“Knight of cups” di Terrence Malick è il migliore prodotto di un occidente alienato dalla realtà, qualunque cosa significhi questo sostantivo privo di indicazioni: la realtà umana, la realtà naturale, la realtà artificiale, la realtà economica, la realtà artistica, la realtà trascendente, la realtà… Noi per ore assistiamo a un montaggio, tecnicamente assai raffinato, di immagini, tecnicamente assai raffinate, di una non vicenda di uno stronzo straricco di Hollywood, che è stordito dal disagio esistenziale e sembra uscire da una serie di spot girati per la fashion week, in set naturali pazzeschi, che già si erano visti nella parte finale di “Tree of life”, e in set per nulla pazzeschi, che sono la versione aumentata di piazza Gae Aulenti a Milano e l’emulazione fallita del minimalismo futuristico di “Gattaca”. Questo pezzo di merda che si trascina nel vivere, tra una figa e l’altra, con un’unica donna in mezzo che sarebbe interpretata da Cate Blanchett, è uno stralunato Christian Bale, a cui augurerei un salutare soggiorno presso le magioni di Calvairate, per apprendere che esiste una realtà reale. Malick intende non tanto praticare la critica del 2.0 o del postconsumismo o della superficie occidentale, quanto utilizzare tutto questo per mostrare la pressione di un trascendente, o trascendentale, che definire confuso e carnacialesco è poco: si tratta, dopotutto, di un americano che ha studiato la teologia cristiana e lo gnosticismo, riportandone l’idea che aveva ragione Dostoevskij a non capire nulla, letteralmente nulla, di metafisica. Malick resta al conato metafisico, noi a quello di nausea. Non si comprende perché il film non duri un quarto d’ora o tre ore in più. E c’è ovviamente il tema del papà che è cattivo e buono e adesso è vecchio, e il fratellino morto e quello vivo che rompe i coglioni, e lo schifo del mestiere che non si vede praticare mai in quanto qui nessuno lavora mai, e poi la moda e i poveri barboni esclusi, e poi il sesso enfatizzato contro il sogno della fatica. C’è perfino il rombo arcaico della terra che ti dice che l’umano basta un soffio e non c’è più. Capirai. Quando enuncio un fastidio, del tutto personale, per la scrittura delle storie, non significa che io pensi che le storie non siano un elemento necessario; io vorrei trascendere le storie, ma, se non ci si prova in modo appunto trascendentale, allora è meglio stare nella storia, nelle storie. Vorrei chiudere qui la leggenda personale del Malick regista schivo, misterioso e grandissimo. Per carità, c’è spazio per chiunque, però in quello spazio ecumenico si vede benissimo chi è un grande artista e chi no: e Malick, finora, a parte alcuni elementi della sua sottilissima linea rossa, per me non è uin grandissimo artista, non è l’imprescindibile, crolla davanti ai primi sette minuti di “Post tenebras lux” di Carlos Reygadas, che è un film non imprescindibile di un regista finora non del tutto imprescindibile, il quale si pone proprio all’incrocio in cui vorrebbe, senza riuscirsi, piazzarsi Malick. Se uno nasce nell’Illinois, però, c’è un problema, una tara, uno svantaggio iniziale: è americano, quindi è un coglione a priori, deve emanciparsi dalla coglionaggine. Lo studio non basta, neanche la teologia, tantomeno l’aura basta, soprattutto in questo tempo. Non mi sono poi mai fidato degli americani che indossano dei cappelli alla Indiana Jones: facevo bene.