Invecchiamento

E’, ora, molto, difficile: invecchiare.

Lo è sempre stato e non era stato capito.

La nostra generazione è stata vittima, anche di se stessa, però anche del mondo, e di una accelerazione indebita sperimentata qua a Occidente. Inserita in un unico quadro di salti, di sismi, di singulti e, è nitido, di sangue altrui.

Pensavo: mio padre. Poco prima di morire diceva a me e mia sorella che non si riconosceva più in questo mondo. E intendeva che non riconosceva più questo mondo.
Quell’uomo aveva vissuto: i primi anni suoi nella guerra mondiale e i bombardamenti; e poi gli anni Cinquanta con il liceo e la metropoli ricostruentesi e le cose e le merci e quella umanità specifica italiana in quegli anni, i Cinquanta; il boom economico e la rivoluzione breve nei Sessanta; nei Settanta una più cupa lotta, incancrenita, metallica, e intanto l’introduzione della tecnologia che si sgancia dalla mano umana, lo strumento che rotea solitario nello spazio cosmico, inizia un’ulteriore propria e solamente sua evoluzione; la premessa dello sfascio negli Ottanta, la finanziarizzazione, un genere più insinuante e immateriale di alienazione; i Novanta con una introduzione silenziosa di tecnologia pervasiva, lontana dal suo sguardo; infine gli anni Zero, assolutamente non riconducibili ad alcun quadro precedente.
Aveva trapassato molti quadri storici occidentali e quindi aveva ceduto.
Avverto la pàtina stagnosa sulla sua lingua, il palato opaco, questo amaro di metallo che mi rende: fratello a mio padre.

Vedevo l’altra sera in amore uno helter skelter: era l’umanità dei figli ora qui.

Non attendevo questa ronda a vuoto, io, questo oscuro andare per cortili, solitario, di voltarmi, non riconoscendo ciò che mi era fino a ora stato familiare, e neanche di restare attento, minimamente essere presente a me, interrogarmi, circostanziale, allibito riguardando i miei simili dicendo quasi: addio.

Questo percepire l’esistenza è un’aberrazione, termine desunto dalla ottica. Significa: la differenza tra l’immagine effettiva, reale o virtuale, formata dal sistema e l’immagine che si voleva ottenere, immagine che di solito è bidimensionale e consiste in una proiezione geometrica della scena reale sul piano focale del sistema secondo i principi dell’ottica geometrica ideale. Le aberrazioni possono dare (di solito più sulla periferia dell’immagine che al suo centro) scarsa nitidezza, deformazioni dell’immagine, differenze tra le immagini corrispondenti ai diversi colori, non uniformità della luminosità.

Guardo, vivendo: la concrezione caleidoscopica. Essa è chiusa proprio come in quel cilindro delle minime meraviglie, sia pure con molte fosforiche assai colorate configurazioni. Questa piccola illusione è la Grande Illusione. Io sento questo.

Il mio problema consiste nelle configurazioni.

Il mio problema è consistente quando esistono le configurazioni.

Il mio problema è quanto insiste e sta insieme dentro le configurazioni.

Invecchiare si è dimostrato tanto sorprendente, che io non l’avevo visto fino a ora:

I’dico che pur dianzi
qual io non l’avea vista infin allora,
mi si scoverse: onde mi nacque un ghiaccio
nel core, et èvvi anchora,
et sarà sempre fin ch’i’ le sia in braccio.

Dunque vedendo, osserva il Petrarca, vedendola per davvero, e non per propri meriti, questa cosa, la Cosa, poiché essa si scopre da sola, si avverte un grande gelo, e non si smetterà di stare dentro il gelo fino a quando si sarà sopportati, portati da lei: la Cosa.

E ancora non sento il freddo.

Giordano Bruno:

“nell’eccesso delle contrarietadi: ha l’anima discordevole, se triema nelle gelate speranze, arde negli cuocenti desiri”

E ancora:

Ahi, qual condizion, natura, o sorte:
in viva morte morta vita vivo.
Amor m’ha morto (ahi lasso) di tal morte
che son di vit’insieme e morte privo.

Né il gelo né l’ardore. Anassagora:

Non sono separate le une dalle altre con un taglio della scure, né il caldo dal freddo, né il freddo dal caldo.

e però:

Il denso e umido e freddo e l’oscuro si è qui raccolto, dove ora (è la terra), mentre il raro, il caldo e l’asciutto s’è allontanato verso le zone esterne dell’etere.

Sentire né l’una né l’altra cosa non è non sentire.

I’allargo i miei pensieri
ad alta preda, et essi a me rivolti
morte mi dan con morsi crudi e fieri

Invecchiando, pensa Nietzsche, cioè una configurazione che secerne una configurazione meno fisica:

l’esigenza di redenzione diventa sempre più debole

In effetti, più entro nell’età, più aderisco alla misura del tempo, e più desidero astenermi dalle costruzioni della storia dell’umanità. Diminuisce la capacità di considerare l’esistenza un problema.

Ricordo: alla base del faro non c’è luce.

Cediamo agli affetti. Sono decidui e mostreranno quanto cedere c’è nello stare in essi pienamente. Portano oltre se stessi. Il dolore è fatto di calma gioia, la gioia è fatta di una gioia altra e calma. La calma gioia è tutto, in tutto. Sia abbandonata la configurazione.

Apprendimento al distacco con tutto il corpo, cioè con parte della mente: invecchiamento.

Pensa per te.

Io non mori’ e non rimasi vivo;
pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno,
qual io divenni, d’uno e d’altro privo.

Metafisica, epica, tragedia: Lukács

“L’arte, questa realtà visionaria del mondo a noi conforme, è diventata con ciò stesso autonoma: non è più una copia, poiché tutti i suoi modelli sono sprofondati”. L’immane potere del contraddirsi: dalla metafisica all’epica alla tragedia, usando Lukács, per tacere di Benjamin.

Soltanto una civiltà al suo stato finale, pronta ad attraversare l’abissale faglia di una trasformazione qualunque e misteriosa, può ritenere che il contraddirsi o il contraddire reifichino il fantasma della morte, con ciò implicitamente asserendo l’impossibilità del “no” come veicolatore dell’empatia e come possibilità aperta del dialogo. Sotto tale risguardo, il nostro presente è in abominevole accelerazione. Il “no” è finto o è guerrigliero, cioè latore di morte: è infatti polemico.
Vorrei riflettere con brevi notazioni, utilizzando emblemi. Assumo György Lukács, questo maestro ipermisinterpretato, come termine emblematico. Riproduco alcuni passi dal suo Teoria del romanzo – si è nel 1916, al momento della stesura. Vorrei che si osservasse il pendolamento contraddittorio tra utopia e supposto realismo, tra metafisica e antimetafisica. E come per noi, oggi, questo movimento di autocontraddizione sia foriero di ricadute circa la nozione e l’àmbito specifico, storico e metastorico di generi quali epica e tragedia.
Tutto ciò è molto euristico: una frase che al supermarket della realtà non supposta non potrei letteralmente pronunciare.

“Dostoevskij non ha scritto nessun romanzo. […] Dostoevskij appartiene al nuovo mondo. Se egli sia già l’Omero o il Dante di questo mondo, o se invece si limiti a fornire i canti che i poeti, più tardi, intrecceranno insieme fino a comporre un grande disegno unitario; se insomma egli rappresenti un inizio o sia già un compimento, ciò potrà essere rivelato dall’analisi della forma che presiede alla sua opera. Il compito di giudicare se la nostra capacità di abbandonare la condizione della compiuta iniquità è reale o se invece l’avvento del nuovo è relegato nel limbo delle pure speranze spetta in primo luogo a una ricognizione astrologica condotta con gli strumenti della filosofia della storia. – Affiorano gli indizi di una prossima epifania, ma sono ancora così deboli che in qualsiasi momento, e del tutto arbitrariamente, possono soccombere alla sterile potenza dell’esistente come tale.”

György Lukács qui ha avuto ragione e non ha avuto ragione. Ha richiamato l’epos come speranza in maniera nostalgica. Si è appellato al principio utopico attraverso lo stilema pensativo della filosofia della storia. Dostoevskij non è diventato quanto intravvedeva Lukács stesso, che però in finale del brano metteva in forse la previsione: a colpi di storia. Capacità straordinaia di sostenere un’ambiguità totale, come si vede: il “sì” che diventa un “no” a se stessi: questa fonte sorgiva di umanità.
E infatti, a inizio della Teoria del romanzo:

“Dunque la filosofia, sia come forma della vita sia come forma determinante della poesia e del suo contenuto, è sempre un sintomo dello strappo tra l’interno e l’esterno, un segno della differenza essenziale tra l’io e il mondo, dell’incongruenza tra l’anima e il fare.”

Il che significa che Lukács percepisce nitidamente che la filosofia non è più prassi metafisica; e mette in relazione questo dilaniamento con la prassi artistica, che pur sempre prassi è: non esiste unità metafisica perché si è ormai filosofi. Posizione leopardiana che lascia intendere quanto ambiguo sia lo storicismo di Lukács e il supposto nichilismo di Leopardi.
Ed ecco il movimento di autocontraddizione, l’enorme potere del contraddirsi e dell’essere ambigui e del dire il “no”:

“L’arte, questa realtà visionaria del mondo a noi conforme, è diventata con ciò stesso autonoma: non è più una copia, poiché tutti i suoi modelli sono sprofondati. L’arte è una totalità creatrice solo perché l’unità naturale delle sfere metafisiche si è lacerata per sempre.”

Il che non significa un passaggio alla stolidità del più bieco riduzionismo storicista. L’arte diviene il residuo, l’autentico erede della metafisica, che non si darebbe più per Lukács: un punto su cui la storia stessa si è occupata di dargli torto (ma in questo momento…), così come a proposito del disegno epico unitario post-dostoevskijano.
La residualità e lo statuto di erede dell’arte mettono in moto una nostalgia per la forma epica, irrefrenabile. Ed ecco che il romanzo, volontaristicamente, diviene il contenitore espressivo di quella nostalgia – cioè, l’erede designato dell’inizio di un nuovo epos post-borghese e cioè oltre la sperimentazione impressionistica e d’avanguardia, essendo cioè il romanzo stesso un possibile mezzo di veicolazione e ricostituzione metafisica:

“Il romanzo cerca di scoprire e ricostruire la celata totalità della vita per mezzo dell’atto figurativo. La struttura precostituita dell’oggetto – la ricerca essendo solo l’espressione soggettiva del fatto che tanto l’interezza oggettiva della vita quanto il suo rapporto ai soggetti non presenta elementi di trasparente armonia – fornisce la disposizione emotiva necessaria alla figurazione: la situazione storica reca in sé forre e abissi che devono essere inglobati nella figurazione, evitando che i mezzi impiegati per la composizione ne cancellino le tracce”.

L’autore svolge, cioè, la funzione dell’eroe epico. La nostalgia per l’epica di György Lukács è un’esteriorizzazione dell’epica stessa come veicolo alla prassi metafisica, il che ne stabilisce l’unità con la metafisica stessa. L’idea che la metafisica non sia pratica e quindi energetica e dinamica è all’origine di questo fraintendimento, che non è di Lukács, ma dell’occidente intero.
Peraltro, il romanzo non è mai riuscito a essere quel veicolo in senso epico – è sì veicolo metafisico, cioè lanciante verso autoconsapevolezza dell’attività nuda di coscienza, ma non in modo epico.
Eppure, quanto metafisico è questo percorso antinomico, contraddittorio del grande teorico di Budapest! E senza che se ne accorga!
E quante e quali ricadute sull’oggi… E’ infatti possibile un’epica nel momento in cui la situazione storica non fornisce la disposizione emotiva necessaria alla figurazione?
No: non è possibile. Questo, così precisamente configurato, è il momento della tragedia, non dell’epica.

Letizia Muratori: “Il giorno dell’indipendenza”

letizia_muratori_ilgiorno dellindipendenza[Pubblico, con un ritardo che mi fornisce di adeguati sensi di colpa, uno speciale sull’importante romanzo Il giorno dell’indipendenza di Letizia Muratori. Sotto la mia recensione, una videointervista all’autrice, un articolo da Rolling Stones e un intervento di Paolo Di Stefano. gg]

I casi della vita non mi permettono di avere fiato da mesi e, quindi, di non riuscire a scrivere adeguatamente dei libri che ritengo importanti.
Tra i libri che ritengo importanti, usciti in questo ultimo semestre, mi pare abbastanza fondamentale Il giorno dell’indipendenza di Letizia Muratori, edito da Adelphi (15 euro). Chi desiderasse conoscere la trama, può farlo cliccando qui. Posso permettermi qualche superficiale osservazione, che vorrei tanto corroborasse la fiducia nella scrittura di questa autrice per me straordinaria. Seguo con non malcelato interesse il percorso narrativo (che ora non so nemmeno più se qualificare in questo modo) di Letizia Muratori, giunta, con La casa madre (qui la mia recensione), a un per me evidente salto quantico, per il lavoro effettuato sulle strutture e per l’impressionante raggiungimento di uno stile di “grado zero”, possibilità concessa soltanto a chi abbia la capacità di percorrere e praticare ogni stile.
letizia_muratori1Il giorno dell’indipendenza, per quanto apparentemente distante dalle ambientazioni e dalle location del romanzo precedente (poiché di romanzo, od oggetto narrativo, si trattava: non tanto nonostante, ma proprio per il fatto che era costruito sull’incrocio ambiguo di due racconti, non perfettamente speculari), porta a estreme latitudini la tematica dell’affetto al trauma che è l’umano tutto, cioè l’occhio ciclonico di entrambi questi libri. Se nella Casa madre Muratori conduceva agli estremi linguistici e figurali la meditazione sulla dipendenza dal trauma, e sulla propria dipendenza dal linguaggio anzitutto, ne Il giorno dell’indipendenza giunge letteralmente a quanto dichiara il titolo, cioè all’indipendenza dal letterario e alla possibilità di sporgersi allusivamente oltre l’assenza dell’umano. Questa è la narrazione letterale, costruita sì per metafore (non per allegorie), però tali che o vengono prese alla lettera oppure impongono la percezione di un mancato nitore e di una ricaduta in chissà quale estetico. Il lettore è (non mi è possibile evadere dall’avverbio ancora una volta) letteralmente lasciato da solo e, se il libro non è compreso (e non mi affido a una capacità cognitiva o semplicemente emotiva), la colpa è del lettore stesso. Muratori giunge all’ininterpretabilità che è lo stesso movimento dell’interpretazione.
Continua a leggere “Letizia Muratori: “Il giorno dell’indipendenza””

Dove posa il piede il nomade

“Non credere mai che uno spazio liscio sia sufficiente per salvarci”

deleuzeè un precetto, più che un consiglio, che Gilles Deleuze [nel ritratto a destra] e Félix Guattari forniscono nel loro plurinterpretato Millepiani. Nasce dall’opposizione apparente di due fenomenologie dell’universale percettivo e, probabilmente, extrapercettivo, ovverosia extraumano: lo spazio liscio e lo spazio striato. Contro le opposizioni che solitamente hanno fatto preda e brani delle parole di Deleuze soprattutto, ecco le parole stesse di Deleuze e Guattari:

“Lo spazio liscio e lo spazio striato – lo spazio nomade e lo spazio sedentario – […] non sono della stessa natura. Ma a volte possiamo notare un’opposizione semplice tra i due tipi di spazio. Altre volte dobbiamo indicare una differenza molto più complessa, per cui i termini successivi delle opposizioni considerate non coincidono del tutto. Altre volte ancora dobbiamo ricordare che i due spazi esistono in realtà solamente per i loro incroci reciproci: lo spazio liscio non cessa di essere tradotto, intersecato in uno spazio striato; lo spazio striato è costantemente trasferito restituito a uno spazio liscio.”

C’è qui sotto un riferimento al modo di intendere il gotico da parte di Wilhelm Worringer (in I Problemi formali del gotico). E, sotto Worringer, c’è un riferimento alla filosofia vitalista che mostra una radice simmeliana, e cioè prettamente influenzata dall’autentico del Preromanticismo: che sarebbe poi il processo indefinito metamorfico.
Il modo in cui D&G discutono l’idea vorticale di gotico enunciata da Worringer, è singolare: nel senso che essa costituisce un punctum preciso, topico, dell’indefinitezza di ciò che concerne una delle meditazioni chiave dell’opera deleuziana: s’intende l’idea di “nomadismo”. Continua a leggere “Dove posa il piede il nomade”

Cristina Campo: fine della critica, analogia, figura

cristina_campoSalvatore Agresta (psicoterapeuta e saggista, di cui ricordo qui pubblicati il fondamentale intervento sul trauma e le osservazioni su Bion e la “testimonianza cieca” in Apocalisse con figure) mi segnala, con affetto impagabile, in merito al discorso sulla critica e sulla teoria della letteratura, un passo da Cristina Campo. E’ interessante, ai fini del discorso che si sta qui sviluppando negli ultimi interventi, lo scavalcamento dell’allegorico a favore della metafora dinamica che, mutuata dallo sguardo nomade di Leopardi, a detta della Campo, produrrebbe la figura, in coincidenza con un’analogia che nulla ha a che vedere col progetto para-metafisico desunto da Baudelaire. E’ dunque possibile leggere, così come il compito del traduttore, il compito del teorico emblematico della letteratura, lasciando la critica al suo destino di affievolimento progressivo. Il passo ulteriore che interessa qui è dunque la figura: e i suoi rapporti con l’allusione quale retorica ultima e il simbolo che essa, mi sembra, va ad annullare se esso è addivenuto allo stadio di cristallizzata concrezione di strati culturali, perdendo la sua potenza veicolare di denudamento. La potenza veicolare di denudamento, da parte del simbolo, è il foro o la breccia o l’abisso che si apre nel salto tra il compossibile e ciò che si manifesta in forma, e dunque anche linguisticamente. Questa potenza è visibile storicamente attraverso il segreto della potenza stessa: che è, in metafora, sia luce sia respiro sia buio sia generazione sia morte. Il punto è il segreto della potenza: la sua sostanza. Per riprendere Bloch e Benjamin, ecco la metafora esplicativa di un simile processo (o, meglio: campo di forze, che sono non meccaniche, ovvero non psichiche, bensì coscienziali) – metafora che e Bloch e Benjamin sostengono, a partire dalle Tesi sulla filosofia della storia: “Come i fiori muovono la testa verso il sole, costretti da un segreto eliotropismo, tutto ciò che è stato, tende a voltarsi verso il sole che sale nel cielo della storia”. Appare evidente, sia per la teoria sia per la prassi poetica e di narrazione, che la questione è il “segreto eliotropismo” e non il realizzarsi del residuo manifesto di ciò che è storico.
Tutto ciò costituisce il campo di azione interna dell’allegorico, che sarebbe l’uomo tutto, e non una retorica.
L’allegoria è retorica se e solo se spinge verso il momento extralinguistico e a-formale, che sarebbe il segreto dell’eliotropismo: cioè, se essa stessa si rende allusione indefinita, ovverosia sta muta a fronte di quella potenza segreta che è pronta a manifestarsi, non si sa il quale forma storica – il che definisce il principio-speranza e l’apertura stessa dell’allegoria.
Questa non è più letteratura: è l’umano.
L’apparizione è destino, il che apre alla possibilità del tragico, sempre rinnovata possibilità, e quindi, ma solo in seguito e a seconda dell’altezza percettiva e di sensibilità dell’umanità che è in gioco rispetto al tragico nel proprio determinato momento storico, apre anche alla possibilità di una forma manifesta del tragico, che non è detto sia la tragedia.
La parola a Cristina Campo:

“Dove cercheremo allora lo scrittore, visto che il tempo non è affare della poesia e che quanto ormai gli si chiede sembra affare del tempo?
In Italia, l’ultimo critico fu, mi sembra, Leopardi, con De Sanctis la pura disposizione dello spirito contemplante fu definitivamente perturbata e distorta dall’ossessione storica. Leopardi fu l’ultimo a esaminare una pagina come si deve, al modo cioè di un paleografo, su cinque o sei piani insieme: dal sentimento dei destini all’opportunità di evitare il concorso delle vocali. La esaminò, vale a dire, da scrittore. A Leopardi il testo fu presenza assoluta, cosicché non procede diversamente nello scomporre un passo di Dante o di Padre Bartoli, di Omero o di Madame de Stael. Tutto ciò che non si presti a una lettura multipla, egli lo ignora. Evito di pensare a un suo esame di una pagina contemporanea. Fosse tra le più belle, suppongo che egli noterebbe innanzi tutto l’assenza quasi totale del come o dell’ablativo assoluto: la carenza di spirito analogico, se non vogliamo dire metaforico, della facoltà compiutamente poetica – profetica – di volgere la realtà in figura, vale a dire in destino“.

In Bottega di lettura: Demetrio Paolin su Italia De Profundis

Giuseppe Genna - ITALIA DE PROFUNDIS - minimum faxIl sito ufficiale
ITALIA DE PROFUNDIS su minimum fax
Anticipazione sul blog Il Miserabile
Ipertesto della Scena italiana come inferno
I booktrailer: 1234
Videomeditazioni: La storia non siamo noiStoria di fantasmi
Acquista Italia De Profundis su iBS o su BOL.

Su “Italia De Profundis” e oltre
di DEMETRIO PAOLIN
[da Bottega di lettura]
paolin_idp.jpgLa prima domanda che mi sono fatto, leggendo Italia De Profundis (Minimum fax) di Giuseppe Genna è stata: che libro è? Un romanzo, una narrazione, una confessione, una autofiction?
Per rispondere a queste domande parto da una divergenza interessante. Se guardate la copertina del libro, sotto il titolo appare la scritta “romanzo”. Se andiamo invece sul sito del libro, nella immagine che riproduce la copertina accanto alla parola romanzo abbiamo un punto interrogativo.
Paradossalmente prima di entrare nel libro dobbiamo sciogliere questa tensione. Tra “romanzo” e “romanzo?”.
L’autore non ci aiuta, nel testo ci sono diverse dichiarazioni su cosa sia o non sia Italia De Profundis

La verità è che il romanzo non coincide più con il veicolo della narrazione. Esso stesso è un canale alienativo, e lo diventa maggiormente quando l’élite intellettuale ne richiama la tradizione, che è quella di uno strumento efficace nell’interpretare la realtà. Eppure a quale narrazione bisogna guardare? Questo, precisamente questo, è il problema della poesia in epoca contemporanea.

Eppure sulla copertina del libro c’è scritto “romanzo”. Certo mi si dirà, è una scelta ovvia dell’editore. Tale dicotomia, però, mi interessa e per risolverla mi affido non tanto alle dichiarazioni esplicite di Genna nel libro, che appunto sono per il superamento del romanzo stesso, quanto alle strutture implicite e in particolare alcuni apparati paratestuali.
Mentre leggiamo Italia De Profundis arriviamo ad un punto in cui in bella vista l’autore affigge una sorta di post-it al centro della pagina che recita

Da questo punto, fino a pagina 91, tutto diventa noiosissimo. Al fine di evitare tale noia, si consiglia vivamente di saltare a pagina 92, dove non è neppure detto che non ci si annoi. Comunque, ciò che segue è più noioso di quanto sia umano immaginare e inoltre si tratta di una parte che abbassa le vendite del libro. Si raccomanda di saltarla a piè pari, davvero.

Questo intermezzo mi pare illuminante. Mi sembra di sentire una voce simile a quella del Manzoni che mentre ricopia la famosa introduzione ai Promessi sposi ad un tratto entra in scena, sbuffa e parla dell’eroica fatica etc etc… L’autore interviene dirige, mette in scena se stesso, che è diverso dal “Giuseppe Genna” che agisce nel libro: questo intervento, negandola, paradossalmente svela una struttura che è narrativa nel profondo. Da pag. 74 a pagina 91, Genna condensa le immagini del libro, sia quelle lette sia quelle che leggeremo. E’ una parte essenziale del testo, che Genna ironicamente – il riferimento all’abbassamento delle vendite del libro – ci invita a saltare. Non è l’unica struttura paratestuale esistente. Io ne ravviso altre due legate alla sezione, un vero e proprio confiteor (p.114), detta le storie di “merda”.
Incominciamo a leggere la prima. “Giuseppe Genna” prende il suo motorino e si dirige verso Enzino, mentre va verso Enzino, Giuseppe Genna dice

Provengo da via Novara, esco da casa di Vanessa. Chi desiderasse sapere chi sia Vanessa e cosa è successo a casa sua, può ignorare quanto sto scrivendo, saltare le pagine, andare al segmento successivo.

Mi pare che il meccanismo sia chiarissimo. Abbiamo una struttura de “le storie di merda” che l’autore mette secondo una logica che ci pare temporale, l’intermezzo ci chiarisce che il tempo del racconto è sfasato rispetto al tempo degli accadimenti: Genna racconta prima una cosa che è successa dopo e ci informa anche che se vogliamo possiamo andare a leggerci direttamente l’altra storia. Questo rimandare a parti del testo successive, questo mischiare i piani temporali mi hanno fatto venire in mente il Tristram Shandy, che rappresenta uno dei modi – forse più atipici e nel contempo classici– di scrivere un romanzo e un romanzo moderno.
Quando ci troviamo davanti alla terza storia di merda, dove il protagonista pratica l’eutanasia ad un malato terminale, leggiamo una nota – in questo caso l’elemento paratestuale è evidentissimo – che ci dice: i nomi, i luoghi e quant’altro sono stati cambiati per evitare eventuali rischi legali. Poi seguono queste righe

Questa è dunque la finzione? Cosa c’è di vero nella finzione? La finzione è vera? E’ romanzesca? E’ una storia? Questa è una confessione? La finzione, qui impiegata a fini di occultamento, è un occultamento?

Siamo davanti ad una confessione, ma a pie’ pagina l’autore incomincia a ragionare manzonianamente sul vero, verisimile e falso, che sono il germe della riflessione sul romanzo almeno per quanto riguarda la letteratura italiana.
Dopo la nota continuiamo la lettura della storia e incontriamo un uomo così simile a Welby, così uguale a lui, così medesimamente desideroso di porre fine alla morte, ma qualcosa non quadra: la sua strenua volontà che la cosa rimanga nascosta. L’uomo non si è rivolto ai giornali né alle televisioni, vuole morire solo. L’uomo è molto religioso, sulla testiera del suo letto crocifissi, rosari benedetti a Lourdes e disegni di bambini.
Poi il colpo di scena. Genna ha un dubbio legato proprio a tale ostinata scelta di privacy: qualche ricerca e si scopre che l’uomo che vuole morire è un pedofilo condannato. Di colpo il caso di cronaca, alla Welby, è altro, l’episodio diventa una riflessione dostoevskijana sul male, sulla pietà e la colpa (p.167-172).
Rimaniamo alle strutture paratestuali. Italia De Profundis ha una epigrafe tratta da Petrolio, il romanzo di Pier Paolo Pasolini. La citazione ci porta a domandarci quanto è in che modo Petrolio abbia influito sul libro di Genna. C’è una prima vicinanza che è tematica. Petrolio nelle intenzioni di Pasolini doveva essere un romanzo sull’Italia e su cosa era diventata nel corso degli anni 70. Il testo di Genna vive la medesima tensione “morale”. Anche se l’analisi pasoliniana si muoveva nell’ambito del potere e ai prodromi di quel mutamento sociale ed economico che paradossalmente a Genna viene “rivelato” nella sua permanenza nel villaggio vacanze in Sicilia.
Il libro di Pasolini agisce più in profondità.
Torniamo per un attimo a quella sorta di confessione delle esperienze più tremende di “Giuseppe Genna”. Il titolo che viene dato a queste 4 lasse di testo è appunto “storie di merda”.
Ora se prendiamo Petrolio, notiamo come tra gli appunti una parte molto cospicua sia legata a “Il Merda. Una visione” (Pasolini, Petrolio Einaudi [1992], pp.323-85). Sono pagine quelle dove tramite il Merda assistiamo ad una sorta di processione allegorica in cui con un gioco di specchi si mostra cosa realmente è la società italiana. E lo si mostra tramite il Merda e le sue peripezie.
Le storie di merda di Genna vivono della medesima trasparenza allegorica: Genna raccontando di sé e delle proprie vicissitudini, vuole dire altro e precisamente la metamorfosi finale di ogni italiano.
Si crea quindi una prossimità tra il Merda pasoliniano e le storie di merda di Genna, legate da questo intento di rivelazione finale.
Tra le storie “inconfessabili” di Genna abbiamo, infine, la descrizione dell’incontro tra il Giuseppe Genna e Vanessa, una drag queen. In queste pagine assistiamo alla descrizione particolareggiata di una fellatio che il protagonista Giuseppe Genna compie. In questo caso il debito verso Petrolio, non è tanto tematico o strutturale come nei primi due casi, ma letterale.
Nel romanzo di Pasolini assistiamo alla descrizione particolareggiata e precisa di una fellatio da parte del protagonista Carlo (Pasolini, cit., pp.201-29), che nei termini e nei modi ricorda quella presente in Italia De Profundis.
Quindi proprio l’esempio più basso della abiezione di Giuseppe Genna nasconde un omaggio e una citazione chiara al libro che fa da palinsesto alla narrazione.
Italia De Profundis è il libro gremito di letteratura, dove l’elemento autobiografico se c’è è soltanto dato iniziale, perché tutto – come accadeva per altri versi in Hitler – si riconduce alla scrittura e alla letteratura. L’episodio dell’eroina, le sue allucinazioni e dialoghi al limite ci riportano alle atmosfere de Il pasto nudo, la descrizione delle settimane nel villaggio turistico sono una sorta di tenzone rispetto a Wallace e al suo reportage Una cosa divertente che non farò mai più (l’autore in questo caso dichiara la relazione tra Italia De Profundis e il testo di Wallace).
Queste riflessioni ci portano a dire che Italia De Profundis è un romanzo per struttura, montaggio e per trama, ma a rendere ancora più interessante il tutto è funzione allegorica, che Genna dà alla sua narrazione. Proprio l’allegoria, che è un tratto che Wu Ming ha ravvisato caratteristico della NIE, fa divergere negli esiti Italia De Profundis dai protocolli narrativi della nuova epica italiana.
Wu Ming 1 nel suo intervento definisce così l’allegoria

E’ l’allegoria metastorica. Si può descriverla come il rimbalzare di una palla in una stanza a tre pareti mobili, ma anche come un continuo saltare su tre piani temporali:
– Il tempo rappresentato nell’opera (che è sempre un passato, anche quando l’ambientazione è contemporanea);
– Il presente in cui l’opera è stata scritta (che, anch’esso, è già divenuto passato);
– Il presente in cui l’opera viene fruita, in qualunque momento questo accada: stasera o la prossima settimana, nel 2050 o tra diecimila anni.
Le opere che continuano a risuonare in questo presente sono chiamate “classici”. Il loro segreto sta nella ricchezza dell’allegoria metastorica, la stessa che possiamo trovare in miti e leggende. La storia di Robin Hood è sopravvissuta ed è ri-narrata a ogni generazione perché la sua allegoria profonda continua ad “attivarsi”.

A me pare che questa definizione abbia un difetto, ovvero descrive un simbolo più che un allegoria. Il riverbero di un libro nel tempo ha a che fare con la potenza simbolica (o mitica) e non con quella allegorica di una storia. [*]
Cosa è quindi allegoria?
L’allegoria è dire una cosa per dirne un’altra. L’esempio più eclatante è in un gesto. Ognuno di noi sa cosa è la transustantazione. Ovvero il momento in cui il pane diventa il corpo di dio. Il segreto è che rimane pane, ma nel contempo è la carne di dio.
Se dobbiamo parlare di allegoria, allora io credo che bisogna muoversi su questo campo.
Io narro una cosa, la narro così come è. Eppure questa cosa ha un significato altro che prescinde, che non ha rapporti, con quello che sto dicendo. Io scrivo che mi sono perduto in un bosco oscuro, ed è così, è un fatto. Nello stesso tempo io parlo di un uomo che cade nel peccato.
Io non faccio niente perché il lettore intenda questo, non gli do segnali specifici – in quel caso sarebbe un simbolo -, ma tutto semplicemente accade nella scrittura.
Italia De Profundis non crea quindi dei rimbalzi. I fatti si presentano nudi, accadono. Sono lì in tutta la loro presenza. “Giuseppe Genna” infila un ago nella sua vena, e noi vediamo solo e soltanto questo. Eppure alla fine del libro comprendiamo che abbiamo fatto una esperienza diversa, altra. Il testo non ha creato quella sorta di complicità tra autore e lettore, quel legame è che tipico del simbolo. Per capire il simbolo io devo avere un legame con chi lo pronuncia.
Italia De Profundis contrariamente a Dies Irae non fallisce in questo: non si fa simbolo, ma allegoria. Alla fine di Dies Irae io mi sentivo come Giuseppe Genna (nel “come” è contenuta la carica simbolica del libro). Dopo Italia De Profundis io non sono Giuseppe Genna, che rimane da me separato e distante: perché non si dà allegoria senza distanza. Mi rendo conto che l’autore Giuseppe Genna raccontando i nudi fatti di “Giuseppe Genna” ha detto qualcosa di me come uomo.
Il testo di Genna non rimbalza, per mantenere la metafora di Wu Ming, ma è fermo e chiuso. La profonda letterarietà della struttura, il continuo gioco di citazioni non fanno che frapporre uno schermo tra l’autore e il lettore, uno specchio, che per comodità si chiama “Giuseppe Genna”, e dove misteriosamente ognuno vede ciò che alla fine è.
[*] Nota di Giuseppe Genna: nell’accezione che Demetrio Paolin conferisce all’allegoria secondo quanto descritto da Wu Ming 1 nel memorandum sul NIE, accade uno scontro tra sistemi ermeneutici e filosofici contrapposti. Mentre infatti, come ribadito in più punti, Wu Ming 1 utilizza, per tentare di circoscrivere il campo di forze allegorico, l’impianto dinamico dell'”allegoria aperta” desunta da Benjamin, l’interpretazione dell’opposizione tra simbolo e allegoria (a tutto vantaggio del simbolo, che in Benjamin è in un certo senso l’avversario teoretico sia in Angelus Novus sia nel Dramma barocco tedesco) è mutuata dall’estetica esistenzialista di Pareyson e, mi pare, soprattutto del testo su Kafka di Remo Cantoni, laddove il filosofo italiano giunge a conclusioni polarmente opposte rispetto a quelle enunciate da Benjamin nel saggio kafkiano in Angelus Novus. Entrambe le prospettive, tuttavia, conducono a un esito unico, che forse è il Bloch di Tracce a riassumere: è la prospettiva dell’abolizione del “come”, cioè il raggiungimento di una “letteralità” così intensa da resistere a qualunque temporalità umanistica e a qualunque ermeneusi. Il punto comune su cui mi pare necessario lavorare è dunque questo: non tanto le sistematiche che fanno da premessa a modalità interpretative apparentemente opposte, quanto l’esito “aperto” del testo, che è una “potenza” in grado di significare al di là della costrizione del testo stesso a un messaggio, a una forma non dinamica, a un significato o a un Discorso, che è sempre il Discorso.

Miserabili fatiche: il sito si ferma dal 21 al 25. Date la colpa a Philip Roth.

Per colpa di Philip Roth, questo sito non verrà aggiornato per una settimana. Prima di spiegarne i motivi, lascio la parola all’autore di Everyman, che parla proprio di questo romanzo. La seconda parte dell’intervista, a fine del post.

Il Miserabile Scrittore si immerge in fatiche: chiude una sopresa che apparirà in autunno e lavora come un matto per dare struttura e testo a un intervento (che diventerà un saggio) su Philip Roth in Everyman e Operazione Shylock, con correlazione all’impossibilità del romanzo tragico – intervento da tenersi all’Università di Siena nell’àmbito del seminario su “Traduzione e Trasposizione”, intitolato Tradurre la morte: Altante “Everyman”, durante il quale interverranno anche Donata Feroldi, Clelia Bettini, Marco Federici e Sabrina Mori Carmignani, (il 23/04 alle 15 e il 24 alle 9 e alle 15, presso l’Auditorium “S.Chiara”, in v. Valdimontone, 1 – p.t. – Siena).
Il saggio su tragico e impossibilità del romanzo a essere strumento del tragico è particolarmente impegnativo, perché tende a dimostrare come una determinata ma decisiva prospettiva sulla tragedia possa collocare la Poetica di Aristotele in una dimensione metafisica, utilizzando un apparente stilema immaginale e archetipico che, via via, trapassa nella tradizione letteraria occidentale, fino a inabissarsi nella tradizione del romanzo, che ne manifesta però i sintomi, pur allineandosi essa a una tipologia altra di tragico, la cui più esplicita formulazione ravvedo nelle premesse presacrali di Miguel de Unamuno. Il percorso da mettere su carta, oltre alle considerazioni teoriche e filologiche, fa scattare un arco voltaico che va da Everyman e Operazione Shylock di Roth alle Baccanti di Euripide, appoggiandosi in maniera critica o accogliendo le osservazioni a teorici quali Schlegel, Hegel, Vernant, Colli, Benjamin, Ricoeur, Lukács, Burke, Kerény, Walter Otto, Hadot, Bouchard, Frye, Goldmann e Brereton, oltre al già citato Unamuno e a William Storm col suo fondamentale After Dyonisus. L’intervento si apre, grazie a una segnalazione di Wu Ming 1, con una citazione sorprendente dall’introduzione di Stephen King al suo Blaze. Ne fuoriesce un’immagine di Philip Roth come autore melodrammatico che, pur tentando il tragico in Everyman, realizza un tragico elementale e novecentesco, cioè per nulla profondo, mentre a una lettura sintomale emergono brani che sfuggono palesemente al controllo dell’autore e sono la traccia di un tragico che si incarna nella tragedia classica e non può realizzarsi nel romanzo contemporaneo, a meno che questo genere non ripristini una retorica di ordine allegorico, secondo le indicazioni che compaiono nel Dramma barocco tedesco di Walter Benjamin. Il titolo dell’intervento e del saggio è: Everyman di Philip Roth: il tragico nel romanzo, contro il romanzo tragico.. Lo pubblicherò in Rete al ritorno dal seminario, per i Miserabili Lettori che possono esserne interessati. La pubblicazione, successivamente, in maniera innovativa, avverrà anche per via cartacea, insieme ai contributi degli altri relatori, in un Atlante Everyman, titolo di warburghiana ispirazione.

Il messianesimo nel nuovo romanzo: Benjamin

benjaminnl.jpgIl romanzo a cui sto lavorando, per ora soltanto molto studiando e molto riflettendo, è anche un romanzo intriso di messianesimo. Un messianesimo totalmente al di fuori delle beghe teologali e folosifiche che, nel Novecento – e anche in questi sei anni di filosofia – si è spesso presentato à la page. Il messianesimo a cui guardo è un’immagine, sapendo che io non avrò la possibilità di rifare o a cui ricorrere, per le necessità antifinzionali e antiretoriche imposte dalla materia con cui mi trovo a operare: è il celeberrimo Angelo della Storia di Benjamin. Perché la trama del libro è la Storia stessa, una congiura del passato che, volendosi tradurre in futuro, isola e meccanicizza il presente, tentando di dirigere in traiettoria l’inesplicabile punto del presente stesso che, essendo punto, non può essere linea – cioè non può essere direttrice storica, può solo essere sorgività continua della storia, a patto che il presente stesso coincida con l’autoconsapevolezza che mette in scacco l'”io” che si autoillude e illude di esistere, conformato, caratterizzato. Il messianesimo a cui guardo ha ovviamente connotati teologici (da Taubes a Fackenheim, il presso di noi così ignorato Fachenheim…), ma infine ha il suo fondamento (che è uno sfondamento nel non sapere che sostanzia l’umano, in Benjamin, nel Benjamin dell’Angelus Novus, certo, ma anche in quello del Dramma Barocco. x.jpgLaddove l’autoseppellimento dell’uomo allegorico, nella storia, è la risposta a ogni tentativo di inchiavardare la storia di storie in toria certificata – questo osceno esercizio antiumano che opera attraverso l’umano, concedendo continue vittorie postume al Male che devo scrivere.
Si tratta di un Benjamin, dunque, che sta agli antipodi delle definizioni e degli avvicinamenti ideologici di cui è testimonianza il saggio di Dora Kirchstein, che pubblico qui di seguito (è apparso qualche anno fa sul Manifesto), che spacca la ricezione di Benjamin con una lotta a chi tira più potentemente la giacchetta del povero Walter tra Marx e Scholem. A chi interessasse, per smentire la prospettiva che viene data di Benjamin, ho interlacciato al testo della Kirchstein (in corsivo) mie glosse, che non hanno intenzione di essere decostruttive, ma costruttive.

Continua a leggere “Il messianesimo nel nuovo romanzo: Benjamin”