So che è prevista la pubblicazione della traduzione italiana di End Zone di Don DeLillo, un romanzo del 1972 a tutt’oggi inedito da noi. Metto on line un breve brano, tradotto come posso tradurre io, che non sono un traduttore. Si dà qui un momento di ciò che chiamo “vuoto” o “dialogo vuoto” o “Personaggio Vuoto“. Si tratta di parte di un intenso discorso a due, assolutamente incollocabile, se non in quello che Daniele Del Giudice ha nominato (non per teoresi) “orizzonte mobile” e rispetto alla cui emersione vorrei continuare l’indagine, non soltanto genealogica. Si tratta infatti per me dell’autentica forma del contemporaneo che la tradizione (non solo novecentesca) ci consegna, al di là delle specificità linguistiche nazionali. E’ ciò che è metastorico (il Prometeo di Eschilo è per me un Personaggio Vuoto) e deve trovare, di epoca in epoca, una rinnovata modalità espressiva, che a oggi io non sento più appartenere a quel genere che nel secolo scorso è stato etichettato come “romanzo”, bensì a qualcosa di molto aperto, offuscato e tutto da stabilirsi, a cui dò nome “narrazione” o, ma in senso esclusivamente leopardiano, “poesia”. Quanto a End Zone, specifico trattarsi dell’area in cui il giocatore di footbal americano segna, cioè fa touchdown. Sarebbe come se io allestissi una narrazione teologica a partire dal calcio e la intitolassi Porta. La differenza starebbe nel fatto che, mentre la Porta ha un’evidente deriva semantica (dalla porta di calcio al varco, anche alla “Porta dei Cieli”), essa rimane un manufatto umano o un’intuizione percettiva metaforica umana; l’espressione americana riguarda invece qualcosa che umano non è (se non per accidente), poiché la Zona Finale è in tutto ciò che apparem e costituisce una fase temporale estremale, che fa da premessa all’uscita dal tempo. Di qui si induca la potenza su cui lavora Delillo.
Ecco, a ogni modo, il brano.
“Ho fede in forme statiche di bellezza. Mi piace misurare i limiti delle cose e lasciare che stiano dove sono. Tento di creare gradazioni di silenzio. Le cose in questa stanza sono semplici e statiche. Sono misurate con estrema attenzione. Se modifico leggermente qualcosa, muta tutto. Il mutamento diviene immane. La mia vita qui ricorda in qualche modo un certo tipo di sogno. Sai quando gli oggetti, nei sogni, certe volte acquisiscono un significato enorme. Risuonano, in qualche modo. E’ facile temere gli oggetti nei sogni. Ecco, a volte qui pare questo. Mi pare di diventare sempre più piccolo a volte e la stanza mi pare quasi dilatarsi. Gli spazi tra gli oggetti assumono un che di terrorizzante. Mi piacciono i colori, qui, il fatto che i colori non si muovono mai, non mutano mai. Il tono acustico della stanza invece muta. C’è un ronzio a volte. C’è un rombare basso. C’è una sorta di ottuso canto bruto. Io penso che il tono acustico della stanza muti in momenti diversi della giornata. A volte è oceanico e ci sono altre volte in cui è appena presente, una specie di piccola pulsazione in un attico. A questo proposito la radio riveste importanza. Il tipo di silenzio che segue l’emissione di suoni della radio non è mai identico al silenzio che la precede. Uso la radio in modi diversi. Diviene quasi un esercizio spirituale. Silenzio, parole, silenzio, silenzio, silenzio.”