[Questo intervento è ora edito in Letteratura e censura. Dalla repressione politica all’autocensura, curato da Roberto Francavilla ed edito da Artemide]
Se ha ragione Guy Debord nell’Internazionale Situazionista e “là dove c’è comunicazione non c’è lo Stato”, è automatico che là dove c’è letteratura non esiste censura. Eppure siamo abituati a migliaia di censure letterarie, pressioni su autori, più o meno cruenti azzittimenti di scrittori. Questa abitudine deriva non dal torto di Debord (che è altro e che discuterò in seguito), bensì dall’idea che la letteratura appaia nel cerchio reale del Potere, della Norma Realizzata. E’ la Norma che impone la censura: sulla letteratura? No: sul libro. Stiamo riferendoci a un’impossibilità che il Leviatano soffre: non può censurare il farsi di un’immagine, di un ritmo, di un’idea, di una lingua. Può, d’altro canto, intervenire sul deposito che quel processo, che è il crearsi dell’opera letteraria, consegna alla collettività. Il libro come rappresentante della letteratura, il pamphlet o lo scritto come rappresentanti dell’opera: l’immateriale che si fa materiale subisce censura soltanto al termine di questa trasmutazione e viene colpito nel suo rappresentante fisico, foss’anche l’autore vivente, in carne e ossa, cioè quel crogiolo misterioso e a volte auratico in cui idea immagine ritmo e lingua hanno preso forma.
Sostengo dunque che la censura alla letteratura è impossibile. Quella al libro, no.
E, poiché di mestiere faccio lo scrittore, su questo punto ho da citare una pagina che ho scritto e che va interpretata al di fuori di ogni narcisismo. Piuttosto la prospettiva è: cosa fa lo scrittore di fronte alla possibilità di censura? E quale censura, poi? Così nasce, e anche muore, la descrizione del rogo nazista dei libri in Babelplatz, sotto l’occhio incendiario di Goebbels, nel romanzo Hitler:
Che cos’è un libro? Domanda abissale: un libro è un santo eretico, un impiccio che fa scivolare i re, la condensazione di visuali alternative e soprannaturali, la morale in azione travolgente, il virus della libertà.
Esso agisce per contagio.
Tale contagio fu sempre avvertito e si tentò di debellarlo. Infezioni e cure simili ebbero luogo in Cina nel III secolo avanti Cristo, nel corso del Medioevo a opera dell’Inquisizione, dopo la distruzione dell’Impero Azteco, nella Spagna della Reconquista, fino ai nostri giorni.
Laddove il contagio è appiccato, si appicca il fuoco.
Lo scrittore è un untore, si sa.
Per fare fronte alla diffusione della peste in Venezia devastata dai bubboni, si dispose il rogo di molti libri, strumento di contagio a causa del contatto con le pagine. Quando alcuni umanisti scrissero al vescovo Ghislieri di evitare questa azione, egli rispose che, al pari della peste reale, bisognava debellare la “peste dell’eresia”.
Nel 1644 John Milton scrisse nell’opera Areopagitica: “Uccidere un buon libro equivale a uccidere un essere umano; chi uccide un essere umano uccide una creatura ragionevole, l’immagine di Dio; ma chi distrugge un buon libro uccide la ragione medesima”.
Nella Tempesta di Shakespeare, Calibano consiglia a Trinculo e Stefano il modo di sottrarre il potere a Prospero: “Egli è abituato a fare un pisolino nel pomeriggio, cosicché, dopo esserti impadronito dei suoi libri, potrai strappargli le cervella; oppure con un bastone potrai spezzargli il cranio, o sventrarlo con una pertica, o tagliargli un’arteria col tuo coltello. Però ricordati di impadronirti prima dei suoi libri; senza di essi egli è solo uno sciocco come me, e nessuno spirito potrebbe obbedirgli. Solo i suoi libri devi bruciare”.È la sera del 10 maggio 1933.
Babelplatz, la piccola armonica serena piazza quadrangolare di fronte all’università: dà su Unter den Linden.
Ciò che sta accadendo è descritto in diretta da Radio Germania e da tutte le altre stazioni.
La cerimonia è ufficiale, quasi religiosa.
Joseph Goebbels si sporge dal palco, la sua voce squillante rastrella i lobi cerebrali. Chiama accanto a sé, uno per uno, gli esponenti dell’Associazione studentesca che gli hanno suggerito questa idea rivoluzionaria.
Goebbels si è entusiasmato.
Ha allestito una coreografia spettacolare. I riflettori fendono il buio dall’alto. È quasi mezzanotte. Inni sono stati diffusi ad arte.
Il mondo è boreale: è all’inizio.
I camion hanno scaricato i volumi e la benzina. Tutto è pronto per le pire. Un corteo, dall’università, giunge al centro di Babelplatz: professori togati in stola di ermellino, gli studenti che spalancano sorrisi fosforescenti nella notte. Seguono le SA e le SS. I libri sono stati requisiti in biblioteche, consegnati dagli studenti, uomini delle SA e delle SS hanno compiuto irruzioni in appartamenti di intellettuali, hanno stracciato intere librerie.
Eccoli, a terra, disanimate, queste orme d’anima: i libri.
Joseph Goebbels, lo scrittore fallito, chiama accanto a sé il primo araldo studente, che recita la formula rituale: «Primo araldo: contro la lotta delle classi e il materialismo, per l’unità del popolo e per una concezione idealistica della vita: getto alle fiamme gli scritti di Marx e di Kautsky!».
Ecco la fiamma sul cumulo di testi di Marx e di Kautsky. La pira eleva le sue lingue di fuoco. Il calore è una vampa violenta. I volti dei presenti, raccolti in circolo attorno al gigantesco rogo verticale, trasudano liquidi e orgoglio.
Gli araldi si susseguono.
Brucia Gorki.
Si incenerisce Proust.
Incarbonito Dos Passos.
Combusto Hemingway.
Evapora Einstein.
Ridotto a brace Freud.
Incendiato Gide.
Avvampa London.
Arde Schnitzler.
Si ustiona Mann.
È corroso Zola.«Settimo araldo: contro il tradimento letterario nei confronti dei soldati della Grande Guerra, per l’educazione del popolo in uno spirito sano: getto alle fiamme gli scritti di Erich Maria Remarque!»
Ventimila volumi.
Goebbels ridens: il suo piccolo cranio di scimmia, la sua dentatura preantropica, i suoi zigomi da primate, piccolo, incastonato in se stesso, le piccole pupille dilatate dal calore, l’enorme membro, gli enormi genitali compressi nei pantaloni di cuoio nero, le manine prensili che battono nell’applauso che cancella le idee e fa stridere il mondo.
Ai tedeschi non importa. Ascoltano la trasmissione radiofonica, chiudono l’apparecchio, vanno a dormire, è molto tardi.
Sopravvivenza per sopravvivenza, il libro manifesta capacità insospettabili di autonomia quasi ferina. I libri sopravvivono, durano a volte molto più dei cicli storici. Istituiscono un canone. Persino sui loro corpi inorganici (non, invece, su quelli viventi di autori che persero, perdono e perderanno la vita in nome della loro letteratura) spesso lo Stato non può nulla. A posteriori, ha comunque ragione Debord.
Non è vero. Non ha ragione. Questo suo torto, in realtà, se intercettato e sviluppato, determina la più drammatica e tragica situazione in cui l’umanità, nell’autorappresentarsi umanisticamente, incappi senza accorgersi. Poiché lo Stato non è che l’esteriorizzazione di una tendenza (umanistica anch’essa: ma ci si abitui ai paradossi e alle contraddizioni, in questo caso…) del tutto automatica a istituire interiormente uno scivolamento verso la Norma. L’identità contro il caos: ed ecco il protocollo di difesa, una censura che, financo nell’ormai trapassato paradigma analitico, diviene una forza fondamentale, oppure, a seconda delle prospettive, un esito del contenimento che la psiche adotta pur di non sprofondare in ciò che teme essere informe. Senza questa Norma, l’identità pensa che ci sia il disastro.
Su questo punto cieco che implica il processo di identificazione (e conseguente attaccamento all’identificazione conquistata) fa perno l’autocensura. Non la censura può censurare la letteratura, ma l’autocensura ne ha pieno potere. Un principio di negazione, scelta, cancellazione, occultamento che nasce in seno allo stesso costituirsi immaginifico, ritmico, ideale e linguistico dell’opera. In questo punto cieco penetra il condizionamento mentale. La Norma esteriorizzata vibra in consonanza con la Norma interiorizzata e comunica che, poichè la realtà è fatta in un certo modo, sarà il caso che l’identità si comporti con certi criteri per non essere cancellata. Anche nel fare l’opera, l’identità deve stare attenta a comportarsi in un determinato modo. E’ quanto è accaduto nella storia dell’uomo: la pressione del conscio collettivo modifica ab interiore l’opera, il suo stesso costituirsi. Ed è quanto accade oggi, con un’intensità tanto più notevole quanto più possiamo considerare inarrestabile, atmosferico e ubiquo il condizionamento mentale. Questo condizionamento mentale, autentica violenza invisibile, è la pressione di un conscio collettivo che vede l’umanismo rovesciarsi in antiumanismo e, quindi, ritiene che la letteratura abbia un determinato ruolo, un certo meccanismo da realizzare, una modalità da esplicare. Il ruolo è marginale e per élite che rientrano nello schema della “massa anti-massa” prefigurato da Gramsci. Il meccanismo è che la letteratura deve funzionare, cioè deve essere funzionale alla facilità richiesta al lettore che suppostamente deve svagarsi. La modalità da esplicare è la linearità di scrittura, la presenza di plot e risoluzioni narrative quali monomandatari letterari che permettono l’accesso al vettore unico della letteratura stessa: l’idea e la pratica di vendibilità.
Oggi viviamo in un mondo dominato da quelli che Slavoj Žižek, ne La violenza invisibile, denomina “i buonuomini di Puerto Davos”. L’ossimorica ironia mette a nudo come esista un anello di congiunzione tra l’opposizione antiglobale che si riunì a Puerto Alegre e i seminari teratocapitalistici del circolo di Davos. Laddove il dominio è così sintetizzabile con sardonica metonimia: “Lo stesso Toni Negri, il guru della sinistra postmoderna, loda il capitalismo digitale in quanto contiene in nuce tutti gli elementi del comunismo”. Osserviamo da vicino, quoad nos, cosa significhi la digitalizzazione: reti, possibilità di interconnessione globale, dinamica. Come annotava Ulrike Meinhof: “E’ necessario fare network”. e, nonostante l’apparente protocollo ipertestuale di Rete, il network si fa basilarmente con Word. Word diventerebbe uno strumento rivoluzionario in sé: sono i tragicomici esiti della metafisica della tecnologia. Poiché è attraverso i testi che il digitale inizia a imporsi comunitariamente. E lo fa in questo modo: rendendo occulti gli errori. Uno stuolo indifferenziato di scrittori, in qualunque angolo del globo, ripensa a un verso, a un capitolo, a intere parti di un libro – basta un tasto, cancella, sparisce ogni traccia.
Apparentemente va all’aria la critica variantistica, il che è un gran peccato per il comparto umanistico, ma non un lutto assoluto, vista la giovane età e la precoce decadenza di una disciplina qual è la critica. Però qui interessa il meccanismo mentale: quale traiettoria viene disegnata dalle cancellazioni digitali? Ho abbastanza esperienza del lavoro dei miei colleghi e del mio per affermare: la tendenza è di cancellare ciò che è complesso, difficile da capire per il lettore medio, noioso, sovrabbondante, eccessivo. Oppure, il che è più grave, si cancella perché il risultato aderisca il più possibile alle proprie intenzioni – quasi che l’esito letterario debba corrispondere a una scala 1:1 rispetto alle intenzioni autoriali. La letteratura algebrizzata, sotto controllo, di qualunque specie esso sia: ecco il risultato del fare l’opera in tempi di comunismo digitale o di capitale teratomorfo, il che comunque significa: in tempi di autocensura.
In realtà, siamo in stato di sospensione. Questa autocensura preventiva produce effetti. In quanto è una forma di violenza invisibile, essa produrrà (già sta producendo) la sensazione di una violenza che apparentemente è immotivata, nasce dal nulla – oserei dire che è ciò che Walter Benjamin etichettava quale “violenza pura” o “divina” nella sua Critica della violenza.
Il punto in cui questa rottura si consuma, si apre una crepa e la lava di un’inattesa violenza deborda, è la saturazione delle soglie del desiderio. L’autocensura produce. I prodotti dell’autocensura sono veicoli di violenza subita. Le soglie desiderative si saturano. L’uomo è un animale che si annoia. La ripetizione della leggibilità non incanta nessuno più. E’ già preoccupante studiarsi i grafici di andamento dell’audience televisiva e constatare quale sia il programma più visto oggi in Italia: si può pensare alla tv spazzatura, alla fiction più idiota – mentre si tratta del programma che non esiste, cioè dello zapping. Ciò che eccede la vendibilità è già ora più praticato della proposta di un prodotto confezionato secondo le gabbie di una colossale autocensura (la fiction televisiva utilizza retoriche letterarie per comporre gabbie, le più semplici e semplicistiche possibili, in modo da non fare compiere fatica allo spettatore. La fiction televisiva è un ingigantimento non artistico del processo di autocensura preventiva dell’artista contemporaneo). E, mentre la critica variantistica si lecca le ferite prima della morte certa, qualcosa di più profondamente violento è pronto a consumarsi.
La situazione è davvero triste (e si capisce tra poche sillabe in che senso impegno questo aggettivo): siamo alle soglie della consunzione della “presunta infinità del vuoto di speranza”, secondo l’espressione utilizzata da Walter Benjamin ne Il dramma barocco tedesco. Siamo alla resa dei conti: l’allegoria, la grande allegoria fuoriuscita dai testi e utilizzata come prassi di condizionamento sociale (nulla di più allegorico dello spettacolo televisivo, anche quello di pessima qualità), sta per farci entrare nella sua verità – che è il vuoto.
A questo punto, soltanto una letteratura del vuoto si presenta come possibilità di riforma alla letteratura autocensurata. Tale letteratura del vuoto si prefigura all’orizzonte, ha un suo canone, reclama che la retorica venga riempita nuovamente di psiche, per reggere al caos, all’idea che l’identificazione è falsa e che l’attaccamento all’identificazione è la conclusione di un sillogismo antiartistico. Questa letteratura che si oppone all’autocensura pretende il rinnovarsi del tragico nel suo farsi. Emblematicamente essa si esprime con la musica semplice e complessa del coro de I sette contro Tebe: “Ordisco sul tumulo un’aria | di nenia ossessiva, ora che so | la morte disperata, le salme, | gli sgorghi cruenti”.
L’autocensura letteraria ha i giorni contati. Basterà accorgersi che essa è parte di un vasto processo dell’umanismo che si è rovesciato in antiumanismo, e che ha condotto a morti disperate, a salme, a sgorghi cruenti. Questa consapevolezza sarà corale, tragica e innalzerà una nenia ossessiva, che da vicino ci ricorderà tutto il canone della tradizione che ci sostiene in quanto creatori di opere letterarie: dall’urlo incomprensibile di Prometeo incatenato al vocalizzo nel fulmine di Semele, fino alle formule di Bartleby e di Jakob Von Gunten e a Lee di Burroughs, fino all’ultimo clone di Daniel in Piattaforma di Houellebecq o al comprensibile e inaudito rollio vocale sussurrato da Mr. Tuttle in Body art di DeLillo.
La letteratura del vuoto è già tra noi, lo è sempre stata, pronta a rovesciare ogni autocensura. La “violenza pura” di Benjamin sta per scatenarsi, come si è sempre scatenata. L’autocensura è pronta a censurarsi, come è accaduto da sempre.