Tommaso Pincio: Racconti d’America

di TOMMASO PINCIO
[da il manifesto, 9.1.10]
Maestri della forma breve, il celebre Raymond Carver, di cui minimum fax pubblica nove Racconti in forma di poesia, e il pressoché sconosciuto Andre Dubus, di cui esce da Mattioli Non abitiamo più qui, cercavano di illuminare in poche pagine quegli istanti in cui la vita imbocca una direzione decisiva: per lo più quella sbagliata

Precaria è la delicata arte del racconto. Raggiunta l’età – tutto sommato non così veneranda – di quarantacinque anni, Roberto Bolaño considerò di avere accumulato sufficiente esperienza per dispensare qualche consiglio sull’arte di scrivere racconti. Nella miniera di saggi, articoli e discorsi scritti tra il 1998 e il 2003 dal poeta e narratore cileno, e poi raccolti dall’amico Ignazio Echevarría nel volume Tra parentesi (in uscita per Adelphi nella traduzione di Maria Nicola, pp. 379, euro 26), leggiamo: «Uno scrittore di racconti deve essere coraggioso. È triste riconoscerlo, ma è così».
Il perché non viene espressamente chiarito, ma è facile intuire che tra le ragioni possibili rientri la precarietà con cui è obbligato a misurarsi lo scrittore di racconti. La narrativa breve abita una terra di mezzo. Si colloca a metà strada tra la poesia e il romanzo, è entrambe le cose senza essere né l’uno né l’altra; si esprime col pragmatismo spesso mendace della prosa ma aspira alla luminosa verità del verso. Quando la difficile alchimia riesce, però, niente può reggere il confronto. Impossibile non restare incantati da certi gioielli di Cechov. Lo scherzetto, per esempio. Il limpido meriggio invernale in cui l’anonimo narratore convince una fanciulla, la timorosa Nadezda Petrovna, a scendere in slitta dalla cima di un poggio innevato, ha colori e sapori che è impossibile dimenticare. E che dire delle quattro parole che per un immotivato sadismo il narratore sussurra nell’orecchio della giovane mentre la slitta precipita a valle fendendo l’aria come un proiettile? Al termine della corsa, col cuore in gola, Nadenka guarda negli occhi il narratore per capire: è stato lui a pronunciare quelle quattro parole o le è soltanto sembrato di udirle nel frastuono del turbine? L’insensata crudeltà di lasciare nel dubbio la ragazza, seguitando, senza precisa ragione e alla stessa maniera, a sussurrarle nell’orecchio «Io vi amo, Nadia!», lascia pietrificati e nella sua semplice assurdità costituisce una vetta assoluta della letteratura.
Nel tempo, il nitore dell’opera di Cechov non si è mai appannato, anzi è finito per diventare un termine di paragone universale, il metro col quale misurare il valore della narrativa breve. Anche negli Stati Uniti, dove la letteratura è più incline all’ipertrofia del grande romanzo, l’insuperato maestro è un punto di riferimento imprescindibile. Molti autori, da Malamud a Cheever, gli sono stati accostati. Alla fine The Times ha assegnato il prestigioso titolo di «Checov d’America» a Raymond Carver, il cui percorso, in perenne oscillazione tra prosa e poesia, parrebbe confermare l’ibrida natura del racconto, peraltro esplicitamente evocata nel titolo di una raccolta fra le più note, Racconti in forma di poesia. Sempiterna protagonista delle storie di Carver, si sa, è una umanità piccola e derelitta, condannata a dimorare in case decrepite di periferie desolate, in famiglie che vanno avanti a forza di stenti e litigi oppure a trascinarsi in spietate e sporche solitudini dove l’unico senso dell’esistere pare essere quello di restare a galla. C’è forse qualcosa di più precario della vita di queste persone? C’è forse forma migliore per rappresentarle della poesia-racconto carveriana? In una delle sue particolari poesie, Limonata, lo scrittore ci parla di un padre qualunque, un certo Jim, che ha perso il figlio. Non ci dice nulla di cosa sia accaduto, a parte che Jim «ha perso Jim junior in primavera» e che nel tragico evento è coinvolta una limonata. Tutto è riposto nei forti odori che quella potente parola – primavera – fatalmente risveglia in noi. Quella parola, odorosa di vita piena, pesa come un macigno sui versi della poesia e sugli immotivati sensi di colpa del padre, il quale, non riuscendo a farsi una ragione di aver perso il proprio figlio, non si perdona di aver mandato Jim junior quel giorno a prendere il thermos con la limonata in macchina. La poesia diventa così un susseguirsi di cause insensate. Alla maniera di un testimone in una corsa a staffetta, la colpa passa dal padre alla sua idea di aver fatto una limonata, poi dall’idea al supermercato dove il cesto di limoni era esposto sotto un vistoso cartello che diceva «Da quanto tempo non bevete una bella limonata fresca!». Perché secondo Jim padre bisogna risalire sempre alle prime cause, fino al primo limone coltivato sulla terra, perché «se non ci fossero stati i limoni sulla terra, e non ci fossero stati i supermercati Safeway, be’, Jim avrebbe ancora suo figlio, no?». Nella straziante inutilità di un simile tentativo di mettere ordine nel caos riecheggia qualcosa dello scherzetto che il narratore di Cechov tira a Nadenka. Le cose umane sono appese a fili esili e capricciosi: piccole cose senza ragione si trasformano in cose grandi, e poco importa che gli artefici della trasformazione siamo stati noi o il fato. Quel che conta – o che quantomeno dovrebbe contare – è che, una volta diventate grandi, le cose non dovrebbero essere più prive di spiegazione, come in effetti quasi sempre rimangono. Il caso o meglio ancora la scalogna, ovvero i panni che il destino costantemente veste in Carver, non è un sistema di intrecci così complicato come amiamo pensare. Non ha una trama lunga e articolata come quelle dei grandi romanzi. La scalogna è un attimo. Può reiterarsi o accanirsi su una singola persona, ma resta comunque un attimo. I racconti mostrano per l’appunto il triste bagliore di questi insensati e ridicoli istanti in cui la vita di una persona imbocca la direzione sbagliata. Pertanto i veri racconti sono sguardi più che storie in senso stretto, fotografie di attimi, istanti immortalati a parole. Ed è proprio questo, stando al regista Robert Altman, quel che Carver cercava di fare: offrire uno sguardo. America oggi ricomponeva in un mosaico cinematografico «attraversato da sessualità frustrata» – per usare una definizione di Tess Gallagher – gli istanti di ordinaria e assurda scalogna che il maestro del cosiddetto realismo sporco ha fissato nella sua opera.
Per la precisione, gli istanti selezionati erano dieci istanti, vale a dire nove racconti e una poesia (raccolti ora in un volume edito da minimumfax, trad. Riccardo Duranti, pp. 231, euro 16), e per ammissione dello stesso regista, alla base del film c’è proprio «la catena di eventi – o comunque la si voglia definire, fortuna o caso – di Limonata».
Sulle orme di America oggi si muove I giochi dei grandi, fortunata pellicola premiata nel 2004 al Sundance Festival che ricompone un paio di racconti di un altro dei massimi autori americani di narrativa breve, Andre Dubus, raccolti in Non abitiamo più qui (Mattioli 1885, cura di Nicola Manupelli e postfazione di Tobias Wolff, pp. 274, euro 18). Da noi ancora pressoché sconosciuto, Andre Dubus appartiene alla stessa generazione di Carver e condivide con lui un legame con Cechov. In effetti, per Dubus si tratta di qualcosa di più. «Aveva trentadue anni», racconta il figlio, «e cominciò a leggere un sacco di cose di Cechov, e lo scrittore, in qualche modo, divenne il suo mentore. Quando fui grande, mi disse che appena finito di leggere Il duello di Cechov, era andato dritto nel suo studio, aveva tirato fuori dal cassetto il lungo romanzo cui stava lavorando da mesi e aveva detto a se stesso che era tempo di imparare a scrivere davvero. Si era convinto che il racconto fosse la forma più alta di scrittura. E anche se sapeva che gli editori sarebbero stati sempre più interessati al romanzo e che un romanzo avrebbe potuto vendere mentre un racconto no, lui aveva deciso che non ne avrebbe mai più scritto uno».
In un’intervista rilasciata nel 1998, qualche mese prima di morire, Dubus viene descritto come un uomo dal «torace ampio e la barba grigia, gli occhi grandi e attenti, e la faccia rossa e segnata di chi vissuto una vita piena». I momenti di cui parlava nelle sue storie sono il riflesso della persona che era e delle cose che aveva vissuto. Sono momenti che parlano di soldati perché era stato cinque anni nei marines e ne andava fiero. Sono momenti che parlano di baseball perché – insieme alle sigarette senza filtro e ai filmacci commerciali – era una sua passione. Sono momenti che parlano di donne, perché anche loro, le belle donne, erano una sua passione. Sono momenti che parlano di cattolicesimo, perché questa è sempre stata la sua incrollabile fede. Ma sono soprattutto momenti che parlano di perdita, perché questo è il destino di ognuno: dover perdere qualcosa, prima o poi, nella vita.
Nei racconti di Non abitiamo più qui, pubblicati originariamente in sedi diverse, ritroviamo gli stessi personaggi in varie fasi della loro vita. Sono i racconti di due matrimoni, o per meglio dire di quattro persone che si sono sposate troppo presto. Hank ha sposato Edith, la più bella ragazza che abbia mai visto. Jack ha sposato Terry, la quale pensa però di non essere più innamorata del marito. Le coppie sono amiche e finiranno per scambiarsi i compagni, ponendo le basi per il fallimento dei rispettivi matrimoni. È il motivo ricorrente di Dubus: tutti i suoi personaggi vengono chiamati a confrontarsi con il crudele gioco degli adulti: il tradimento. Una partita dalle regole semplici ma spietate, dove non si vince né si perde perché si è comunque chiamati a provare il dolore dell’abbandono, del lento sfinirsi dell’amore. Amore che resta però il centro della vita.
Per Tobias Wolff, suo amico ed estimatore, Dubus è fra i pochi che sappiano «davvero scrivere dell’amore. Non solo dell’amore perduto, ma anche dell’amore prima che sia perso, prima che sia provato, in qualsiasi forma esso ti prenda. Il solo scrittore che sia stato capace di farmi sentire l’amore di un ragazzino per Dio, o l’amore di una ragazzina per la sigaretta che sta fumando». Nel 1986 un incidente stradale lo costrinse su una sedia rotelle, ma nonostante la depressione e il dolore che seguirono, non rinunciò mai alla sua fede religiosa, all’idea di trovare una grazia in qualunque forma di perdita. Fu trovato morto un giorno di fine febbraio nel 1999 da un suo amico. Quel giorno avrebbero dovuto vedere insieme Duri a morire. Dubus si era da poco comprato un nuovo televisore dotato di impianto stereo. «Adesso abbiamo il Sensurroouund» non faceva che ripetere, perché nemmeno ai filmacci rinunciò mai.

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