Seguendo la via regia dei balocchi, una volta, sotto la volta fresca dei soggiorni ai pianterreni, noi si conosceva che babbo e madre erano velami della mirabile visione, facevano velo e paratia, interdicevano, all’esistenza di soffitte o scansìe occulte, serrate dalle serrature incancrenite, cerniere secolari, cardini incrostati dall’antiquaria rugginosa sostanza di età in cui noi bimbi non eravamo, se non girini dell’immaginaria possibilità che l’universo medita di fare e che, si sa, andrebbe di lì a poi a concretarsi nel sego e nell’ossa di questi nostri corpicini nudi, adusi alla coccola e alla carezza, con i dentini a doppia schiera che vengono a galla nelle polpe gengivali e di lì danno sfogo alla voracità dei così detti piranha che ci siamo trovati a essere senza rammemorarlo nel mentre che l’eravamo, salvo poi pigolare i pianti come i coccodrilli, tutti a seguitare in pianti su pianti adulti poi circa le marmellate d’un tempo che fu e fu fumo, a cincischiare lacrime sui bui color melena, l’odorame di polveri antiratti e di ciprie, il vischio in mezzo alle gambe di cuginette e cuginetti, e l’innocenza tutta che i piranha si inventano di avere fatto a ruolo sui palcoscenici del mondo vano e tondo. Le serrature sono infatti altri padri e mamme, d’altra specie: noi li forzammo, onde accedere alla soffitta più impudica, e al balocco, all’aura marroncina, alla mirabile visione della penombra più rischiosa, per essere bambini veri! Croco alle viste ferite dalla lamina di luce obliqua che entrava da un finestrello oberato di grata a metallo morbido, contro le tarme e le cimici, luce che ci feriva la vista cisposa di malizia e escreto, aguzzandola verso la mirabile visione, noi si masticava torrone o paste di mandorle scadute e posse. Erano quei momenti. Erano quei momenti ristoro agli inchiostri, alla costrizione dei calamai, dei compiti scolastici. Calamai di inchiostro secco, di un tempo antequarantotto, li si trovava nella soffitta? Erano lasciti di nonni dei nonni? E le loro abusate punte argento morto delle stilografiche di rappresentanza? Quanti regesti avevano compilato con quegli steli d’avorio e di malacca? Come è stercorario l’uomo, colle sue rovine! Che ritiene?, di lasciare la traccia? Lascia lapidi ogniddove, memoriali che siano testimoni vivi ex post, a confermare le memorie, le quali sono immaginazioni!, e invece, puff!, l’è tutto un segreto disvelato, una gran polve sospesa in aria, soffiata dalla storia, che è una bella forma di cecità. La cecità maleducata, è la storia. Noi ridevamo con i nostri dentini al fluoro anticarie in quelle soffitte di anticaglie, con i tendoni verdi parasole tarmati e duri, che bene non si attagliano alla piega e si rigonfiano e così stanno lì a tenda, a volume irregolare, a strana geometria: sotto vive e succhia i succhi vitali propri la grande blatta ciliata o l’omino perditore nero o luccica l’addome laminato della persona brutta Fantaghirò. Noi si andava nonostante lo stranguglio, la paura, la stupefacenza, oltre la làmina di luce obliqua, là nel buio intatto, piccicando le mani sulle strisce antimosca o tra i candelabri con i bracci a due metri dall’assìto, di metallo maculato, in un aere illusionista e genitale. In quell’istante aureo ci avvertiva di essere fermi per sempre il tempo a fenditura, cieco. Questo però era accaduto prima che ci traducessero a contenzione educativa nel collegio sul colle Tenda, dove la memoria stabilita era sfingea a chi tentasse l’approdo ai locali dismessi, che non v’erano, e noi non si riluceva se non dando risposta al venerabile maestro tondo e polinsaturo, quando ci chiedeva di Pisistrato e delle discordie civili, dei laghi orientali in Giava e dell’utilità dell’amido: necessaria la risposta giusta, i raggi a aureola arridevano alla nuca per un attimo breve, troppo breve, che non durava fino a quando si correva dalla mamma a riportare la grata notizia dell’ottimo giudizio, perché non esisteva più la mamma, era un ricordo sdolcinato e offusco, una nientità, noi adesso si era del colle Tenda e basta, a inventare giochi e proibizioni, età dell’oro, oscuramente canali da percorrere tra pareti mute, colpi di fronte al chiodo vecchio nel muro portante e altre insofferenze che, dài, non è bello narrare qui e adesso, poiché essere mesti non è mai il caso e raccontarlo è il peggio, salvare dal tristume gli altri non è affatto una missione mia o tua, però è opportuno, dài, per non dire troppo del colle Tenda e delle sue macellazioni su di me, sulla mia progrediente infanzia. La soffitta è per i normali, noi non siamo del numero.