Ho assistito al nuovo spettacolo di Alessandro Bergonzoni, “Trascendi e sali”, in cartellone all’Elfo Puccini di Milano, fino al 13. In pratica ho assistito alla morte e alla resurrezione di un grandissimo artista, a una modulazione spiazzante che ha a che fare una scomparsa d’autore, che continua ad apparire – e soprattutto sono stato introdotto a un silenzio, un immenso silenzio che è gravido di suoni, di corpi, di immagini, di parole giunte al loro stato più esausto e compiuto.
Quindicesimo spettacolo nella carriera di uno dei massimi artisti contemporanei italiani, “Trascendi e sali” è probabilmente il compimento dell’abissalità con cui Bergonzoni sta flirtando sempre più profondamente, con accondiscendenza alla fatalità di una ricerca artistica, che è ormai una missione, di cui si è caricato il peso, per librare ad altezze vertiginose. Da “Urge” a “Nessi” si è consumato non un divorzio dall’affabulazione, bensì un indentramento che va di pari passo a ciò a cui Bergonzoni ha dato letteralmente corpo, con le sue installazioni, tra cui resta potentissima quella relativa al caso Cucchi, “Il corpo del (c)reato”. La spinta ad emettere l’affabulazione e a lavorare sulla struttura narrativa, per portare all’abile il labile, ha tuttavia raggiunto con questo ultimo spettacolo un punto di non ritorno, poiché la sperimentazione di questo splendido artista è solo andata: Bergonzoni non smette più di inoltrarsi nei territori limbici in cui ciò che è interiore deflagra e si consuma fino a palpitazioni nel vuoto del dopobomba.
Il pubblico, questo amore antagonista che pressa Bergonzoni e desidera da lui *qualcosa*, se possibile *qualcosa di confortante*, ovvero il raptus dell’intelligenza e la distensione fulminea in risata – il pubblico viene qui sollevato fino a un repentaglio che conosce assai bene la letteratura e che, per stare agli esiti teatrali, espone a un gesto onnipotenziale e a uno pneuma assoluto, che è poi la zona di prassi metafisica, una fluttuazione nel dicibile e nel non dicibile, che nel recente passato noi italiani abbiamo conosciuto grazie a Carmelo Bene e Leo De Berardinis, due nomi sacri e forse inaccostabili, ma non per chi avverte la pressione delle potenze silenti e attive, a cui la metafisica impone di andare. Due nomi, di cui Bergonzoni non sarà erede per stile recitativo o per organizzazione testuale, il che non conta: egli percepisce e spende le sostanze di quell’eredità, perché è realmente il più clamoroso tra gli artisti metafisici italiani. E’ in questo discrimine che si gioca una differenza radicale tra lui e chi fa arte, non soltanto teatro, oggi in Italia: non si trova un autore tanto teso a manipolare la materia metafisica né in letteratura né nelle arti plastiche e pittoriche, tantomeno in teatro, perlomeno non ai livelli a cui è arrivato Bergonzoni.
“Trascendi e sali” è uno spettacolo che adempie al coronamento definitivo del testo. Mai l’artista bolognese ha scritto così tanto uno spettacolo, mai ha velocizzato la partitura fino a livelli realmente ultrasonici e mai ha sfondato tanto esplicitamente la testualità, per trascendere e salire a un livello che, in teologia, è propriamente decodificato in Troni e Dominazioni. Il suo platonismo è del tutto teatrale, ma platonismo rimane. La verbosità, che è ciò che tanto crea comfort nelle platee, è stata progressivamente violentata, accelerata, fino a farsi niente: ed è un niente appunto attivo.
Chi riguardasse con grave pensamento a questa esplosione dello spettacolo in sé, forse, avrebbe agio di desumere il lato ferale del miglior Barocco: una meditazione che mette in luce il nucleo tragico del comico, estinguendolo, facendolo sparire dalla vista. La regia di Riccardo Rodolfi è sapientissima nel condurre a esaurimento il corpo stesso del comico, che inizia a non apparire all’interno di una torre, da cui lo sguardo è totale, sferico, tutto presente su tutto, panottico (un “grandangolo” che è “grandangelo”): potrebbe essere un dio monoteista, quello che parla, straparla e finirà per tacere. Ne intuiamo, nella tensostruttura a torre, i piedi e le gambe. Lentamente si materializza il corpo intero, che fatica a uscire: è una contromorte, il che non costituisce naturalmente una vera nascita. L’uomo assoluto che fuoriesce da questa torre non d’avorio, ma d’acciaio, è infatti un soggetto saputo. Ciò nonostante, ha la forza assai intensa di chiedere, di continuare a martellare con le domande. La retorica della domanda, che è una strumentazione tipica del platonismo, è davvero esaltata a livelli che negli spettacoli precedenti di Bergonzoni non si erano raggiunti. Vedremo poi con quali esiti fatali.
Assieme alle parole a cortocircuito, sale la frequenza e lo sfinimento della domanda, sempre rivolta ad altri e sempre più a chiedere conferma e verifica dell’esistenza e della possibilità di esistenza. E’ sempre fuori scena che le domande finiscono per essere rivolte. Da un lato c’è il fuori scena costituito dal pubblico: ma il pubblico è da sempre, per Bergonzoni, la scena stessa, il soggetto identitario dell’amore, che viene sollecitato ad abbracciare chi parla e agisce, blandito con la battuta di genio e l’invenzione più ardita, accarezzato fin oltre la fine (i supplementi di monologo a fine spettacolo sono da sempre uno dei momenti più connotativi dello stile Bergonzoni: attesi, invocati e concessi, certificano l’affetto, manipolano il consenso, creano felicità confortevole, in cambio di una fatica extra del monologante, che scatena in questi segmenti fuori tempo massimo un’emotività caricaturale e al contempo autentica: vorrebbe liberarsi dall’abbraccio, mentre lo richiede con forza…). Poi ci sono i fuori scena delle quinte: fuori scena bilaterali, a destra e sinistra, dove dominano “le Quintessenze”, a cui il figlio di un dio minore richiede conferma, da minorato e monitorato, da supplice privo di devozione, da scambista di tutte le fedi, da unitariano dell’estrema teologia che si gioca sul palcoscenico.
E’ alle Quintessenze che, una volta mostratosi per intero il corpo del comico tragico, vengono rivolte domande sempre più disarticolate, disarticolando il corpo stesso. E’ un apice impressionante dell’intero tragitto artistico di Bergonzoni: qui si mostra per quello che da sempre era e che è concretamente diventato, ovvero un avanguardista estremo. Le letterature, ovvero i citati in stato confusionale, da Dante a Petrarca a Foscolo a Verga a Verne a Checov (su cui si esercita il riflesso condizionato “Checov-cieco”, per dire fino a che punto si abbassa qui l’invenzione) a Tolstoi, sono decisamente sussunti qui in Beckett e nei suoi Malone: è Malone, insieme al Bartleby di Melville, lo spettro più emblematico tra i demoni che perturbano dall’interno il fenomeno Bergonzoni. Anche le musiche sono disarticolate: la marcia di Radetzky e quella nuziale, l’inno di Mameli si scompone nelle unità foniche di base, lo spettro delle note si allarga nominalmente, va a confusione.
Tutto ciò introduce a una morte vivente dell’io: Bergonzoni si scompone, biascica il proprio corpo, lo elettrizza, è enorme marionetta e dismesso marionettista, si gonfia per rattrappirsi, si fa dimidiato, tutto è invano, disperatamente, afono pure, mentre le domande travolgono le mute Quintessenze ai lati del palcoscenico: esse non rispondono, faraoniche e mute in una siderea distanza dall’umano che si slaccia e non smette di finire – fino alla domanda centrale: “Mi vedete se… Mi vedete?”. Siamo visti? Esistiamo per un altro? E’ la domanda cruciale, maritainiana, di un esistenzialismo portato a eccesso universale. E nemmeno questo è un atto finale, la crucialità della domanda primigenia è superata: letteralmente Bergonzoni aveva portato il suo testo a dire che si va ben oltre l’essere.
Il pubblico assiste alla messa in scena finale del soggetto recitante, che lo fa esistere in quanto pubblico – e, dopo la fine, c’è altro. C’è una sconclusionatezza ferale e affaticata, non gioiosa, un eden ulteriore, supremo, come accade nel superamento di tutte le cose che praticò in scrittura Robert Walser. C’è qui molto Kafka, molto Odradek. E subito il corpo scompare, dietro una quinta orizzontale rosso alchemico. Da qui dietro si intuisce il passo del comico tragico, va a sinistra e destra, gli si intuisce la capigliatura folta ed elettrica, mentre chi appunto intuiamo soltanto sta dettando una richiesta di riscatto cosmico e storico: l’immensa pretesa deborda i limiti del reale, la camminata decisa e l’eloquio netto e imperativo non smettono di fare percepire il punto di gravitazione dell’intera scena, che è la tensostruttura a torre dell’esordio dello spettacolo. Essa preme. Mutamente pressa. Il magnetismo è sensibile.
Così Bergonzoni giunge a porre fine al testo: scendendo verso i sistemi fognari (non ricordo nei suoi precedenti testi una scurrilità tanto esibita, con le parolacce usate come le pronunciano i bambini e noi tutti al bar), issandosi attraverso citazioni esilaranti di uomini morti, di morti e morti improvvide o estese nel tempo, dilatate in un andamento da danza macabra e irresistibile, uno strascicamento degli arti e delle sillabe, fino a perforare i cieli del detto e del non detto, in direzione dicibile e indicibile – il che è molto oltre il detto e il non detto. La narrazione di Bergonzoni e la sua presenza fisica in scena sono slittate nel regno delle potenzialità, che possono risultare ilari sovrasensi o istanze politiche o impennate suprematista e astratte, ma non smettono di attualizzarsi via via, istantaneamente, secondo una jam session in cui si esprime un sentimento dell’assolutezza umana e divina. Dalle sentine, in cui le parole sono fatte cozzare con facilità, all’aria rarefatta ad altezza vetta, in cui la parola e il suono si decompongono per sublimazione e poi di nuovo verso la cecità dei regni inferi: c’è in questo saliscendi il trasalimento e il trascendimento che da una vita Bergonzoni cerca e finalmente, finalmente ha trovato. E là ci porta, tutte, tutti. Non si può che essere grati per averci sottoposto a questo rito iniziatico e definitivo. Il suo sciamanesimo si è compiuto nel transumanar, nel significar per verba.
Ho tardato ad addormentarmi, preso dall’adrenalina. Poi mi sono addormentato, non sognavo ed ero dunque precisamente nel punto ubiquo e perenne in cui Bergonzoni ha trascinato la propria e altrui arte: alla sparizione che continua a essere.