posti. Sono inoltre irresistibilmente attratto dall’estremo perché ho avuto modo di osservare spesso che i casi estremi allegorizzano i casi generali, e spesso i casi estremi riescono in ciò con una potenza molto più memorabile di quanto sortisca il caso ordinario.
C’è anche da considerare che io sono affascinato in massimo grado da ciò che è esotico e improbabile. Di base è come se io sentissi che io sarò sempre – e, spesso, a contatto con l’esotico e l’improbabile, mi sperimento in situazioni di estremo pericolo, il che è quintessenziale all’esotico e all’improbabile. Se non esistessero barriere tra me e l’improbabile, non si tratterebbe di improbabilità. E ciò che crea simili barriere è pericolo o estrema difficoltà. Quando è necessario che io agisca velocemente, compio comunque atti pericolosi. D’altro canto è vero che nulla di ciò che faccio è poi così mortalmente pericoloso. Sono gli altri che si dispongono a creare una mistica delle mie attività creative, non io.
Circa le epigrafi e le citazioni e le fonti nel mio lavoro, va detto che il 95% di ciò che leggo, lo leggo per lavoro. Siccome però il mio lavoro coincide con il mio piacere, si ottiene che leggo per piacere. Il restante 5% di ciò che leggo è casuale, libri che apro perché mi fanno intravvedere interesse. L’altro giorno, in libreria, per esempio, ho comprato un catalogo sugli strumenti di tortura dell’Inquisizione, il Mishima de La voce delle onde, un trattato di Eliade sullo Sciamanesimo che da tempo desideravo studiare, un manuale di tecniche per dipingere disegnare e scolpire. Una serie di acquisti tipici dell’eterodossia che mi interessa, la quale è comunque distinta dall’àmbito delle letture che compio in relazione a quanto sto scrivendo.
Tra gli scrittori dell’ultimo secolo apprezzo soprattutto Hawthorne e Faulkner. Hemingway è una splendida esperienza di lettura per me, soprattutto Isole nella corrente e Per chi suona la campana – vale a dire la grande narrativa di suicidio. Mi piace A Dreambook for Our Time di Tadeusz Konwicki. Adoro tutto ciò che ho letto di Mir Lagerkvist, la trilogia Kristin Lavransdatter di Sigrid Undset’s, Multatuli, Amori ridicoli di Kundera, Questo posto di Andrea Freud Lowenstein (che meriterebbe maggiori riconoscimenti di quanto abbia fin qui ricevuto), The Greenlanders di Jane Smiley (che mi ha riservato la splendida esperienza di essere letto pochi mesi dopo che io avessi completato il mio libro sui vichinghi, The Ice-Shirt), Evans e Agee, Farley Mowat, i primi tre libri della tetralogia di Mishima Il mare della fertilità, Proust, L’Assomoir di Zola, Il Samurai di Shusaku Endo, i primi due libri della trilogia di Mervyn Peake, William Hope Hodgson, le storie di amore di Poe, tutto ciò che ha scritto Malraux (ma in special modo le Anti-Memoires), il Nabokov di Gloria e Cose trasparenti e Ada, Pierre di Melville, Correzione di Thomas Bernhard, David Lindsay in Viaggio ad Actarus, Un oscuro scrutare di Philip Dick, certi racconti di Heinrich Böll, La storia di Elsa Morante, i primi tre volumi dell’Alexandria Quartet di Lawrence Durrell, e tantissimi altri ancora. C’è molto di più di questo in quanto ho amato del secolo scorso. E mi spiace non dichiarare il mio amore per opere non così vicine a noi nel tempo, come la Saga di Genji, che è uno dei capolavori di sempre che io prediligo.
L’idea di costruire una sequenza che si sarebbe intitolata Seven Dreams mi è venuta in maniera abbastanza complessa. Nel 1982 ero andato in Afghanistan, e lì consideravo questa tensione verso l’esperienza drammatica dell’esotico e dell’improbabile. Suppongo che ciò che stavo tentando fosse il confronto con un’alterità estranea, straniera. In seguito considerai che era estremamente difficile conoscere se stessi, ancora più difficile conoscere l’altro, ma ciò che era più difficile di tutto era comprendere e interrelarsi con ciò che è straniero. Così, scrivendo An Afghanistan Picture Show, conclusi esprimendo l’idea dell’inconoscibilità dell’esperienza fatta dai nativi di quel Paese. Il che mi spinse a mettere maggiormente a fuoco la mia attenzione su fatti e vicende maggiormente vicini alla mia storia e al posto in cui ero nato, e questo è uno dei fili rossi che legano tra loro i racconti di The Rainbow Stories – tentare di capire che cosa sia l’America. La fascinazione per l’esotico e il lontano scoprii che veniva esercitata su di me anche occupandomi dell’America. Desideravo scrivere di anime perdute e di emarginati, con la speranza che forse, comprendendoli, li avrei in qualche modo aiutati, così come avevo desiderato fare con gli afghani. Scrivere i racconti di The Rainbow Stories mi ha condotto alla conclusione che non capisco realmente nulla nemmeno dell’America e che non ho probabilmente speranza di capirne mai davvero niente. Allora mi è capitato di considerare che una delle strategie per capire sarebbe dovuta essere quella di risalire alle origini dell’America: da dove eravamo venuti e come siamo mutati. Mi parve un’ottima idea andare agli esordi americani: alle popolazioni indigene, agli indiani – risalendo il più lontano possibile, ai primi contatti tra europei e indiani d’America di cui si trovi traccia, descrivendo tutto ciò che da quel momento è accaduto, in un ciclo di romanzi che coprisse all’incirca un millennio.
Il primo libro di questo ciclo, The Ice-Shirt, racconta come il primo popolo che sappiamo sbarcò in America (i vichinghi) arrivò nel continente intorno al 1.000 dopo Cristo, venendo in contatto con gli indiani e tentando di radicarsi qui, senza però riuscirci. Mi hanno da sempre interessato le Metamorfosi di Ovidio, e da Ovidio ho mutuato l’idea che nel nostro continente si siano succedute diverse ere, ognuna delle quali meno mitica della precedente. Per ragioni poetiche e didattiche ho stabilito che questa serie di epoche erano in numero di sette e che quindi ci sarebbero stati sette “sogni”. Nel primo di questi “sogni”, cioè The Ice-Shirt, i vichinghi danno inizio a questo immenso processo di degradazione con l’introduzione dell’uso del ghiaccio in Vinland (che è il nome che diedero al Nordamerica). I “sogni” successivi esplorano altri aspetti di quest’idea di fondo del concretarsi del mito, culminando nel presente, dove si giunge all’acme della densificazione del sogno stesso.
La metamorfosi è una delle principali e precipue attività degli esseri umani. Cerchiamo sempre di trasformare noi stessi in ciò che ancora non siamo e che magari non saremmo mai. Siamo impulsati da questa attività metamorfica dalla noia e dall’infelicità che deriva da quanto già siamo, oppure dal senso di sazietà o dal desiderio di miglioramento di noi stessi. A prescindere comunque dalle ragioni che spingono alla metamorfosi, il fatto è che la trasformazione è un’attività per noi centrale. La gran parte dei miti di creazione (forse tutti) hanno a che fare con questo tema. In un certo senso, la storia è semplicemente una descrizione di metamorfosi. Trapassando dal mito alla storia, l’essere umano compromette e perde molti dei propri poteri. Di colpo non siamo più in grado di descrivere noi stessi che ci trasformiamo in uccelli o acquisiamo poteri soprannaturali (oppure ci riusciamo molto di rado e in forza di eccezioni), anche se ancora riusciamo a mutare il nostro carattere in un altro tipo di personalità.
Il primo dei Seven Dreams è in parte dedicato a questa particolare barriera che separa il mito dalla storia. Nell’antichità gli uomini si trasformavano in orsi, poi all’improvviso una simile operazione di sogno divenne impossibile. Al momento presente, ci troviamo nel range di che precisa la consapevolezza nell’uso di memoria e storia. Ci si immagina che accadde un certo fatto in un certo luogo e in un certo tempo, ma non si ha la certezza assoluta che accadde davvero o meno.
La mitologia americana moderna è sempre stata legata all’idea della possibilità di mutare ciò che si è, ma ormai la trasformazione di questo continente è giunta al termine. Ciò che resta dei potenziali trasformativi può essere estrapolato da forze che stanno già agendo qui e ora, non nel futuro. Non sto facendo mio l’argomento hegeliano che la storia avrebbe un termine, e nemmeno suggerendo di essere a conoscenza di ciò che accadrà nel futuro. Le cose, in questa nazione, continueranno a cambiare e magari anche radicalmente. Tuttavia la mia sensazione è che le trasformazioni massicce e violente che incombono su di noi (il che accadrà sempre, perché la storia così si autoconfigura) non proverranno dall’interno, ma da qualche fonte esterna. Potrebbe accadere che l’attuale status quo del potere globale vada a inficiarsi, riducendoci a un ammasso di piccoli stati che non determinano più mutamenti planetari. Oppure si può immaginare che lo sviluppo indiscriminato, al quale ci siamo legati, comporti morte e sofferenza al punto di ridurre l’America a qualcosa di secondario.
Ciò che scrivo è centrato su questo movimento mitico-storico.
A fondamento dell’estetica a cui mi riferisco c’è l’onestà: onestà intorno alla bellezza e alla brutalità che l’umano esprime. Il tentativo a cui lavoro è quello di aiutare me stesso e gli altri ad accettare la fondamentale inerzia e l’assoluta brutalità delle cose. La religione opera in questo senso. La letteratura può farlo.