C’è una tragedia classica in forma di cronaca nera, che si aggira nei giorni che viviamo, per testimoniare l’incoercibile potenza del fatto criminale, la sua capacità di evocazione di mondi e la penetrante propensione agli universali che, da Agamennone a noi, non mancano di colpire le aree cerebrali deputate alla morbosità, al discioglimento dell’enigma e soprattutto al confronto, sempre in perdita, con il fato, a qualunque confessione si appartenga. Di fatto la cronaca nera è una sorta di scrittura sacra per laici, ne promana il mistero che rende tremula l’interrogazione sulla vita, la numinosità degli dèi assenti ciclicamente ritorna a ossessionare chi assiste al caso di nera, che non è imprecisamente detto proprio così: il caso. Pascale Robert-Diard, cronista giudiziaria per Le Monde, ha seguito per tutti noi, annotando ne “La deposizione” (Einaudi) il regesto dell’abisso umano, un caso che ha appassionato il pubblico francese: la scomparsa dell’ereditiera Agnès Le Roux nel 1977, presunta deceduta per mano dell’avvocato Maurice Agnelet, suo amante, sposato con figli, inflessibile quanto istrionico manipolatore. Figlia della leggendaria proprietaria dell’altrettanto leggendario casinò di Nizza, Agnès tradisce la famiglia e dà il suo benestare alla cessione delle quote a un importante mafioso di origine corsa, Jean-Dominique Fratoni, che le paga il voltafaccia con un deposito di tre milioni di franchi su un conto cointestato con il luciferino Maurice. I soldi finiranno direttamente a Panama, dopo che Agnès scompare, durante un weekend trascorso presumibilmente in Italia. Assente il corpo del delitto, Maurice Agnelet affronta un’odissea giudiziaria, da subito sospettato, che lo conduce dal processo nel 1977 fino all’ultimo dibattimento, nel 2014. Le corti si smentiscono, Maurice trascorre in libertà gran parte del quasi trentennio in cui figura instancabilmente come imputato. A proteggerlo e aiutarlo, sono due dei suoi figli e perfino l’ex moglie, che ai tempi della scomparsa di Agnès veniva tradita non con una, ma con due donne: oltre ad Agnès, un’ulteriore ereditiera, che per anni fornirà un alibi solido a Maurice. Trent’anni quasi, si diceva: li osserviamo escavarsi nel volto sempre più tragico del fu brillante avvocato Agnelet, mentre muta irreversibilmente il mondo e i suoi giovani scudieri, i due figli Guillame e Thomas, diventano uomini e accusano essi stessi gli esiti di una manipolazione continua e aberrante. L’aberrazione è l’oggetto di questo resoconto secco, preciso, implacabile, che Pascale Robert-Diard si concede di scrivere non allontanandosi troppo dall’acribia e dalla sintesi giornalistica, con un’intuizione che la restituisce alla letteratura: sembra di leggere qualcosa di sofocleo, di cosmico-storico e al tempo stesso di intimo e diaristico. L’aberrazione: un padre che suborna chiunque, figli compresi; un figlio che copre il padre omicida e un altro figlio che muta direzione, sfiorando la follia, facendo riemergere memorie e dialoghi da un oblio schiacciante, moralmente giustificabile eppure fazioso fino al peccato di specie, quando il figlio stesso, Guillame, si risolve a deporre contro il padre, dando vita a udienze devastanti per la pressione emotiva di un Edipo che si consuma clamorosamente, dopo trent’anni di falsità. La scena è tragica, dunque, ma è la scomparsa a reggere il gioco della tragedia: il colpevole è più tragico della vittima e l’innocenza altro non risulterà che una modulazione della colpa. Il peso cronico del passato, attraversato per presenti che sono scanditi dai processi, si annulla nel momento della deposizione: il figlio depone contro il padre, il figlio depone il padre. Il segreto disvelato, il dubbio che permane al di là di qualunque giudizio, la ressa di giudicanti (noi lettori in primis), l’abominio che non è comprovato e, sopra ogni cosa, il legame arcaico che implica la famiglia e poi la contraddice, e infine la scomparsa, che esprime tutta la sua forza devastante, surclassando la morte, il ritrovamento, la possibilità di concludere il mistero – è all’interno di questo gioco di potenze che Oreste e Amleto si muovono in forma di protagonisti del nero assoluto e della cronaca, ovvero la più sciatta e asettica e morbosa tra le narrazioni, che del nero si fa. Siamo davanti a un testo che, in qualche modo, è centrale, come centrale è qualunque testo che porti a intensità letterarie la cronaca nera, questa epica continua a cui non smettiamo di assistere, anche quando ci siamo inoltrati al di là di qualunque spettacolo. Si deve ringraziare l’editore Einaudi, per averlo proposto, con la perfetta traduzione di Margherita Botto.