Come sto io lo dice in “Cervelli” Gottfries Benn:
“Stava disteso sempre nella stessa posizione: rigido sul dorso. Poggiava il dorso su una lunga poltrona, la poltrona stava in una stanza quadrata, la stanza stava nella casa e la casa su un’altura. Tranne qualche uccello, era lui l’animale più alto. Cosi la terra lo trasportava per l’etere sommessamente, senza scosse, attraverso tutte le stelle. Una sera scese nelle verande; guardò la lunga serie di sedie a sdraio dove sotto le coperte tutti aspettavano in silenzio la guarigione; guardò come stavano lì distesi: uscivano tutti da paesi natali, da un sonno pieno di sogno, da ritorni a casa, da canti di padre a figlio, tra felicità e morte – percorse la veranda con lo sguardo e tornò indietro. Venne richiamato il primario, era un uomo cortese, disse che una delle sue figlie si era ammalata. Ma Rönne disse: veda, in queste mie mani li ho tenuti, cento o anche mille; alcuni erano molli, altri duri, tutti prossimi al disfacimento; uomini e donne, frolli e pieni di sangue. Ora tengo sempre il mio nelle mani e devo sempre indagare quel che posso fare di me. Se qui il forcipe avesse premuto un po’ di più sulla tempia…? Se mi avessero colpito sempre sullo stesso punto della testa…? Cosa sono mai i cervelli? Da sempre avrei voluto volar via, come un uccello dalla forra; ora vivo fuori nel cristallo.
Ma ora, vi prego, lasciatemi andare, torno a librarmi – ero così stanco – su ali e questo andare – con la mia azzurra spada di anemoni – nel crollo meridiano della luce – nelle macerie del Sud – nel disfarsi delle nubi – fronte polverizzata – tempia dissolta.”