Prefazione a “Non Dualismo” di Nisargadatta Maharaj

E’ in libreria Non Dualismo di Nisargadatta Maharaj (il Saggiatore), un testo che raccoglie gli ultimi dialoghi del grande maestro advaita. Il volume è corredato da una prefazione a mia firma, che qui riproduco e che dialoga con il saggio Io sono, pubblicato dal medesimo editore.

L’indagine oltre l’io, oltre l’illusione
di Giuseppe Genna

Che cosa si intende per Non Dualismo? E’ un viaggio alla scoperta della natura della mente. E’, questa, una delle molteplici sintesi possibili di una disciplina che soggiace alle filosofie più rigorose e alle pratiche psicologiche più risolutive. Nel caso dell’insegnamento di Nisargadatta Maharaji, una delle personalità più eminenti dell’insegnamento Advaita (la traduzione sanscrita del termine Non Dualismo, appunto), si tratta di una via diretta e operativa a risolvere il perenne conflitto in cui l’umano è inscritto, un conflitto che l’umano soffre e che tuttavia non è reale, laddove la realtà è qualcosa che sta sotto e sostanzia l’apparizione stessa dell’individuo o, più precisamente, dell’entità che da se stessa si ritiene individuo: cioè noi.
Si tratta di una filosofia pratica, il che costituisce un aspetto che la cultura occidentale sembra avere emendato nel corso della sua complessa storia: il Non Dualismo non è un sistema di dispositivi del pensiero desunti dal mondo e al contempo calati in esso, bensì un’indagine reale e diretta al cuore stesso dell’esistenza – una prassi, appunto. Ed è la prassi più centrale, capace di risolvere quello che l’essere umano ritiene essere la vita per come è, un conflitto in mezzo al quale bisogna trovare il senso.
Esistono molte vie preposte alla risoluzione del problema di se stessi: religiose, iniziatiche, esoteriche, metafisiche, esistenziali, psicologiche e, ormai, persino scientifiche (il problema dello statuto della coscienza sta determinando l’attuale epoca delle macchine senzienti e, insieme alla robotica, le neuroscienze). Tutte queste direttrici convergono in un unico punto, che costituisce l’autentico mistero da indagare, ovvero la domanda: che cos’è la coscienza?
Si potrebbe dire che, lungi dall’essere un sistema organizzato in un’unica e irremovibile struttura, il Non Dualismo costituisce il cuore stesso di qualunque ricerca sulla verità e il senso. E’ la fase finale di ogni indagine sulla vita e su quel fenomeno che è la sensazione di essere noi stessi. Potremmo paragonarci a punti su una circonferenza; quelle vie di indagine rappresenterebbero gli infiniti, e infinitamente diversi, raggi del cerchio; e allora il centro risulterebbe essere l’Advaita, ovvero il processo finale di risoluzione del composto fisico e spirituale in cui agiamo e ci agitiamo.
Si potrebbe definire l’Advaita come “scienza dell’essere”: il suo oggetto di ricerca è quale sia la natura dell’essere e si tratta di una ricerca pratica, effettiva, condotta su se stessi, durante la quale si assiste a trasformazioni plurime del rapporto che si intrattiene con le proprie emozioni e i propri pensieri e le proprie percezioni. Siamo portati ad associare al termine “metafisica” un sentimento di astrazione e il significato di qualcosa di distante dalla realtà, di surreale addirittura; invece si tratta di una scienza estremamente pratica, dagli effetti molto concreti.
Il Non Dualismo è il momento in cui, abbandonando le diverse prospettive, ci si accosta al problema della propria identità e si lavora, tra sé e sé, per risolverlo. Non un’identità psicologica o storica o sociale o in qualunque modo qualificata, bensì l’identità in se stessa, il fatto semplice che ci sentiamo qualcuno o qualcosa. L’Advaita costituisce il momento centrale in cui si taglia alla radice il problema del proprio io, al di là dell’uso di qualunque “piattaforma programmatica”. Il Non Dualismo è un invito, è un magnete, è un insieme di facilitazioni, che ha come esito finale la liberazione di se stessi dalle catene del mondo e di quella sterminata legione, instabile e allucinatoria, che ha nome: io.
Indifferente ai tempi e alle condizioni storiche e ambientali, la dottrina Advaita non smette di accadere nella vicenda umana, riportando al suo insegnamento perenne, ovvero il nucleo centrale di qualunque metafisica e di ogni attività realizzativa. Non stupirà quindi che anche nel Novecento, un secolo irrequieto in cui alcuni studiosi di àmbito spirituale lamentavano l’assentarsi definitivo di figure magistrali, la tradizione Advaita abbia espresso interpreti e divulgatori che, a distanza di decenni, si possono riguardare come giganti di un lignaggio che prescinde dai confini e dalle epoche.
Uno di costoro fu senza dubbio Nisargadatta Maharaji. Il suo nome di battesimo era Maruti Kampli. Era nato nel 1897 a Bombay, città in cui esercitò il suo magistero, spontaneamente riconosciuto da migliaia di visitatori, una mobilitazione impressionante di occidentali e indiani che andavano a incontrarlo e a porgli le domande decisive sulle cose ultime, presentandosi presso la piccola tabaccheria in cui Maharaji aveva esercitato il commercio di bidi, le piccole sigarette indiane. Sposato, padre di quattro figli, era entrato in contatto con il proprio maestro, Sri Siddharameshwar Maharaj, all’età cruciale di trentatré anni, conseguendo in pochi anni la realizzazione, che ne fa uno degli illuminati contemporanei più seguiti e determinanti nella storia recente. All’indomani della sua realizzazione, aveva intrapreso un periodo di pellegrinaggio solitario, ritornando quindi a Bombay, per sistemarsi nel piano superiore della sua bottega di tabacchi, dove avrebbe insegnato per il resto della sua vita, fino al settembre 1981, accogliendo i molti devoti e visitatori con sferzante ironia, un metodo dialettico che sconcertava l’interlocutore, con cui venivano divelti i dubbi e le proiezioni di qualunque ricercatore, giunto alla presenza di questo maestro spirituale per indagare le verità promulgate negli scritti vedantini e incarnate direttamente da Nisargadatta.
I magistrali dialoghi, che legioni di visitatori intrattennero con lui, mutarono il corso di molte esistenze, il che di fatto è ciò che l’insegnamento metafisico comporta, se compreso secondo la giusta prospettiva, la quale è indissociabile da una pratica. E’ questo l’aspetto su cui il lettore occidentale corre il rischio di confondersi: non siamo di fronte a una filosofia astratta o a un sistema ideale, e nemmeno a una religione, bensì di una pratica reale, concreta e semplice, che richiede l’attenzione più alta, per essere esercitata e maturare in chi la esercita. L’insegnamento advaita, e quindi direttamente quello irradiato da Nisargadatta, è il percorso che conduce a comprendere che cosa sia la realtà e a estinguere le sofferenze. In occidente si è abituati a dissociare la filosofia da una prassi che permette realmente di percepire la fondamentale e naturale felicità in cui e da cui siamo creati, relegando alla fede nelle religioni un’azione che, di religioso, in effetti ha ben poco, poiché trascende qualunque àmbito e si pone come possibilità di azione certa, verificabile e istantanea, che ciascun individuo può compiere, seguendo le istruzioni fondamentali, semplici quanto potenti, che in sanscrito hanno dato origine a grandi sentenze (Mahāvākya) e che originano da una domanda fondamentale: “Chi sono io?”.
Si tratta dunque di comprendere cosa significhi davvero sperimentare la sensazione di esserci e di essere il proprio “io”. Da questa interrogazione, che pare semplice ed è radicale e deve essere condotta realmente sulla sensazione di essere se stessi, fiorisce una visione del cosmo interiore e di quello esterno, che conduce effettivamente alla comprensione dell’esistenza transitoria e illusoria del discrimine stesso tra interiorità ed esteriorità, il quale discrimine è appunto l’illusorietà dell’io. L’insegnamento advaita, e quindi quello di Nisargadatta, induce a un viaggio concreto alla radice di se stessi e della propria esistenza.
Per chi si accostasse su tale orizzonte, si può descrivere il percorso della ricerca nondualistica più come una superpsicologia, che come una mistica, per evitare di fuorviare e miscomprendere: siamo talmente abituati al canone storico occidentale, che spesso sfugge l’aspetto sperimentale e pratico della ricerca sull’io, che nella civiltà occidentale è sottoposta a filtraggi storici e filologie consolidate.
Eppure, come detto, si è sconcertati dalla semplicità dell’insegnamento di Nisargadatta, in armonia con quanto accade nell’esposizione vedantina e delle Upaniṣad, che costituiscono i testi fondamentali del magistero advaita. Instancabilmente, da parte di questo maestro privo di cultura accademica, viene ripetuto l’invito a scoprire che cosa significa realmente essere. La richiesta è di guardare a cosa sia realmente l’io. Quale ruolo gioca la percezione nella nostra vita? Il fatto che esiste un percipiente e un oggetto del percepire, legati dall’attività della percezione stessa, è per caso un dato assoluto? Cosa succede quando non si percepisce nulla? Chi è colui a cui appartengono i pensieri? Che cosa è il mondo che vediamo? A chi appare? E che cosa è chi si rende conto che c’è un’attività interna a cui il mondo appare? Dove e chi siamo, quando siamo immersi nel sonno e non sogniamo? Chi si accorge realmente di essere? Quando, precisamente, non siamo mai stati?
Il campo della coscienza di ognuno, che è il campo di questa esplorazione, va a farsi progressivamente più terso, grazie allo scavo di una simile indagine, condotta su se stessi e implicitamente su quanto pensiamo di essere e su quanto sentiamo in termini emotivi e di memoria. Prigionieri del nostro passato, soggiogati dall’attività della memoria, che sembra rendere coerente quanto sperimentiamo quando siamo svegli, noi abbiamo smarrito l’attenzione a chi davvero sia colui che compie ogni esperienza. Confusi, storditi, assuefatti a un simile analfabetismo funzionale nei confronti di noi stessi, ci trasciniamo tra abitudini e aspettative, legate immancabilmente a sofferenze e vuoti di senso, una sequela di alternanze tra gioie temporanee e dolori ripetuti, senza comprendere l’insegnamento fondamentale della vita a cui partecipiamo: che è comprendere la vita stessa, ovvero sentire realmente cosa significa essere vivi.
Tre stati vive l’uomo: quando è sveglio, quando dorme e sogna, quando dorme e non sogna. Così insegna la Māṇḍūkya Upaniṣad, uno degli scritti fondamentali del Non Dualismo advaita. Attribuiamo di norma lo statuto di realtà al più solido e apparentemente concreto di questi stati, cioè quando siamo svegli e la nostra memoria mette in sequenza un attimo vissuto e il successivo, sempre in forma di ricordo, mentre l’aspettativa del futuro fa il resto. In questo modo, a sfuggire, è sempre l’attimo presente, il qui e ora in cui, se si guarda bene, non si è in grado di dire nulla di noi stessi, se non il fatto che si è – e già, dicendolo, lo tradiamo, poiché esso è immediatamente passato, nel momento in cui pronunciamo una definizione di quello che era. Stare nel qui e ora è in effetti una delle potenti spinte a cui Sri Nisargadatta Maharaji sottopone l’interlocutore.
E’ soltanto una delle prospettive con cui possiamo riguardare l’Advaita. L’autoindagine svela il fondamento concreto della sensazione di esistere e utilizza strumentazioni consone a un simile compito. La consapevolezza di quanto non manchiamo di proiettare sulla realtà in ogni momento è una delle strumentazioni a disposizione di chi cerchi di comprendere la propria natura. Tale consapevolezza non smette di risultare dal distacco (Vairāgya), ovvero dal non-attaccamento a ciò che si sperimenta. E’ evidente che, mediante un’opportuna discriminazione (Viveka), noi comprendiamo che, quando proviamo dolore o piacere, non siamo affatto il dolore o il piacere – soltanto un intenso attaccamento agli oggetti percepiti (e il percepito è anche un’emozione, così come una cognizione) permette di sviarci dall’attenzione al soggetto in noi stessi, che è consapevole di quell’esperienza dolorosa o piacevole che stiamo facendo. La discriminazione è un’arma estremamente potente, che si applica a un’azione continua su quanto sperimentiamo. A qualunque esperienza si partecipi, c’è da chiedersi se tale esperienza sia noi stessi o meno. Più si approfondisce l’attività discriminatrice e più cade l’attaccamento, cioè l’identificazione assoluta, con quello che ci capita e che in realtà non siamo.
La discriminazione e il non attaccamento costituiscono una strumentazione della ricerca interiore, a cui Nisargadatta impulsa senza requie il proprio interlocutore. Più il tempo passa e si avvicina alla fine questo venerabile maestro, più i suoi inviti si fanno affilati e perentori, le sue istruzioni assumono un carattere di indifferibilità e raggiungono la cifra ultimativa dei grandi insegnamenti metafisici. I “dialoghi ultimi”, che vengono qui pubblicati, risalgono ai mesi immediatamente precedenti la morte di Nisargadatta. Il loro nitore è assoluto. Il guru stesso non manca di notare ripetutamente l’urgenza di ciò che sta dicendo, poiché è consapevole che non manca molto tempo alla dipartita. Così le sue interlocuzioni si fanno quasi spietate, chi gli parla è messo al muro da subito, l’autoindagine viene richiesta con formule che sfiorano l’imperativo. Tutto ciò che viene detto è necessario ed essenziale. La natura della coscienza è indagata senza posa. La realtà che fa da sostrato alla nostra esistenza, e che dai testi sacri e dai maestri metafisici viene caratterizzata come essere e coscienza e beatitudine (Sat-Cit-Ānanda), viene qui depurata anche da queste parole, che sono pure analogie, in un invito improcrastinabile a sperimentare direttamente tale realtà, in cui siamo immersi e da cui siamo costituiti. E’ aggredito con sorprendente pervicacia il fatto che ci siamo identificati con la nostra individualità, il che è una sovrapposizione ingannevole rispetto alla verità essenziale, che è costituita dal fatto che semplicemente siamo, ovvero siamo costituiti dal semplice essere, che è realmente la presenza, la nuda sensazione di esserci, priva di qualificazioni e limitazioni, le quali sono un problema della mente separata e che separa, una funzione limitatrice che svia la nostra attenzione e crea un’individualità limitata, laddove non c’è limite e sono iscritte tutte le potenzialità della manifestazione.
La sensazione di essere degli individui è derivante, e Nisargadatta non cessa di farlo notare, dall’identificazione con il corpo. Noi abbiamo un corpo, disponiamo di un corpo, ma non siamo il corpo. E’ questa febbre iniziale, il credersi individui in corpi fisici, a determinare una miscomprensione totale della realtà. La coscienza non smette di assistere a qualunque fenomeno sia sperimentato dal composto fisico, essendo la coscienza la scena stessa in cui qualunque fenomeno appare e scompare o persiste per unità più o meno lunghe di tempo, essendo comunque destinato a una fine: ciò che inizia ha anche una fine, è un’esperienza incontrovertibile che la mente limitata fa compiere all’individuo. Nisargadatta insiste sul falso discrimine che viene a costituirsi con l’identificazione in un corpo e la consentanea limitatezza dell’io: non si tratta della realtà. Il senso dell’io è un mantello gettato sull’assoluto. La coscienza limitata, che ognuno di noi non fa fatica a sperimentare di momento in momento, non è che la caricatura della coscienza illimitata e priva di identificazioni, l’autentica matrice da cui emergiamo con il nostro senso illusorio di essere finiti, di essere nati e destinati a morire. L’essere è e non può non essere: la morte è un’illusione, è relativa all’io, che è limitato e ovviamente cade sotto la legge ubiquitaria della morte, mentre ciò che è costituisce la possibilità della manifestazione di simili limitatezze, ma non è sfiorato dalla caducità e dalle qualificazioni che caratterizzano tutto ciò che è manifesto.
Il passo dell’insegnamento praticato da Nisargadatta è duplice. Si tratta dapprima di riconoscere in se stessi il semplice senso di essere, la sua continuità di istante in istante, la sua pervasività, il fatto che esso costituisce lo sfondo e la sostanza di qualunque esperienza, finita e configurata, che noi compiamo. E’ dunque necessario stabilirsi in questo cuore assoluto e perenne dell’esperienza: prendere dimora nella sensazione di essere. Per prendere dimora stabilmente nella sensazione di essere, che, come si vede ricercando senza posa, è presente ovunque e sempre mentre siamo esseri viventi, sarà opportuno esercitare tutte le strumentazioni che l’Advaita indica come utili alla causa: discriminare, accorgersi degli attaccamenti, portare alla luce i propri contenuti inconsci e le proprie tendenze latenti, osservare il corso dei propri pensieri, concentrarsi al di là delle attività mentali – ovvero risolvere tutti gli stati a cui siamo costretti dal momento in cui siamo apparsi in forma di io. Stabilirsi nella sensazione continua di essere costituisce l’enorme risultato di una ricerca che è disponibile e alla mano per tutti, e non è affatto un’esclusiva di asceti o mistici. E’ la fase dei cosiddetti “Piccoli Misteri”, il momento in cui si riconosce un grado più universale di identità e che svela come costruzioni illusorie, poiché destinate a finire, tutte le credenze che si erano nutrite intorno a se stessi e alla propria fallace identità individuale.
A questa fase, segue un processo ancor più radicale: a chi appare la sensazione di essere? L’essere è comunque qualcosa di definito e qualificato e, in quanto tale, è destinato a tornare all’origine, che sta prima e oltre qualunque limitazione. Ecco il punto estremo su cui Nisargadatta punta l’attenzione del suo interlocutore: è il principio stesso da cui scaturisce la sensazione di essere, su base somatica o meno, ciò che profondamente siamo, che non è nato e non è soggetto a morte ed è al di là delle distinzioni e dei cicli, del tempo e dello spazio, di ogni tempo e spazio possibili. E’ il momento in cui viene abbandonata anche la coscienza, che non testimonia più nessuna scena e nessun fenomeno. Questo momento, lo si chiami come si vuole, Brahman o Parabrahman o Sé o Assoluto o Dio, è la reale identità che non mancheremo di essere, poiché di quella siamo sostanziati e a quella torneremo. “Si diventa ciò che si pensa, questo è l’eterno mistero” afferma la Maitrī Upaniṣad.
Il paesaggio che si osserva, a partire dalla presa di coscienza a cui Nisargadatta invita con i suoi dialoghi, è quello di un essere umano in profonda disarmonia psicologica, che vive in una sorta di malattia, di cui nemmeno si rende conto, esprimendo conflitto nel rapporto e aberrazione nell’agire: è ciò a cui pare condannata l’umanità in genere e deriva dall’errata direzione mentale, dall’incomprensione del fenomeno mentale, a cui ciecamente si aderisce. Nell’istante in cui si comprende la relatività del fenomeno che si pensa di essere, e quindi ci domanda quale sia l’assoluto che ci permette di avere idea del relativo, qualcosa muta e il paesaggio precedente lascia il posto a una possibilità, che non si mancherà di ribadire alla portata di tutti: è l’orizzonte reale della risoluzione dei conflitti, dell’infelicità cronica, dello spaesamento che deriva dal subire l’impermanenza di tutte le cose. Nisargadatta indica come la direzione del vettore mentale sia data dalla posizione coscienziale di chi osserva se stesso e comprende di essere effettivamente coscienza, sebbene a diversi gradi di “condensazione” (il corpo fisico è coscienza che ci appare più solida del corpo che indossiamo in sogno) e di consapevolezza.
I dialoghi ultimi di Nisargadatta costituiscono una delle forme più estreme e intense di insegnamento Non Dualista. Si tratta di un’opera che espone più e meglio, rispetto a una trattazione saggistica e sistematica, a cui la mente occidentale è andata abituandosi. Il funzionamento dei dialoghi, così come quelli platonici all’alba della filosofia occidentale, ha il vantaggio di scartare i movimenti di una mente in cerca di controllo e vittima dell’addiction al sapere sclerotizzato e divisivo, con cui ha separato illusoriamente l’interno dall’esterno, il bene dal male, la luce dalle tenebre, finendo per ignorare la sostanziale unità dei fenomeni contrapposti. Nella libertà e nell’agitazione della mente dell’interlocutore, in dialogo con la mente che si è risolta, ci si addentra in tutte le pieghe di una ricerca condotta sulla mente stessa: un viaggio alla scoperta di cosa significa realmente essere, una promessa di liberazione dalla conflittualità e dalla sofferenza, l’annuncio di una buona novella che è da mettere in pratica e che prelude al risveglio da un sonno illusorio, creduto reale. Il risveglio pronto a fare librare se stesso verso il riconoscimento dell’identità più profonda e viva, vita della vita stessa.

Nota. Non essendo questa la sede di una sistematica esposizione della massa di insegnamenti nondualisti, e nemmeno di una propedeutica ragionata dell’Advaita, sarà utile ai lettori l’indicazione delle traduzioni delle Upaniṣad (Bompiani), della Bhagavadgītā, delle opere di Śaṅkara e della bibliografia intera di Raphael, edita per i tipi Asram Vidya. Si consiglia anche la lettura de Il sorriso segreto dell’Essere (Mondadori) di Mario Bergonzi, che di Nisargadatta è stato discepolo diretto.

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