La direzione Damilano

E’ necessario per me umanamente e da intellettuale scrivere qualcosa circa le dimissioni del mio direttore, Marco Damilano, da “L’Espresso”, un giornale che il direttore stesso mi ha permesso di abitare come casa e spazio agonistico del pensiero per più che tre anni. La situazione è nota a tutte e tutti e indica un gravissimo problema che concerne la stampa e i media in questo Paese – una questione annosa, se lo stesso Damilano ha indicato in un passaggio da Aldo Moro nel 1978 il nucleo sempre radiante di un male storico che affligge l’Italia. Circa i comparti industriali e quanto essi avranno da affrontare politicamente per esistere, parlerà la variabile del pianeta, l’unico soggetto e più-che-soggetto, che dalla comparsa del Covid sta rivoluzionando strutture secolari e addirittura millenarie. Perché, se si pensa che un magazine possa ancora essere “italiano”, si è davvero nell’Ucraina del pensiero e del risentimento: libertà stracciata, ambiguità intorno agli inesistenti confini, dispositivi di lotta in allerta, errori tecnici provinciali, giostre grottesche e risultati prossimi allo zero di Kelvin in termini di proposta del dibattito: ciò che il coautore di “Pianetica”, molto giustamente, indica come “la Pocalisse”: un helter skelter ridicolo, eppure un helter skelter. Si potrebbe continuare e tentare di convalidare un ragionamento intorno alle opportunità di mercato, ma sarebbe opera dissonante rispetto alla cifra che emerge da almeno tre anni come genetica del momento geometrico e storico, in cui il pianeta smette di attenderci e di attendersi qualcosa da noi: si ignorerebbe, cioè, “una certa oggettività”, ovvero, come ha detto e mostrato Marco Damilano esplicando pubblicamente le sue dimissioni, la verità che fa umano l’umano. Tuttavia il tempo in cui si è inscritta la direzione di Damilano, a capo del più storico e importante magazine italiano, suggerisce che l’aspetto politico, così come quello cognitivo, è insufficiente a interpretare la realtà e dunque viene trasceso. Non è stata una direzione leggibile soltanto con le lenti della politica. Affermo ciò nella consapevolezza che “L’Espresso” ha molto pesato politicamente sulla storia nazionale di questi quattro anni. Non mi pare impressione personale che l’inchiesta sui legami tra Lega e Russia putiniana abbia sortito effetti sul crollo del governo gialloverde – perfino i media statunitensi se ne sono appropriati, per pronunciare una parola internazionale, che certo non era esperanto, e mostrare a Salvini come le porte, che egli riteneva spalancarsi a se stesso e ai sovranisti europei, fossero chiuse non dico per sempre, ma quasi. Marco Damilano rivendica con orgoglio l’inchiesta sul cardinale Becciu, che ha portato alle dimissioni dell’alto prelato, ma proprio su questo punto si mostra la differenza tra aspetto politico e piano effettivo del discorso, assai più alto e vasto: è l’inchiesta sul malaffare vaticano a segnare una stagione memorabile oppure l’inesausto discorso del cattolicesimo democratico, che trova il terreno di rigoglio con la cultura aconfessionale, a marcare l’eccezionalità di un lustro indimenticabile nella storia del settimanale più laico d’Italia? Poiché questa è, a mio avviso, la verità, cioè “una certa oggettività”, dell’operato di Marco Damilano sulle pagine del giornale da lui diretto: la tessitura di un testo, vale a dire l’apertura di uno spazio che è il campo culturale del presente. Qui appunto un’osservazione del tutto personale, quindi strettamente riguardante la mia persona: non soltanto non smetterò mai di essere grato al direttore per avermi permesso di camminare al fianco suo su “L’Espresso”, sotto i portici di una stoà centrale nella vita della città, correndo il rischio di esporsi ed esporre altre e altri all’agorafobia; ma non cesserò di ringraziarlo per avere concesso asilo a parole difficoltose da pronunciare, in un tempo di disintermediazioni progressive e regressive del discorso, della visione, dell’intuizione. A oggi mi chiedo ancora con allibimento come sia possibile che il direttore accettasse formulazioni tanto difficoltose e stili così perigliosi come quelli che mi sentivo di proporgli. Lo ha fatto, per me è tantissimo; non lo avesse fatto, sarebbe comunque stato tantissimo per me. Chiusa la parentesi personale, che non disegna l’universo degli affetti che mi legano a questo grande giornalista e intellettuale, vorrei tornare alla matrice culturale di Damilano, che fatalmente mette l’ingaggio culturale in un quadro formativo, rivoluzionario se si sta alla tradizione e alla storia del giornalismo italiani: è la questione della matrice cattolico democratica. Andrebbe fatto il nome, tecnicamente preciso, di questa cifratura spirituale, che dunque è anche cognitiva e sentimentale, politica e filosofica: è la teologia assoluta della persona. Possiamo tranquillamente pronunciare il nome del massimo esponente dell’umanesimo intergrale e del personalismo, Jacques Maritain; ma forse è più opportuno valutarne qualche parola, poiché le parole sono pietre che ci giudicano e che stentiamo a masticare, pena la rottura di qualsiasi chiostra dentale: “Più la causa è grande, più ci sentiamo piccoli e inadeguati ad essa: è la causa di questo umanesimo integrale che ci attende come il segno e il simbolo di una nuova civiltà, nella quale l’ispirazione democratica e l’ispirazione evangelica saranno riconciliate”. Qui noi vediamo all’opera (e “L’Espresso” di Damilano è stato per quattro anni un’opera: un libro, i cui capitoli uscivano a cadenza settimanale, un testo unico che intrecciava testi multipli) l’idea stessa, che coincide con la sua prassi realizzativa, di un apostolato del giornalismo, ovverosia della libertà rispettosa dell’anima che brilla in ogni persona e in ogni cosa vivente, in cui il no ha potuto corrispondere al no e il sì al sì. Questo, il quadro. Dentro quel quadro, la pittura fosca e albale dell’infinitudine di tutti i discorsi. Ve ne fosse stato uno che smentiva la centralità della persona, anche nei momenti di più acuto attacco: ma un conto è la persona, un conto è il ruolo che ambisce a ricoprire, cioè il potere come ambizione ed esercizio, e un altro conto ancora è l’istituzione in cui la persona è costretta a compiere un salto, ad autotrascendersi, per rappresentare non più soltanto se stessa, ma tutte le persone. Questo radicalismo della verità, di “una certa oggettività”, era e temo che resterà un inedito, al di fuori della complessa e profonda operazione, a cui il direttore Damilano mi sembra avere atteso in questi anni. L’ingaggio spirituale laico è una chiave di lettura sempiterna, che positivamente si direbbe metastorica, senza la quale non si apre la porta dell’anima, ovvero non si passa la soglia tra “io” e “mondo”. La tesi di fondo all’apparir del vero, nel febbraio 2020, quando la pandemia esordisce in Italia ed Europa con tragica rilevanza, è che il virus è l’agente non umano di una rivoluzione che muta i contorni dello stato di cose: la politica, la geopolitica, l’economia, il lavoro, i rapporti, il clima – invisibile parodia dell’Invisibile, il virus è una Comune di Parigi planetaria. Questo discorso, che spesso non sembra esserlo, diviene una delle prospettive culturali, e più che culturali, di un newsmagazine italiano: è qualcosa a cui eravamo abituati negli ultimi decenni? “Uomini e no”: Damilano scelse Vittorini per opporre la persona alla non-persona, in una storica copertina de “L’Espresso” agli inizi della sua gestione: lo avremmo letto da qualche altra parte, su qualche altra pagina? L’impegno politico è un impegno di umanità e di una certa forma di santità; è un impegno che deve poter convogliare verso di sé gli sforzi di una vita tutta tessuta di meditazione, di prudenza, di fortezza, di giustizia e di carità. Per questo il giornalismo è politico e, se lo è, è pure la letteratura. Roberto Ruffilli, nel 1981, su “Il Politico”, rivista fondata nei Cinquanta da Bruno Leoni, metteva fuori sesto qualsiasi gradiente ideologico che tentasse di spiegare l’Italia postfascista con apparati storiografici marxisti, leninisti, azionisti e anche cattolici, perché una era la questione: la “crescente, anche se travagliata, presa di coscienza della complessità assunta nel nostro Paese dalla costruzione di una democrazia politica e sociale assieme”. Si può osservare da qui, da questa potente consapevolezza, ciò che Marco Damilano ha tentato nel corso della sua direzione: la costruzione della democrazia assieme sociale e politica, con la controparte sociale che ha espresso le sue richieste alla componente politica e non purtroppo viceversa. Disse Aldo Moro: “Camminiamo insieme perché l’avvenire appartiene in larga misura ancora a noi”.