“La supermassa”: un capitolo da “History”

Un capitolo da “History” (Mondadori, 2017)

SUPERMASSA

La supermassa.
A vorticare nel vortice dei corpi, un maelstrom di carne umana, corpi fritti dal sole nel grasso loro proprio, agostani, ai margini delle tre corsie, autostradali, all’uscita per l’autogrill, con le auto immobili nelle tre corsie, le ferraglie su cui il sole riverbera ondulando la ferraglia stessa di carrozzeria in un effetto miraggio, sempre implacabile e italiano, di agosto, corpi adulti di femmine larghe sottoproletarie o interclasse non importa e mocciosi adolescenziali o che fanno le primarie, con i tablet di brand ambigui e che non si accorgono di niente dentro il vortice, e adulti in canottiere o girocollo cotone da cui debordano le pieghe di sebo subascellari e le mastiti dell’età e, se esiste un dio, mio dio, le capigliature di chiunque, uno stuolo di cuoi capelluti e fibre e crini, sudati ed esposti alla luce calcinante che acceca e riverbera sulla pelle quanto sopra il metallo, e vanno a vortice, tutti, adulti bambini anziani, in età e ciò che fu ceto commistionati, dalla periferia della zona park a spirale verso il centro, che è l’edificio basso in cemento grezzo e le solite vetrate dell’autogrill, abbandonata l’auto a guida umana sotto le vele fini in tensostruttura che fanno da tetto inefficace contro i raggi del sole nei tre arcipelaghi di parcheggio, per poi cominciare tutti, lenti, gaviali, la marcia di avvicinamento all’entrata dell’autogrill come elefantidi ciascuno, al culmine del riverbero, ben prima del crepuscolo, il giorno del rientro dalle ferie estive, le carni anche le più frigide stracotte all’esposizione, che sembra universale, un brasato di succhi e fibre umani, una tempura di arti umani e teste congestionate, una accanto all’altra quasi a sfiorarsi o battere violentemente tempia a tempia, verso l’ingresso a tornelli per consumare, reni da fare lavorare in una colata continua e intermittente di piscio anonimo della massa qui convenuta nelle mai troppe toilette a box stipate al piano sotterraneo – qui ora ci sono sempre io, entrato in questa zona parallela alla camionale, una zona di allarme e massa, massa cotta e unta che si trascende verso la zona ristoro dell’autogrill, sempre io, che soltanto poco prima stavo al volante di un noleggio, non berlina, e quando con una curva lenta ho pilotato a svoltare sulla corsia parallela in entrata nell’area grill ho visualizzato il messaggio che mi faceva fuori.
Mms, messenger o non so cosa. Non avevo convinto il cliente e ero fatto fuori.
Ero sempre io, fatto fuori.
Sono nel quadro del moto browniano, sono quadri del moto browniano: inesausto, continuo, rapido e irregolare movimento, in tutte le direzioni, delle particelle minute, in sospensione in un fluido e anche l’aria è un fluido, delle molecole stesse di un fluido. Particelle di ottanta o cento chili ciascuna, maschie, femminili, una suppurazione di corpi solidi, bipedi, animati, con i loro parchi mentali a tema, uno dei quali è essere qui nell’assedio lento e continuo e irregolare a spirale in direzione dei tornelli di entrata all’autogrill, un melting pot di carni realizzato, qualunque colore scolorito dall’estate o dalla permanenza nell’abitacolo dell’auto tornando dalle vacanze o dal Colosseo, dai moti browniani lungo i lidi, verso l’acqua sporca, non nettabile, dove prospera l’alga rossa, che ha fame di particelle di ossigeno, per fare la sua fotosintesi bieca e intristire la bagnacauda umana, adriatica, mediterranea. Ovunque questa massa di impazzimento, in un vago senso programmato o programmabile, dalle fisiche e dagli algoritmi, in colloquio continuo con i lingubot nella cloud, che li localizza, mammiferi, omeotermi, descritti dalle fisiche e processati dagli algoritmi.
Questa è la transumanza, della specie, l’ultima volta materiale, un aggettivo che perde di senso o connotazione, come ampi settori della lingua, che si sospendono: si fa a meno di zone e territori della lingua. Li attraversano i memi, mentre si avvicinano i tornelli all’entrata e si piega un pad, si crepa lo schermo, a schegge compattate, c’è un piccino che urla.
Il disappunto è dove sta l’amore qui in nessun luogo o no?
Pensa al lavoro sfumato, all’identità sfumata. Arrendersi a questa folla e tornare indietro e recuperare l’auto a noleggio implica una perdita di tempo pari a quella che separa dall’entrata verso la zona consumo e dove espletano i propri bisogni e si addentano le bufaline da frigobar.
Sono il flebile nella nuvola, di carne, roseamarrone, in lento precipizio orizzontale verso il tornello d’entrata controllato dalla cam a circuito chiuso.
Vanno, fanno transumanza.
Questo lavorio immenso di carni e scheletri interni è la prateria dei primi nanobot: entreranno in queste carni ad ammansire gli ictus, a silenziare i tumori, a rifare i pancreas, a ricostruirci noi, auto a guida umana, coi nostri corpi fallibili, piccoli pachidermi, che dispongono di un’intelligenza interna e stanno apprendendo il possesso a noleggio della propria intelligenza esterna: qui domina la nuvola, che ci geolocalizza, che utilizza i dati e viola le privacy, mentre ci avviciniamo al punto di consumo. Il rumore di fondo è in primo piano, elevatissimo.
Scrivevo, non ho lavoro, non sono nessuno, ho sempre paura, timore, tremore.
Chi dipinge questa scena di battaglia, di battigia, di massa scatenata piano, con i bisogni espletabili?
Siamo arrivati ai gradini che introducono all’ingresso. Sembra la scala mistica inaspettata: larga, piana, widescreen. Minuti e minuti per salirne uno. Saranno una quindicina, di scalini. Le carni umane, sempre più pressate, come tritato di maiale da stipare nella buccia in budello per cotechini, sembrano scannarsi o fondersi con il materiale cementificato della gradinata: quindici scalini incongruamente larghi. Si va lentissimi. Uno pressa sull’altro. Scoppiano risse aeree. I bambini sono multicolori e, pare, istupiditi. Lo scandalo è nell’aria? No.
Il materiale di questi gradini dell’Autogrill Italia, una holding che fattura nazionalmente stando ferma sul mercato, si ottiene dalla compressione sottovuoto di quarzi frantumati o marmi, miscelati con un un otto percentuale di resina strutturale poliestere. E’ un impasto minerale che si agglomera e fa le strutture architettoniche del brand Autogrill e noi siamo qua, gastropodi, polmonati, a lasciare la nostra bava di sudore, fissando l’entratura nell’edificio a vetri, del caffè e cos’altro, dell’usuale supermercatino da percorrere forzosamente curvando a gomito in fondo, per poi riprendere rettilinei verso le casse finali e i tornelli finali, fino alla riuscita, dalla parte in ombra, l’opposta, a strisciare, a fare branco o sciame, fino alle automobili a guida ancora umana, rimettersi in moto, reimmettersi nelle carreggiate intasate, perfettamente fatte ad asfalto drenante, con vista barriera sud tra un chilometro o due, con certi lavori pubblici a chilometro uno.
Per ogni gradino, minuti lenti di sfrigolio dei corpi adulti, calpestìo, bambini, anziani voraci di vita, attaccati qui, ai corrimano in cattivo alluminio. Ogni gradino, la pietra tiepida sembra morbida al tatto delle tomaie, degli sneakers, dei sandaloni.
La pietra testimone è essa stessa in evaporazione, come la carne umana. Le pietre stanno trasmigrando.
All’impasto dell’agglomerato di frantumi vengono incorporati coloranti organici e inorganici e elementi personalizzanti di varia natura quali vetri, specchi, trucioli metallici, madreperla, tutti componenti che caratterizzano esteticamente le linee prodotte. Le lastre e le marmette hanno dimensioni, caratteristiche prestazionali e spessori differenziati tali da favorire un impegno più che versatile. Il campo delle applicazioni comprende: pavimentazioni tradizionali e pavimenti sopraelevati, rivestimenti interni e pareti ventilate. La produzione prevede inoltre forniture per l’edilizia quali scale, soglie, zoccolature, cornici e per arredamenti interni come piani cucina e top bagno.
Ognuno va, trascinando se stesso e gli altri, un mattatoio aperto che aspira al mattatoio chiuso, refrigerato da aria condizionata rarefatta, insidiosa per via della legionella letale che si annida nelle tubazioni, gli addetti puliscono poco e niente e non sterilizzano i condotti a tubi flessibili della condizionata, ci si ammala.
A un metro dal tornello, al culmine della bassa gradinata, a un passo dall’entrata ci si volta e si percepisce la scena, policroma e monocroma, estesa: pasta di carne rosea, sbiancata con frammenti di ossa e cartilagini e pelami a criniera, zazzere, creste, rasatura, dei tatuaggi di pelame sulle sfere irregolari delle teste, dentro cui i nanobot naturali e gli algoritmi neuronali funzionano alla perfezione, se questo è un funzionamento, una concia fresca, sobbollita come il cadavere grasso di san Tommaso aquinate, che appena cadavere fu immerso in un calderone bollente e schiumato in acqua, a levargli a brani la pelle grassa, a filacci, i nervi e tutto, fino a ottenere le ossa e sbiancarle in seconda sobbollitura, per poi sminuzzarle, ottenere reliquie da principio candescenti e nuove, poi via via cariate per l’abominio del tempo, mentre il pianeta ruotava indifferente e la popolazione mondiale cresceva in quel paiolo, massa su massa su masse, fino alla scena rosata lievemente brunita, spatola di colore impastato, a spirale, che è questa massa che vortica lenta intorno a dove entro io, non è più massa, è una massa oltre la massa, pasta di carne rosa spatolata su tela vuota uniforme.

Dentro prosegue.
Le parole dicono quanto dicono, in una propria età finale, di strana continuazione dopo la fine, un eliseo né vivo né morto, né biologico né mentale, dove i numeri agiscono le parole, le formano dalle unità minime e le emettono con stranezza e sufficienza. Già ora stanno parlando a vuoto tutti, ovunque, qui, nel ventre dell’autogrill a vetri, il soffitto altissimo, da cui discende la cappa a tubo che irrora di aria condizionata l’aria viziata dagli effluvi. Parlano dentro i device e caracollano, parlano tra sé senza ascoltarsi, parlano meccanicamente alle sei cassiere che rispondono numeri in parole, cifre dette, e parlano con i lingubot, semisoggetti parlanti, che stanno premendo da dentro, dove dentro prosegue tutto, dove va a proseguire nei lingubot la storia umana.
E’ l’età dell’imminenza, questa, la civiltà di supermassa.
Ovunque è come ovunque, accelerando, e loro accelerano, verso i caffè, ogni individuo più individuato che fuori dell’autogrill, nell’area immensa dai parcheggi verso la scalinata ad agglomerati. Li identifica una luce artificiale, colori più contenuti e tattili: l’insegna in italic del caffè di supermassa, scritta a caratteri di finto pregio, la retroilluminazione dei totem informativi che nessuno consulta ed emettono messaggi nell’aria schiacciata dal getto gelido di condizionata, che si stempera verso la pavimentazione. Ai banconi chiedono automaticamente con parole sempre uguali ciò che è segnalato dalle righe degli scontrini in carta chimica, senza guardare, i baristi con il cappellino a busta in garza di carta ripetono sommando le odinazioni ai colleghi connessi con la caffetteria, che slogano il polso nel gesto con cui caricano i portafiltri a manopola della macchina per i caffè e sbeccano le brocche metalliche, montando la lattea schiumosa che serve alle decine di cappucci a profusione, per tre, quattro file larghe in attesa dietro la fila di chi è al bancone a consumare, dentro il gigantesco.
Tutto questo è gigantesco. Tutto questo è gigantesco transumare.
Verso la scala che porta al piano sotterraneo, quello delle toilette, si accalca una folla impari allo sguardo: non riesce a contenerla nessuno sguardo. Molti soggetti deboli, accanto ai maschi consumati dall’esperienza della camerata, del piscio in comune con la porta difettosa e semiaperta, visti da altri, chiunque pensa alla minzione trionfante, al getto torbido potente, offuscato da tracce di sangue filtrato male, dalle prostate infiammate. C’è qualcosa di sessuale qui, ma non c’è tempo. Il rapporto sessuale è in transizione, almeno quanto il parto materno. Proseguirà dentro. Desiderano soltanto sfregare la mucosa, la performance, l’emissione della seduzione spray, veline dai seni robusti, copiosità di carne femminea vista di sguincio dentro gli schermi, confessarsi, piangere, sedurre, ammiccare, dire cazzate su cazzate, parole alla fine delle parole, lontanissime dai libri. Una libagione accennata, dentro i device sui pornsites, in attesa che diventi carnale, astratta concretamente, nell’appercezione, richiamare un corpo perfetto di figa australe, farlo sbattendo le palpebre, chiudere gli occhi, blinkarli, e richiamare da qualunque cloud un corpo perfido e perfetto, capace delle istanze dell’amore imitato, alla fine dell’amore.
Chiunque qui lavora, non lavoro io, che guardo.
Plurilicenziato, affannato, il licenziamento plurimo, che mi comminano in continuazone, introduce a tremare di un panico non eluso, poiché ineludibile, privo di farmacopea, io, flebile e coetaneo a questi corpi, animati da impulsi e libidici, che scofanano il manicaretto grezzo a firma Autogrill. Vengono dalle autostrade straniere negli autogrill italiani, a cibarsi di queste piade glaciali, ne vanno “fou”, è un brand, si cibano di questi prosciutti fintamente parmensi, di questi formaggi filati, di questi panini poco imbottiti con il brie, lo scrivono “briè”, lo rinominano, sono adamitici: continuano a fornire nomenclature, la situazione finale è edenica, un immane infinito eden per nominazioni nuove, trasvolanti.
Tutto gioca contro la sedimentazione.
La supermassa si scuote, ondeggia paurosamente, verso la zona tavolini in piedi, a superficie circolare e marrone cappuccino, dove appallottolano i tovaglioli brandizzati da bar, fatti con una carta pellicolare repellente, che non netta, non assorbe, questi tovagliolini da bar sono fatti scomodi, insufficienti, troppa poca carta, allora la supermassa struscia le dita grasse o bambine, per pulirsele, sotto i tavolini circolari in piedi, sovrappongono tovagliolino a tovagliolino, sono pecette, non asciugano lo sporco viscoso, la marmellata dentro il cornetto surgelato li lorda, si sentono appiccicosi e poi si fermano in pochi alle pile di gigaseller che non lo sono più, i gigaseller non vendono più una copia, l’angolo culturale di massa è lasciato impresidiato, le scrittrici italiane e i noiristi che si celebrano di estate, ed eravamo tutti figli della battaglia di Campaldino.
Manifesti a verde pallido acquerello indicano le vie francigene, i Campaldino, i percorsi d’arte, uscendo dai caselli autostradali, riportando verso l’albagia verde toscana, gli “-shire” di tutta Italia, i totem e i manifesti somministrano la storia sommaria, fanno vedere un borgo in cotto salvato dai terremoti centrali, un David ovunque, tra le campagne.
Le indicazioni pittoresche sormontano le installazioni in mattoncini lego di un metro in larghezza, a colore acceso non Mattel, sono casupole o scaffalature ironiche e bambinesche, con le novità produttive, molte hostess tra prodotti, molte offerte.
Un’ora all’incirca è stimata la fila delle toilette dove sono stato flebile, schiacciato dalla vergogna, nella piccola pozza lercia di sporco di scarpe del piscio fuoriuscito dalle tazze prive di asse, striature di letame nella ceramica, mentre spremevo qualche goccia e il prepuzio era a contatto batterico diffuso e fuori urlavano, un padre al figlio maschio piccolo da educare all’antichità, cioè al combattimento, da rendere alfa, da stimare sessualmente.
Ogni classe è collassata.
Il futuro collassa in questi giorni, è presente, prosegue dentro.
Ci trasforma, in entità più ammoniacali di un tempo. Disponiamo di oracoli a.i..
Nel box toilette a fianco uno fa flatulenze, sarà seduto sulla ceramica appiccicosa di piscio, oppure si sospende facendo leva sui muscoli tensori delle cosce, una macchina goffa che forse sperimenta il pudore e a cui si affaccia il sospetto e l’ultima esistenza di sistemi astratti e normativi transeati, vizi e virtù, che contraddistinsero i predecessori.
Tornato in superficie, riemergendo dalla zona toilette, avverto la suola aderire collosa per i residui di piscio sporco sulla pavimentazione biancolatte della toilette e tutto è uno scotch a terra, un uretrale, risalendo le scale tra fila e fila, maschi divisi da femmine, che attendono di discendere nella cava dei bagni pubblici, guardati a vista da un addetto negro.
Onde radio non intermittenti in globish colpiscono l’udito, travolto dal rotore umano che amplifica sul fondo dell’aria, come una nube sonora corrusca, un sisma nell’aria, in questa cava dove siamo interni, una valva, paguri finali, girini finali, prima della trasformazione.
Sono emessi bip di allarme e normativa dalle casse automatiche.
Niente è insonorizzato, nemmeno io.
Intraprendiamo la processione verso l’uscita, compiendo il percorso obbligato dalle scaffalature di supermercato, verso le casse finali.
I Toblerone sono assaltati o semplicemente ignorati con uno sguardo di scetticismo o di strana disfida.
Le marche si conoscono benissimo.
Tutto è letteralmente letterale. Il prodotto “Mangia” crea curiosità, nessuno sa cosa sia e cercano il prodotto “Bevi”. Il prodotto “Ingloba”. Il prodotto “Mastica”. Il prodotto “Ingurgita”.
Ciò che è sterile e inalimentare è detersivo, toeletta, salvietta profumata di aroma chimico all’Arbre Magique.
Dove è la merce?
La merce è deflagrata, è esplosa, si è vaporizzata, è ovunque non essendoci, non è ammirabile, non crea più bisogno di quanto crei. La merce è ambientale, è slittata sullo sfondo, nessuno vede nessuna gestalt.
Il nome della merce è inutile, è inutilizzato, lo hanno studiato i creativi licenziati, via via, come il mio personale licenziamento sempre continuo alla fine del lavoro. Chi scriveva è finito. I gruppi di testing dei prodotti sono finiti. Dieci anni fa creava rumore e sconcerto il direttore marketing del cibo per cani, che nella riunione aziendale esecutiva davanti ai dirigenti apriva la scatoletta e con una cucchiaia ingurgitava la palta del cibo canino, faceva schifo, la assaggiava per primo, si faceva così. Lo raccontavano e ridevano, chi rideva si sentiva superiore alla merce e quindi in certo modo supremo, poiché pensavano che tutto è merce e lo è davvero, soltanto non avevano nozione di ciò che significa: tutto. Tutto non è mercificabile ed espande a dismisura, dentro e fuori. Tutto conduce chiunque entri in contatto con tutto verso infinitudini interiori, miliardi di nanobot connettivi, e verso latitudini estreme nello spazio esterno, verso le singolarità e gli orizzonti degli eventi, amplificando a dismisura lo spazio, rarefacendo lo spazio in uno spazio più vasto e estremo, prossimo agli irraggiungibili zero k. La merce era in espansione, ora è espansa: questo è tutto. Nessuno individua la merce. Qualunque caramella al sambuco potrebbe non esistere e è indifferente, anche se profumata, anche se cromata con i pigmenti vinaccia ed eliotropo. L’indifferenza conduce all’inutilità. L’inutilità non è la tomba del necessario. La necessità è essa stessa in transizione. La necessità è transata dal denaro che non esiste più.
Lo vedremo in questa storia: non esiste più.
All’angolo a gomito del piccolo supermercato obbligatorio vige un frigorifero con i prodotti latticini e il salumificio ed è scomparsa la noce di prosciutto al pepe. Sono bocce di carne di maiale stagionata, pressata ovoidale, ricoperta di uno strato di budella tempestato di grani di pepe grosso, pluricolore, grani neri, beige, anche bianchi. Le noci di prosciutto al pepe le conosce chiunque, chiunque ride, italiano, se gliene accenni. Nessuno la ha mai assaggiata. Non si è mai venduto un esemplare di noce di prosciutto al pepe, con cui sono cresciuti fin da bambini negli autogrill i miei coetanei, ridendone sempre, sempre più invecchiando e ricordandola, il cestino in vimini intrecciati, la tovagliola a scacchi rossobianchi per essere più rustica e ancestrale, appartenente a un’età contadina, che fu capace di figliare l’età metropolitana. La noce non c’è più. I cinquantenni si fermano sbalorditi, a quella svolta, dove il prodotto di porco italiano stava inerte, senza essere mai sfiorato da dito o palmo, compatto con chissà quali sali di conservazione, quanti E-, quanti solfiti. Non c’è più e sentono il vuoto del tabernacolo, i molti coetanei italiani che si fermano e indicano lo spazio dove si nota quell’assenza. Non c’è più la noce di prosciutto al pepe, potrebbero piangere oppure ridere, oppure scegliere di flautare la voce, preadolescenziali, e fanno questo: è una lamentazione a piccoli muggiti umani, di delusione e scherno, ma di delusione anche quando è scherno, sono delusi, sentono l’impermanenza, la singolarità che si avvicina è una noce di prosciutto pepato che non c’è più.
All’uscita prima delle casse afferrano a turno bambolotti in gomma flaccida a forma di gallinacei, li strizzano e quelli rimandano un suono artificiale di gallinaceo, sono polli desunti da qualcosa Pixar, il pollo Gino o qualcosa, li strizzano, li squacquerano, gomma di pelle di pollo molliccia, ridono, scattano selfie col corpo morto del pollo gommoso, riconquistano l’abilità al device, il pollice opponibile è dato per scontato e sta per trasmutare.
Non avremo più pollici.
Esco nel largo piazzale bianco, la supermassa è un coro di troni e di potenze, instabili ma permanenti, con la grossolanità della loro pasta di carne.
Mi raggiunge un nuovo messaggio di perdita lavorativa.
Quanto lavoro alla perdita da sempre non è un dato di cui disporre. La vanteria è altro.
Tutta la carne sia riassunta esibendo l’arte.
Ninfa carne, onore dei fiumi e delle terre lievi, carissima al mio cuore: sei diaframma.
Ora a noi è dato andare oltre, morire non precocemente, essere una sterminata generazione, priva di generazioni.
Come me chiunque sono sempre io e scompaio.

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