Venezia

Deve morire non Venezia, ma l’idea di Venezia, io penso questo. C’è però che Venezia divenne la propria idea. Non concordo con l’opinione di chi dice che deve finire Venezia come Disneyland – magari fosse Disneyland, perché Disneyland è viva, non sopravvive, ma vive e, soprattutto, non è morta. Venezia deve finire, essa iniziò. Le sue cesellature conferirono un limite a ogni progetto, il che è bene, poiché soltanto nel limite è il progetto. Queste alghe esitano a dichiarare a chiunque nel mondo che Venezia è finita. Ha inventato l’intelligence, i servizi segreti, le gondole sono un progetto di scalmo che esce da se stesso e si fa barca, quindi devono affondare, poiché è destino di ogni barca, prima o poi, di affondare. L’equorea metropoli che non è metropoli, con la sua filosofia rutilante di maschere canterine e saltellanti, i notabili di paese che, divenendo primati di una città, ritengono di esserlo del mondo, l’odiosa eccezionalità esotica, le accademie e il cristianesimo sbilenco e intriso di fumo sulfureo, l’idea stessa di copertura e la lotta per nulla erculea contro il tempo – tutto fa di questa idea di città un equivoco del pensiero e un agire dell’eccezione che non è tale: non è agire (Venezia non agisce) e non è eccezione (rispetto a cosa sarebbe eccezione? Al Bayou o a Firenze?). I promotori di questa città pretendono di avere una grammatica, garantita dal foglio di carta che si trovano davanti. Quale sarebbe infatti la scuola che prepara a Venezia? Che cosa è questa promiscuità tra dolce e salato, tra muschi d’acqua e concrezioni calcaree? Quanto è bella piazza San Marco? La bellezza estenua il poeta, ma lascia indifferente l’uomo che nutre dubbi gusti. Il gusto che irrora papille è in una città il suo spirito, ovverosia il suo movimento, e da questo punto di vista Venezia è immobile da secoli. Laccate le unghie, non i popoli. Quale sarebbe il popolo di Venezia? E’ un enigma da cui, per l’appunto, nasce la modernità dell’intelligence, poiché Venezia è un’idea inglese, Canaletto parla Tamigi. Quegli orridi che sono i canali parlano a Kafka o a Broskij (i Piombi devono essere resi lievi, aerei, sfumare), ma non certo allo scrivente tipicamente italiota dei tempi del mainstream. L’indignazione mi gorgoglia a 1.87m. Gli hotel esclusivi, le cripte, le edicole: tutto ciò fa notizia. E lo fa non per i morti, ma per la morte del museo, questo pensamento morto, larvale, inutile allo sviluppo regressivo degli spiriti più indomiti. Che in Venezia vedono la Fenice, la quale nulla ha a che vedere con l’omonimo teatro. Se fosse davvero un teatro, Venezia! Non lo è, questo il suo dramma, la sua condanna, l’emivita a cui si costringe in un’ambra di luce che non è più italiana, non lo è mai stata. La cantò un interprete armeno in pesante accento francese. Il filosofo si ubriacava sui suoi ponti, ritenendo possibile non soltanto governarla, ma propriamente governare, il che è uno sproposito per un filosofo. Procacciare poesia non è la sua funzione, che è piuttosto intrappolarla in una forma di decadenza, strapiena di Tadzii e di servitori di due padroni. Non si capisce cosa io intenda dire. Il garantismo finisce qui, insieme alla famiglia del tempo, che pretende di sconfiggere l’errore, questa grande salvezza che ci è concessa: errare, ambire alla latenza, incombere, concludere, essere inutili, per sempre totalmente inutili…

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