E’ compìto e aureolato, la pettinatura cubica emana riflessi azzurrini, in qualche modo abbaglienti. Lo sguardo lampeggia. Il sorriso è tremulo, accennato, onnipresente, un’incrinatura piacevole per un sentimento di affetto, che arriva a sconfinare con la commozione. E’ possibile commuoversi per un Presidente della Repubblica? Per me, no. E: mai. Non mi commuovevano le immagini abborracciate del guappo democristiano Giovanni Leone, le sue corna esorcistiche, il suo nucleo famigliare al balcone in cui mancava Lurch, l’attentatore della gazzella dell’affaire Lockeed, costretto alle dimissioni. Non mi commuoveva l’evidente narcisismo di Pertini, un sortilegio praticato sul corpo della nazione e a cui mi opposi interiormente quando ero meno che adolescente, un’ipnosi collettiva capace di insegnarmi la virtù del minoritarismo, questa maledizione costante nella mia esistenza piccina, per cui ciò che l’italiano gradisce in massa risulta eminentemente schifoso – sembra uno snobismo, ma è perlomeno una bussola su come orientarsi nella peggiore delle antropologie occidentali, che risiede proprio in questa calzatura bucata e abbandonata nella pozzanghera insanguinata detta Mediterraneo. E poi? Ci si poteva commuovere forse per Cossiga, nella cui vicenda storica e personale l’unico atto di sincerità profonda e spaventata fu l’istantaneo imbiancamento della cofana, alla morte di Aldo Moro? Quei suoi angeli verbali, suasori occulti e palesi, quei rimandi non vagamente minacciosi, quei messaggi obliqui lanciati a depredare il preconscio di un Paese estremale, sempre sul vertiginoso bordo dello sfinimento, dell’annullamento, dell’infarto morale e cognitivo: li odiavo, gli alert di Cossiga, altroché commuovermi… E mentre le genti italiche lancinavano lo spazio respirabile con ululilii di allarme per la tenuta democratica a fronte del berlusconismo cavalcante, emergeva il conservatorismo gesseo di Oscar Luigi Scalfaro: quel doppio nome da stirpe regale decaduta, un Luigi XIV con la sagrestia al posto di Versailles, quel cognome duro e liscio, non arrampicabile, inscalfibilmente protestante, quella “r” arrotata, la presenza muliebre della figlia che faceva da coniuge, quel lutto silenzioso… Scalfaro era per me il parroco eletto allo scranno più alto della nazione, faceva da schermidore con il tycoon a sangue freddo, il Caimano che incarnava l’eterno rischio di fascismo, di antiparlamentarismo, di rivoluzione abissale della psicologia collettiva, visceralmente gestato ed espulso nella realtà dall’utero italico, con il suo Miracolo, il suo Sogno, il Grano come valore non negoziabile. Il cristianissimo sovrano con l’erre moscia contro l’arricchito borghese di prima generazione: c’era ben poco da commuoversi. Men che meno commozione di fronte al cipiglio neorisorgimentale di Carlo Azeglio Ciampi, un altro dal doppio nome, regale anch’esso, ma di un casato minore, savoiardo, votato alla Repubblica più immaginaria della storia, tra mobili moganati e ciglioni azionisti, più Pacciardi che Pannunzio, l’angosciante tecnicality finanziaria messa al servizio di un progressismo regressivo, con il culto cavouriano che seguiva quello garibaldino del fu cinghialato socialista e la consorte che bacchettava le scelte di palinsesto di RaiUno e i comici volgarotti, questa Signora Franca il cui nome era l’aggettivo corrispondente, un’ulteriore cofana nel museo dei ricordi della Repubblica… E poi – e poi: Napolitano. Già mi commuoveva poco quando era il vessillo dei cosiddetti miglioristi, amico di Henry Kissinger e unico comunista con il pass per gli Stati Uniti, ma da Presidente mi irritava in lui il decisionismo ai limiti dello sconfinamento istituzionale (limiti nel senso che andava al di là, non che ci si avvicinava), così pure l’accettazione del secondo mandato, assentendo con diniego, ma comunque accettando. Per non dire dell’invenzione tecnocratica del gabinetto Monti, una scelta scellerata che stiamo tuttora pagando con l’emersione perpetua di fascisti e sfascisti al governo e sempre difesa con l’argomento della stretta necessità imposta dai mercati, quando l’impatto di quel governo è ridicolo in termini di storia del debito e della ristrutturazione del Paese. Quando si fece per la prima volta il nome di Sergio Mattarella, e lo si fece proprio poco prima che il solare Napolitano accettasse di malavoglia la riconferma al Quirinale, pensai: non c’è niente da fare, si morirà democristiani, o tutt’al più miglioristi, in questa landa desolata. Non conoscevo Mattarella, se non per i massimalismi che la stampa parlamentare concedeva a un lettore poco più che attento, come me. Mi sembrava uomo di compromesso e di velocità lentissima o di lentezza in qualche modo veloce. Ero colpito, negli anni, dalla sua capigliatura e dall’azzurrità del bianco che calzava in testa. Apparteneva, nella mia percezione, a qualcosa di diverso dalle ultime e forse ultimative epifanie delle seconde linee democristiane, chiamate a fare da curatori fallimentari della Balena Bianca: e dico persone come Gerardo Bianco o, che so?, Bruno Tabacci, Pierluigi Castagnetti, Savino Pezzotta. Conoscevo la tragedia personale e politica di Sergio Mattarella, ricordavo bene la fotografia mai seppiata e invece sempre livida e quasi vetrificata, in cui si sporgeva dalla portiera dell’auto dove gli avevano massacrato il fratello. Mi parve, la candidatura quirinalizia di Mattarella, una scelta di comodo per una Presidenza tranquilla, che sopisse l’interpretazione fin troppo energica datane dal predecessore. Ovviamente, mi sbagliavo. Con me, si sbagliava Renzi. Renzi, ritenendolo una sorta di inoffensivo pelouche, aveva insistito su Mattarella, rompendo con Berlusconi e archiviando per lui sciaguratamente il patto del Nazareno. Silvio, avverso al nemico di sempre, ovvero la sinistra democristiana, di cui Mattarella era un campione ormai ai limiti del ritiro a vita privata, voleva Giuliano Amato (io e altri milioni di italiani, invece, no). Una riedizione dei tempi che furono: socialisti contro sinistra Dc. Il giovane Bomba fiorentino si era impuntato, pensando che non gli avrebbe fatto ombra il neopresidente con la parlata sussurrata e all’apparenza tenera. Il postadolescente fiorentino aveva dato così inizio alla propria spettacolare e mestissima fine, durata da allora fin qui (non sono escluse rinascite o nuove reincarnazioni, peraltro). Quando fu eletto Mattarella mi trovavo in un bar dietro viale Monza, vedevo Boldrini e Fedeli, costei tutta rossa nella cabeza come Clio Napolitano, e poi arriva lui, incassato e mite, il nuovo Presidente. Colui che con soffice diplomazia aveva fatto fuori politicamente Vito Ciancimino, il moroteo amico di Ruffilli, il dimissionario che si sottrasse allo sconcio della legge Mammì – era pressoché tutto ciò che ricordavo di quel venerabile signore, cauto nel passo, schiacciato dai lutti, solo senza essere solo e certamente non solitario e avvertii una scossa al nervo morale e pensai: è come Ratzinger. Io non sono cattolico e neppure battezzato, ma l’elezione di Ratzinger al soglio pontificio mi colpì tantissimo. Mi aspettavo un chierico sottilmente reazionario e rimasi accecato dal carisma mistico dell’uomo, che, infatti, abolì di lì a poco il limbo dei non nati e praticò letteralmente il “nunc dimittis”. Mi colpì così tanto, che mi misi a fantasticare su di lui, in un romanzo, “L’anno luce”, che avrebbe finito per prevedere con largo anticipo il suo abbandono del mondo e la kenosi, ovvero la fine della Chiesa prima di un nuovo inizio, che non è poi quello inaugurato dall’attuale pontefice. Ecco, con Mattarella arrivai a percepire un’acuzie dell’intelligenza, una rettitudine morale, una capacità di essere qualcosa più che padre – poiché il nonno è il padre che ha superato il padre ed esiste un buddismo preternaturale dei nonni, a cui i padri non possono giungere. La gestione della crisi, il morbido monito, la fermezza flessibile e la capacità di adattarsi ai flutti della piccola storia nazionale, l’argine soffice e la morbidezza come forma dell’indefettibile, l’utilizzo della lingua nella sua più cristallina evenienza morale, l’abilità a tessere, ad “assumere un’iniziativa” istituzionale al culmine della crisi e a “collocare accanto a me” disegni inviatigli dai ragazzi, mentre pronuncia con quella cauta fretta pudica, tipica di certa Trinacria dello spirito, le 1.700 parole del discorso di fine anno, la geometria etica e civile con cui “ribadisce” valori fondamentali non soltanto della Carta, ma della convivenza, la radicalità di prendere parte per le opere di bontà, la delegittimazione degli argomenti propalati dai correnti glifi umani al governo – la semplicità che integra e non si oppone alla complessità, il presidio della democrazia rappresentativa e del parlamento come casa del popolo, la rappresentanza di uno Stato che sia comunità e apertura, l’umanità intensa e tremula, vibrante e concordemente riconosciuta a questa splendida persona: ecco, tutto ciò mi commuove. E’ il primo Presidente a commuovermi. Lo vedevo lì, nell’isolamento accompagnato da milioni di sguardi in quello studio eterno, dove tengono nei decenni questi discorsi spesso privi di rilievo e questa volta no: che rilievo hanno le cose dette da Sergio Mattarella! Lì col disegno regalatogli, dietro la spalla sinistra, le bandiere nazionale e continentale ammainate per assenza di aerazione in questo ufficio rococò, teosofico, massonico cardinalizio, una sagoma assisa scomodamente sulla sedia presidenziale, un uomo del Novecento che continua a essere uomo nel nuovo millennio e affronta i fondamenti del vivere civile, con la delicatezza radicale che gli si riconosce pubblicamente. Si vorrebbe abbracciarlo, essere da lui abbracciati. Si vorrebbe volergli bene e infatti glielo si vuole. Tanti auguri, Presidente!