Voluto e tradotto dal romanziere e impegnatissimo intellettuale Serge Quadruppani (qui il suo sito ufficiale), per le Editions Métailié, la cui collana di narrativa italiana è un gioiello internazionale di cui noi del Belpaese dovremo essere grati proprio a Quadruppani, è in uscita il 15 marzo L’année lumière, edizione francese de L’anno luce, romanzo risalente al 2005 e pubblicato in Italia da Tropea-il Saggiatore. E’ semplicemente un onore essere editi nella collana allestita presso Métailié, così come lo è essere tradotti da Quadruppani, scrittore e traduttore delle più varie modalità stilistiche della lingua narrativa italiana, che qui devo ufficialmente ringraziare per l’ostinazione, la pazienza e la fatica con cui ha tradotto e fatto pubblicare un testo difficoltoso e non certo di grande facilità commerciale. Questa la scheda allegata:
Présentation de l’éditeur
À Milan, une entreprise de téléphonie mobile célèbre ses succès commerciaux en même temps qu’elle est confrontée à une tentative de prise de contrôle hostile de la part d’une société anglaise. L’un des principaux dirigeants de la société milanaise, que tout le monde appelle Mental, découvre en rentrant chez lui son épouse plongée dans un état de sidération sur lequel la médecine a peu de prise. Qu’est-ce qui a pu la plonger dans un tel état de choc ? Mental va découvrir, en même temps que la liaison de son épouse avec un très étrange adolescent surdoué, les agissements de l’Affairiste, vieil agent d’influence rappelé d’Afrique du Sud par les Anglais, tandis que peu à peu se dévoilent les projets communs de la société et du Vatican, décidés à exporter dans les étoiles le délire technologique érigé en religion.
Giuseppe Genna, auteur confirmé d’outre-Alpes, a publié une douzaine de romans noirs et de romans de littérature générale. Ont été traduits en France Sous un ciel de plomb, Au nom d’Ismaël et La Peau du dragon (Grasset).
A celebrazione di questa uscita, che segna il ritorno di una traduzione all’estero di un mio testo, pubblico un brano italiano da L’anno luce, rimasto finora inedito in forma digitale (avevo già pubblicato on line la Scena dell’inverno nucleare). Non prima di avere specificato che, quanto alla forma-romanzo, L’anno luce, che ai tempi definii “romanzo neoborghese”, è il precursore, molto esploso e labirintico, estremamente strutturato per devianze, di una narrazione che anticipa il mio prossimo Fine Impero e quanto verrà pubblicato nel prossimo futuro: una visionarietà cercata come cifra di una rappresentazione dell’oggi o di un’ucronia che è impossibile non scambiare per l’oggi.
Ecco il brano.
“Non considerare il potere, la ricchezza e il prestigio come i valori
superiori della nostra vita, perché in fondo
essi non rispondono alle attese del nostro cuore”
Benedetto XVI, udienza generale 1 giugno 2005“L’universo mi teme, i miei occhi vedono la Geenna”
Apocrifi neotestamentari, “Apocalisse di Esdra”, 29Entra il Faccendiere
Il racconto costringe ora a deviare momentaneamente dalla drammatica situazione in cui versano il Mente, Maura, la sorella di lei e l’azienda del Mente, per introdurre a sorpresa un nuovo protagonista della vicenda.
E abbiamo soltanto accennato a quel ragazzino, il cui corpo era slacciato nell’acqua rossa di sangue nella vasca!
Conta poco, tutto ciò. Ora è l’ora di quell’uomo che si è visto passare come un’ombra fuori della stanza d’ospedale dove Maura è ricoverata.
E’, quest’uomo, quello che si definirebbe un personaggio oscuro, tenendo presente che serve luce per avere idea dell’oscurità. E’ un’eminenza non grigia, ma nera. Nemmeno: egli muta colore.
La sua comparsa nella vicenda del Mente ha un prologo: inaspettatamente nel Sudafrica, ai margini di un’immensa assolata prateria arancione, che va a fondersi con una foresta di sconvolgente e conturbante bellezza, le cui dimensioni e la cui intima vita sono totalmente aliene da quanto concepisce essere vita qualunque personaggio finora apparso nel racconto. Mangrovie profumatissime sono percorse da rettili letali, che sarebbero mostruosi se non fossero naturali. E negroidi disadattati che vivono vicende impossibili a raccontarsi ruotano in miti eterni le loro esistenze, che al Mente sembrerebbero ufologiche o pittoresche, ottocentesche.
L’eminenza oscura che qui inaugura la sua parte nel racconto è un faccendiere e ha ricoperto notevoli incarichi a latere di operazioni condotte da numerosi servizi segreti occidentali. Nella storia di Italia, che è la nazione in cui si svolge il racconto, un personaggio simile ha ottenuto i favori delle cronache ai tempi dello scandalo P2, del crack Ambrosiano, della morte del banchiere Calvi e di quella del banchiere Sindona. Si chiamava, quel faccendiere, Francesco Pazienza. Ma Pazienza non finisce mai: il mondo è pieno di Pazienza, ha infinitamente Pazienza. I manager Hollyburton che consigliano il vicepresidente statunitense Cheney; i contrattisti del magnate dei media Murdock; gli stessi alti gradi Enron e Parmalat; le forze segrete su cui contava ai tempi di Reagan l’ammiraglio Oliver North; gli inviati presso Panama a trattare con Faccia d’Ananas, il generale Noriega; coloro che tramano contro le principali Telecom delle nazioni occidentali: sono questa pasta di uomini, sono uomini simili al personaggio di cui si sta qui trattando.
Egli è finito in Sudafrica come spesso è capitato a storici operatori di intelligence e a faccendieri che per conto di costoro hanno lavorato: un esito borghese e al tempo stesso esotico di una vita condotta nell’indegnità, nella sopraffazione crudele e sottaciuta, nel ricatto, nel complotto interno a una sterminata macchina cospirativa, di cui ogni potere si è servito da quando si è imposto sul pianeta il regno dell’uomo.
Il nome di quest’uomo è Anthony Brook, inglese con madre italiana, nato a Leeds sessanta anni addietro e naturalizzato in seguito cittadino statunitense, dopo avere sposato una collega, con la quale, pur non avendo generato figli, ha condiviso un amore insospettabilmente fedele e intenso. Questa potenza amorosa, che è un’alleanza nel puro reciproco incanto, costituirebbe un’eccezione nella vita oscura di Anthony Brook, se non fosse una costante sempre attiva da quando egli ha conosciuto e folgorantemente ha amato la sua compagna, la quale si chiama Antonya Brook.
Nell’intelligence internazionale, che è un mondo lussuoso e sfolgorante simile a una Hollywood segreta e diplomatica, i nomi non valgono, non hanno diritto d’asilo. Una persona non coincide con il suo nome, poiché ognuno può disporre di mutevoli ma consolidate identità fittizie. Ogni operatore è noto agli altri, spesso di parte avversa (il che è sempre transitorio, poiché gli avversari di oggi sono gli amici di stasera), con una sigla che ne decreta la leggenda personale. Così Anthony Brook non è conosciuto come Anthony Brook, bensì come il Faccendiere, o l’Uomo Che Sbriga Le Faccende, per la capacità che ha dimostrato di violare, con negazioni irriverenti, l’andamento di piani concordati, per raggiungere risultati d’eccellenza con modalità sorprendenti e perciò tanto più efficaci. E, come osservato in precedenza a proposito del Mente, qualcosa di effettivo viene conservato nei soprannomi. Non nel caso tuttavia dell’amore che Anthony consuma, fiamma lenta e calda e mai minacciata in anni e anni, per sua moglie Antonya, per la quale egli si è adoperato a non risolvere mai le Faccende d’Amore: non va risolto, l’amore; questo è l’insegnamento della vecchia generazione occidentale.
Quando l’avventura professionale del Faccendiere fu, a sua detta, giunta al termine, Anthony e Antonya si risolsero a trasferirsi nel nord del Sudafrica, poco dopo che Nelson Mandela aveva assunto la presidenza onoraria del paese. Introdotti comunque nell’élite (essi conobbero in anticipo su molti altri addetti della comunità governativa il segreto di Mandela: il figlio Makgatho ammorbato dall’Aids), dimoravano in una splendida casa coloniale, bianca dalla vernice parzialmente screpolata e tuttavia accecante nella luce del mezzodì, proprio ai margini della pianura di savana opposti a quella foresta di mangrovie rettili e aborigeni.
Lì, nemmeno sei mesi orsono, Antonya è stata aggredita: da un tumore al midollo.
Ed è morta.
Nello svolgimento della sua professione il Faccendiere mai ha ucciso un uomo. Uomini sono morti, per le varie operazioni segrete, ma non li ha mai uccisi lui direttamente. Non ha mai visto un cadavere, la morte non è faccenda da Faccendieri.
E ora Anthony sta assolvendo all’ultima volontà di Antonya: che è essere sepolta con un rito celebrato da quegli aborigeni, che lei aveva studiato conosciuto e amato in questi anni, proprio sul confine tra la pianura di savana e quella foresta.
Sembrerebbe una fiction e invece è vero. Sembrerebbe improbabile e invece è solo cultura, sovrapposta alla natura.
L’entrata di quest’uomo nel racconto è una tragedia personale, privata, occultata agli occhi di chiunque se non a quelli di aborigeni catapultati nel presente da un tempo buio, terrifico, ritualizzato.
Entra il Faccendiere.Allucinava, da mesi. La mente che vacilla è una difesa all’inadeguatezza che lascia scampo.
Giorni prima aveva visto il cielo – una giornata calda, i contorni delle mangrovie nell’orizzonte arancione che parevano monoliti di basalto – il cielo a forma di una sterminata rosa azzurrina. Per ore era rimasto incantato, il televisore acceso dentro alle sue spalle, nel buio fresco della stanza, dove era il divano su cui sua moglie moriva un giorno di più. Ogni giorno, una porzione di morte.
Può un uomo tollerare questo dolore? Che cos’è il dolore? Chi soffre non è profondo, finalmente. Non essere profondi è finalmente la modulazione del riposo, dell’amore concesso.
Come faceva Antonya a scrutarlo serena, smangiata dal giallo limone dell’ittero del cancro, sotto la zanzariera che si scuoteva dolcemente nella brezza? Il vento attraversa la casa, la sorte attraversa l’uomo, e la donna.
Anthony Brook, detto in altri tempi e altrove il Faccendiere, era uscito a scrutare l’orizzonte piatto e magnificente dopo avere visionato nel televisore, insieme a sua moglie a cui mancavano poche ore, le immagini trasmesse da tre miliardi di chilometri dal punto in cui si trovavano entrambi, lui il vivo e lei la morta: la sonda Cassini-Huygens era entrata nell’orbita di Saturno, il pianeta magnetico con il nucleo in roccia rovente, dieci volte la Terra, la superficie striata fatta di gas e battuta, sotto la coltre di nubi solforiche, da venti che raggiungevano i 500 chilometri all’ora. Essere investito da quel vento solforico! Cancellàti! E la sonda, sparata sette anni prima, in piena notte, innalzatasi nella luce di un giorno artificiale per la deflagrazione del combustibile pressato nei razzi, in accelerazione fuoriuscita a fatica e con enormi stridii delle strutture dall’atmosfera densa e rara della sfera terrestre, si era trasformata nel percorso, aveva espanso la larga antenna in carbonfibra di fattura italiana, un proiettile idiota a strumentazione intelligente, in vista l’enorme sfera di gas compresso in materia solida, placido, numinoso, di Saturno: marroncino, anellato.
Una nuova forma di intelligence. L’avanguardia del servizio segreto.
E la sonda, sette anni dopo, si era capovolta, per proteggersi dalla materia inerte che ruotava a forma di ciclopici anelli intorno al pianeta liquido Saturno, anelli rosacarne, polvere in stato adiabatico. Aveva decelerato. Era stata attratta e catturata dalla gravità del globo liquido. E aveva inviato le prime foto: sgranate, in bianco e nero, fantastici giochi regolari di materia in fluttuazione. E il pulviscolo che si piegava docile alle variazioni del vento solare, spostato dai fotoni che percorrono in uscita il sistema. E, giù, a ventimila chilometri, le prime tempeste letali, furibonde, che sconvolgevano la superficie incerta del pianeta. Aveva detto il responsabile americano della missione: “Servirà a comprendere cos’era la terra al suo primordio”. Anthony e sua moglie che stava morendo erano rimasti incantati dalle foto di quegli anelli: una seta, sembrava, un tessuto accarezzato nel libero infinito, nero. Cosa pensava che fosse, l’idiota americano, la Terra dei primordi? Questo grumo carcinomatoso, questa storia che si contrce su di sé, si avvizzisce…
Allucinava. Aveva inoltrato una domanda all’ospedale centrale di Joahnnesburg. Accettava il cancro, ma soltanto perché era di sua moglie, ed era consapevole di questa crudeltà naturale, e però rifiutava decisamente l’ipotesi dell’incoscienza finale di lei: sarebbe entrata nell’incoscienza! Ancora viva, per gli ultimi minuti, senza accorgersi di lui! La morte non è un affronto, è la natura sommaria delle cose tutte, ammesso che la natura sia sommaria.
Antonya aveva rifiutato il ricovero: “Qui è più bello. Mi fermo nella bellezza. Manca poco ormai, sarebbe inutile”. Sostituiva l’utile con il bello. I processi degenerativi avanzavano, nemmeno più un’insidia, ma uno sconfinamento conclamato. E la paura di finire demente non era per lei più forte delle metastasi: la paura non tutela la vita, la paura è più della vita. L’inferno in terra: un annuncio. Come possono non rendersi conto di un’ovvietà così evidente, i medici e gli ospedali? Pazzi scientifici. Il loro delirio riduzionista. Le loro tragiche misinterpretazioni dei fatti. I loro bilanci da laboratorio. La ricerca dei fondi. A scavare, sotto qualunque azione, ci trovi questo: diplomazia, compromesso, il sottobanco accessorio. Il sale del divenire. L’aceto dato da bere al Cristo. Lo scandalo.
Insorge, si muore. E’ così. Un giorno una cellula devia, attiva nere potenzialità che ha proprie, in istato latente. Le potenze delle cellule: stando alle potenze, potrebbe esistere un antimondo cancerogeno, nero, che vuole fortemente prolificare. Un universo in cui una cellula sana sarebbe pronta a corrodere e sarebbe investigata come patologica. Un mondo teratologico, corpi devastati dai bubboni che funzionano armoniosamente, sostanze colloidali, metastasi libere di esprimersi, una creatività divaricata, sovraccarica di speranze, intimamente diretta alla sopravvivenza dell’equilibrio – di un equilibrio diverso. Recentemente certi scienziati avevano identificato quello che gli organi di stampa avevano battezzato “il vagito dell’universo”: era un tumore sonoro. Lo si poteva ascoltare in Rete (Anthony e Antonya l’avevano ascoltato insieme, e lei sorrideva dolcemente, pazientemente): il suono primario, ultraprimordiale, la prima frequenza emessa dall’immenso bambino universale, lo stridio impressionante era alla fine un salto di ottave, anonimo e perciò ancora più bestiale, freddissimo. L’espandersi organico di un grande animale cosmico, intessuto di materia e di pensiero, che divora ciò che gli è esterno, portando esso stesso il verbo dello spazio nelle regioni non fatte di spazio, che lo contengono, esplodendo nei quark e nei mesoni e nei muoni, facendo impazzire le stringhe, le teorie, la fervida immaginazione compressa nello stato potenziale, che al suo interno si sarebbe manifestata in forma di carne umana. La vita come tumore che va in metastasi, conquista lo spazio silenzioso e pacifico.
E c’era da ricordare, qualche anno prima, quando Hubble era in piena funzione e osservava stupito il messaggio di una luce antica di milioni di anni, che l’astrofisico Stephen Hawking, quella striscia di carne andata a male e contorta che desidera confinare Dio in una formula, definì “ultimo grido della materia” la frequenza emessa da un sistema solare che veniva inghiottito da un buco nero. Hubble e Hawking: feti che scrutano l’immenso utero bambino, in perenne espansione, finché la catastrofe non si rovesci e tutto torni su di sé, oltre l’innominabile punto iniziale, la superfibrillazione di più materie, di luci oltre la luce, di piani infiniti che collimano distinguendosi. Hubble e Hawking: la macchina lucida senza intelligenza e l’uomo deforme compresso nella testa.
Dai fatti, si scivola nel delirio.
Questo era capitato ad Anthony con l’approssimarsi, ormai imminente, della morte di Antonya.
“Sono un cadavere in movimento”, si diceva. Cos’è questo corpo fatto di cibo sedimentato? Minerali, sostanze grasse, lardellari. Una marionetta molliccia, un funzionamento scadente. La spugna dei polmoni, i bronchioli scoppiati. Una sacca svuotata. Che differenza, qui e ora, tra lui e Stephen Hawking? Se non altro, Hawking disponeva di una compassione mondiale. Un tributo generalizzato, l’ammirazione della platea planetaria. E’ storto e vede i segreti legami tra gli astri. Ma lui, Anthony? Soltanto rancore. Bastava toccarlo e i pori secernevano sebo e rancore.
Aveva vissuto nel crimine e nel segreto eletti a norma, e questo lo tormentava: si stava facendo vecchio, evidentemente, e la morte imminente di sua moglie certificava l’imminenza della sua. La mente è pura ossessione. E compulsiva, per di più. I pensieri, le idee, le più alte creazioni dell’uomo: sono ossessioni. La mente del neonato è calma, un sonno senza eguali. La increspano ossessioni. L’uomo reagisce al mondo ossessionandosi. L’esternalizzazione dell’uomo è malattia allo stato puro: malattia mentale. Perché non era mai nato un antiuomo a dire come stavano davvero le cose? Quale bisogno abbiamo di nascere e di reagire? Nascere significa reagire. Sentire è irritarsi. Che avventura penosa!
Era ossessionato dal ricordo di incarichi e operazioni lontani nel tempo: il ricatto perpetrato facendo sparire una bambina tedesca, le foto del pompino di un ministro inglese a un giovane con i capelli a spazzola arancioni. E da cos’altro era tormentato?
La colpa sorda gli premeva sullo sterno. Si sentiva cristianizzato, cattolicizzato. Ammetti tutti i tuoi errori, Anthony, vecchia cotica andata a male. Confessali prima di morire. Questo sudore cristiano lo mandava ai pazzi. Che bisogno c’era? Dov’era l’ultimo giudice? Chi gli calcolava la pena?La pena era stata comminata e fu eseguita il mattino, alle quattro, fuori il cielo era fosforescente sulla pianura argentea a quell’ora, nel vento già caldo: Antonya rantolava e poi non rantolò più.
Anthony preparò il rito.
Aveva contattato, come richiesto da Antonya mesi addietro, gli stregoni degli aborigeni.
Restò un giorno col cadavere di lei sotto la zanzariera.
Il giorno successivo, non avendo dormito, gli aborigeni vennero a prenderla e Anthony seguì docile il piccolo corteo negro, piumato, coloratissimo.
La seppellirono saltando, ululando stridii di risa, incenerendo un serpente morto sul piccolo tumulo in terra battuta, nel quale fu inserita, su richiesta di Anthony, una croce in legno bianco: paletti militari.
Pensava di essere debole, cariato: pensava di essere giunto alla fine.
In pochi giorni, invece, all’abbattimento profondo, per causa del quale non riusciva nemmeno a muovere la mandibola e a parlare, si trovò a guidare verso Johannesburg il suo pick up.
Avanzò la proposta a un amico che continuava a collaborare con un’agenzia privata di intelligence aziendale. Trascorse qualche giorno, e poi l’incarico arrivò.
Sul divano dove moriva sua moglie, distese la foto sgranata d el manager italiano detto il Mente.