“Oscuro arcaico”: il secondo capitolo di un libro che non vedrà mai la luce

Pubblico il secondo capitolo di “Oscuro arcaico”, un libro inedito che non vedrà mai la luce, perché è cupo plumbeo e atro. E’ una fantasia malata, che snoda vicende incongrue nell’ombra infetta di un collegio eternamente primonovecentesco. Il primo capitolo è leggibile qui.

[Primo capitoloTerzo capitolo]

CAPITOLO SECONDO

“Mi lasciarono dormire, evidentemente, perché mi risvegliai al suono di una campanella in ottone a mattina inoltrata, come dedussi dal fatto che la parete a sud del colle Tenda andava rischiarandosi di raggi del sole obliqui, i quali si avventuravano nella gola in ombra.
I letti erano vuoti, tutti. Qualcuno non rifatto perfettamente comunicava una sensazione penosa di disguido e panico.
Mi infilai i calzoni della divisa, stando attento al buco di entrata nella fibbia, apprezzai come penetrava il fermo in metallo, ovvero l’ardiglione: pratico, pneumatico. Quindi mi precipitai nelle cucine, che avevo conosciuto la notte precedente.
Non si vedeva nessuno, sull’angolo di una tavola ampia bianca in fòrmica era stata sistemata una ciotola ancora calda, di caffè di orzo, e un tozzo di pane. La bevanda di orzo era acquosa e insipida, il pane sapeva di cantina. Quindi, ricontrollando la cinghia di tela che tenesse, i libri e l’astuccio ben sistemati, a perdifiato feci il corridoio che portava all’aula e bussai.
Il maestro dietro la cattedra era compunto e pignolo. C’era da aspettarselo. Venni presentato alla classe. Quei ragazzi mi parvero ostili, senza eccezioni.
Il banco in fondo a destra era dunque quello che mi era stato riservato. Trovai il manuale sotto il piano scrittoio, che si apriva come un cofano. I libri di testo non servivano. Qualche pastello di scorta era sparso sul fondo desolante di quella scrivania, insieme a una riga, una squadra in plastica trasparente e una lente di ingrandimento. Annusai i pastelli: era un odore di tempera e di pongo, confortante, un materiale di cera colorata, il giallo giallo, il rosso rosso, lasciavo le impronte digitali dell’indice su quella pasta colorata. Sono prodotti similmente i dadi di estratto di carne, marroni, ma un poco screziati, che ciucciavo anni prima, dopo averli sottratti segretamente alla mia madre dentro la dispensa. In quella madia, mi era stato riferito, veniva lasciato l’impastato del pane casereccio e il lievito a riposare, in un’ombra lievemente umida e pomeridiana.
Iniziammo tutti a leggere la prima pagina del manuale, pareva un abbecedario perché aveva le pagine grandi, i caratteri a stampa grandi, la carta grezza, il quale manuale diceva, come leggeva a voce alta e ferma il maestro:
“Quantunque a volte, graziosissime femmine, e maschi naturalmente, vi capiti di pensare di sembrare di essere qualcosa in qualche modo, noi tutti conosciamo, nemmeno quasi lo ricordassimo, e con certezza lo si potrebbe dire, sappiamo perfettamente che sarà gravoso, per voi, il cominciamento del sapere qui illustrato, con grandi affanni per via della memoria, che è imperfetto ricordo fallace e non una fantasia dei popoli, per quanto qui pure raccontati nel loro progredire verso le forme attuali di esistenza, e per l’età e per la fatica che segna la fronte, essendo che chiunque è niente, il più insignificante tra gli apprendisti, e dunque chini resterete su queste pagine, memorabili per voi, che sempre porterete in un cantuccio del cuore, custodendovi caramente l’insegnamento e la sua fruttificazione, la quale tanto vi sarà utile alla fabbricazione, nella società, di voi stessi, e dei vostri cari, esistenti già ora, e a venire, edificando il consesso e maturadone la pietà e l’amore”.
Fui stranito dal fatto che venivano convocate femmine, qui, e per di più all’inizio, trovandomi in un Collegio esclusivamente maschile, come dimostravano del resto quelle teste chine e torve, sulle parole del libro di testo, intente tutte a piegarsi come al di sotto di un bastio, invisibile ma non per questo meno pesante. Dunque erano costoro che dormivano nel buio della stanza quella notte!
Uno si attorcigliava l’indice ai capelli corti e unti, uno sembrava in cerca di pidocchi, sembravano dormire leggendo.
Studiai il maestro. Aveva una patina biancastra sulla lingua, una lingua che raspava il palato e l’interno degli incisivi, per fare le fricative, senza baffi, alto fino al limite superiore della lavagna, tutta già ingessata, sopra cui si stagliavano le cifre misteriose, le radici quadre, i numeri irrazionali. Aveva una giacca con un fregio che non mi parve quello abituale del Collegio. La grafite della lavagna testimoniava la propria età. Forse era del luogo: pensai alle pietre simili a quella grafite che secondo me avevano estratto da qualche faglia occulta del monte, magari una miniera verso valle: pensa, pensai, agli gneiss antichi, agli scisti, a certi calcari cristallini. La sua costituzione lamellare su cui vergavano con i gessi un po’ dappertutto, per conculcare le nozioni e mostrare apertamente a tutti che cos’è la mente, cioè un campo nero con cifre e grafemi insolitamente bianchi, fluttuanti, cancellabili, in un progresso dettato dal passaggio di questo stoppino a spirale grigio di feltro un po’ lanoso. Sappiamo tutti come si respira il gesso.
Si ritirava la sera in un’ala dedicata agli insegnanti e alle insegnanti, il maestro? Mi risolsi a scoprirlo entro breve tempo, purché quei ragazzi stolidi e secondo me cattivi me lo permettessero.
Mi incantai quindi fuori della finestra, alta sulla sinistra, dopo certe lamelle di carta stagnola messe lì a frusciare riflettendo i barbagli contro i piccioni selvatici vedevo profilarsi le stalle, ma non si notavano animali tutto intorno, tantomeno puledri o bretoni da tiro o agricoli, forse le avevano dismesse. E la parete corrusca di granito a grana grossa di questo colle Tenda, ombreggiava già e nemmeno era la mezza. Un ripugnante gatto randagio una volta avevo visto addentare le interiora di un ratto sventurato sulla soglia in pietra di una porta simile a quella che accanto alle stalle dismesse dava su qualche vano o direttamente sulle cucine. Mi riebbi.
Venni chiamato alla lavagna. Mi fu chiesto di dimostrare abilità nella grafia e prontezza nell’aritmetica. Svolsi i miei compiti con imbarazzo, per via del silenzio con cui il maestro scrutava le mie esecuzioni, senza annuire o concedermi un cenno di assenso, di incoraggiamento. Non mi interessava invece la pressione degli sguardi dei miei nuovi compagni, quei loro bulbi oculari sporgenti, addirittura infelici.
Non c’era pietà né grazia lì.
Il maestro fu soddisfatto e mi additò a esempio per tutti.
Alcuni di loro si sfregavano con le mani le parti intime e quindi fui portato a considerare quale visione deve sopportare un insegnante davanti a quella schiera con le gambe aperte, che soltanto lui può notare.
Avremmo affrontato la chimica delle cose, la trigonometria, la bella scrittura e ovviamente la storia, la tecnica, un po’ di scienza delle costruzioni. Era davvero il primo giorno per tutti, scoprii. Non si conoscevano, quindi. Mi sentii rassicurato da quella constatazione. A volte non serve molto per rasserenarsi.
Certi argomenti scabrosi mi hanno sempre intimidito. Ora non era più tempo di correre fendendo le felci del giardino grande e andare tra le vesti garzose della mia madre, a rifugiarmi in quel grembo cotonoso e privo di profumi, che dovevo ogni volta immaginare, figurarmi quali erano i sentori di una donna, e per di più della madre, forse salini o ittici. Allora tornavo alla palla, al cerchio di legno. I miei balocchi erano oramai scaduti, la fallacia della memoria era insidiosa, aveva pienamente ragione l’estensore del manuale.
Il maestro pretese di spiegarci dell’auditoria quando mancava qualche minuto al trillo della campana e infatti fu interrotto alla metà di una frase. Tacque con disappunto.
Mentre uscivamo dall’aula in ordine sparso, silenziosi ed effettivamente stanchi, avemmo l’impressione che un’ala della cretineria ci avesse sfiorato le nuche piatte.”

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