Su La Lettura del “Corriere della Sera”, Daniele Giglioli su: “Yara. Il true crime”

Si esprime su “Yara. Il true crime”, il libro in uscita tra tre giorni per i tipi Bompiani, uno dei più importanti e apprezzati critici e teorici italiani della letteratura, Daniele Giglioli, autore tra gli altri titoli dei fondamentali “Senza trauma” (Quodlibet, 2011) e ”Critica della vittima” (nottetempo, 2014). E lo fa sulle pagine del prestigioso inserto culturale del “Corriere della Sera”, ovvero “La Lettura”. Vengono sollevati temi, visuali, ossessioni, ontologie e morali sballate che l’autore sottoscritto mette in campo via via. Ecco qui di seguito l’intervento integrale, il cui testo continua sotto la foto, la quale è essa stessa leggibile cliccandola e ingrandendola.

NEL CASO YARA ENTRA ANCHE IL COVID

Di DANIELE GIGLIOLI
[Corriere della Sera, 15 OTTOBRE 2023]

Il nuovo lavoro di Giuseppe Genna ne rilancia l’approccio al male, che è ovunque: di ogni crimine siamo tutti mandanti, il mondo è morboso o lo è il nostro tempo. L’omicidio del 2010 si salda con la pandemia: i luoghi sono gli stessi

Giuseppe Genna torna sempre sul luogo del delitto. Il suo. E in che cosa consiste quel delitto? Ma giustappunto nel desiderio di trovarsi sul luogo di ogni possibile delitto, alla sua origine, al cospetto della delittuosità, se potesse esisterne una, universale. Dai noir complottistici dell’ispettore Lopez ai romanzi su Hitler o sulla tragedia di Vermicino o su Breivik, Genna è ubiquitario ovunque il male rampolli. Se ne vergogna, si scusa. Ma al tempo stesso tenta di convincerci che non è un suo problema ma un problema di tutti, e che di ogni delitto siamo tutti mandanti. Quando ci riesce, come in questo Yara. Il True Crime ,è piuttosto persuasivo e non solo disturbante. Barocco è il mondo, non il Gadda, diceva Gadda. Morboso è il mondo, o quanto meno il nostro tempo, sostiene Genna. Che aspettiamo a tuffarci?

In Yara vengono ripercorsi con minuzia maniacale la scomparsa, nella Bergamasca del 2010, di una bambina di 13 anni ritrovata morta dopo tre mesi. Poi la gigantesca battuta di caccia, condotta attraverso il tentativo di far quadrare sequenze di Dna. Infine l’arresto del sospettato, il processo e la condanna, che in pratica solo sulla prova del Dna si regge. A parlare è uno strano narratore anonimo, ubiquitario anche lui ma non onnisciente. Per quanto in contatto con misteriose «fonti», non sa più di quello che sanno gli altri, dice continuamente «noi», sembra di volta in volta cronista, uomo dei servizi, scrittore lui stesso. Dettagli trascurabili. Quel «noi» attraverso cui parla è da una parte collettivo, la voce della disgustosa curiosità che si solleva, come un’alluvione di liquami indirizzata ma non prodotta da media e social media, ogni volta che il Male si scatena contro l’Innocenza. Dall’altra è una trasparente controfigura dell’autore, col quale coincide millimetricamente proprio per le caratteristiche che più dovrebbero differenziarla: non è lei a far accadere le cose, non è lei a scegliere di narrarle.

Non che lo debba fare. Semplicemente non può farne a meno. Il Male è lì e dunque è lì anche quella voce. Male che sarebbe errato identificare in ciò che un bruto ha fatto a una ragazzina, piuttosto nello spasmodico desiderio di esserne in-formati (era un’arguzia che piaceva a Carmelo Bene), di potersi fare un selfie, se non col Diavolo, quanto meno con i resti del Sabba. Desiderio comune: «Nuotiamo tutti nella sostanza del male». La posta in gioco dell’arte narrativa di Genna consiste nel ricacciare in gola a chi legge la replica, formulata magari in perfetta buona coscienza: «Tutti chi? parla per te, a me queste cose non interessano, mi annoiano perfino, si vede che avrò il cuore di pietra». Come ci riesce?

Dimostrando che non è vero. Sia pure un lettore o una lettrice disinteressata alla cronaca nera. Ma chi può rimanere esente dallo scandalo, se si scandalizza del fatto che tanta gente vi si interessa? Scandalo vuol dire etimologicamente pietra d’inciampo. Sei caduto perché non l’hai vista. Chi non si sente migliore, e insieme sporco, vedendo che tanti si degradano rotolandosi nel fango dell’umana degradazione? Ecco: è esattamente in questo sentirsi migliore e insieme sporco che Genna insedia il suo narratore. Il suo voyerismo non è diretto alla vicenda, né allo sguardo del consumatore goloso, ma a chi distoglie gli occhi perché non trova nulla di interessante nello schifo, ma molto nel fatto che ci sia chi è attratto dallo schifo. Il fariseismo non è che un ulteriore anello della catena. Il male contamina anche chi disprezza e vorrebbe distinguersi da coloro che ne godono — li schifa, e il risultato è sempre lo schifo. Chi vorrebbe tenersi al di sopra della vergogna ne è implicato perché si definisce attraverso ciò che nega. Yara è invece un’ininterrotta, masochistica dichiarazione di vergogna senza scampo. C’è male nel voler vedere come nel non voler vedere. Se anche uno solo ha commesso il delitto, su ognuno incombe il castigo. La terra è tutta guastata. Negli stessi luoghi del caso Gambirasio infurierà con speciale virulenza il Covid-19, coincidenza che Genna non si lascia sfuggire, piegando la storia mondiale alle sue personali ossessioni nello sforzo di insinuare che tutto sono tranne che personali.

Identica la materia prima, vera protagonista del romanzo: il Dna, la sostanza di cui è fatto l’essere umano. Molto simili i metodi di indagine: campionatura, schedatura, tentativo di isolare il Paziente Uno così come Ignoto Uno avevano chiamato gli investigatori l’assassino non ancora identificato. La scienza non si distingue dalla danza macabra esattamente come la buona coscienza di chi ha di meglio da fare che perder tempo con la cronaca non si esenta dalla cronaca. È una figura del ballo, non ritaglia uno spazio altro, non illumina, è un agente del buio. Parla per numeri e si traduce in diceria, leggenda, favola nera, filastrocca ancestrale. Non allevia il dolore nella misura in cui si mescola alla comunicazione, flusso costante di Rna messaggero di lutto e impossibilità di pentimento. Come ci si può pentire di essere umani? Replicando, certo, che non c’è proprio niente di cui pentirsi in generale in quanto ognuno risponde per sé. Non così per Giuseppe Genna, dalle sue prime prove a questa, una delle migliori.

Una cappa senza pertugi aduggia per intero le pagine di Yara, trasfigurando al nero il già di per sé cupo, amaro, chiuso, testoriano, cattolicissimo paesaggio lombardo, in un luogo in cui nessun Cristo verrà a redimere il peccato originale. La scienza ha forse «inchiodato» (attenzione alle parole che usiamo!) il colpevole dell’omicidio di Yara Gambirasio, così come ha isolato il virus e fabbricato i vaccini. Ma il suo tentativo di sostituirsi alla trascendenza è totalmente fallito. Il male non è storico, è naturale, e l’essere umano non ha nessuna possibilità di dichiararsene davvero, come invece pretendeva Kant, «l’autore». Non c’è stata alcuna caduta né alcun nuovo inizio. Agli esseri umani Genna sottrae la possibilità di commettere peccati. Contro chi? Quale legge è stata violata se nel serpeggiare del male non si scorge altro che lo snodarsi della catena dell’acido desossiribonucleico? Ecco allora il motivo del desiderio assillante di vergogna e castigo che dà nerbo alla sua scrittura sentenziosa, anaforica, tormentata dagli slittamenti semantici: un disperato rimpianto per la credenza che se sbagliare è possibile, possibile è anche espiare. Un feticcio riparatore, e insieme un arto mancante che non smetterà di dolere.