Luca Romano sul blog “Huffington Post”: su “Yara. Il true crime”

Scrive sul blog dello Huffington Post il critico Luca Romano: «Yara” è un romanzo che interpreta il nostro tempo, che racconta il nostro modo di vivere il presente e le sue strutture, diventando un romanzo necessario per il futuro, per il cambiamento». Seguo da tantissimo Luca Romano, filosofo di formazione e critico anche cinematografico e desidero ringraziarlo davvero tanto per questo bellissimo e complesso intervento su “Yara. Il true crime” (Bompiani), di cui riproduco qui di seguito il testo, leggibile sulle pagine dello Huffington a questo link.

La diretta televisiva dilatata. Il caso Yara

di Luca Romano

“Yara, il True Crime”, di Giuseppe Genna, è un romanzo che attinge dal reportage, dalla non-fiction, dalla cronaca, andando a investigare, nel contemporaneo, la messa in mostra del distanziamento che crea il tragico, che crea la tragedia stessa

Il 26 Novembre 2010, alle 18.42 circa, Yara Gambirasio esce dalla piscina, nella quale era andata per assistere a degli allenamenti, e da lì si perdono le sue tracce. È a partire da quel momento che inizia una storia italiana, occidentale; una storia che ha a che fare non solo con il dolore, con la cronaca giornalistica, con una cronaca giudiziaria, ma anche con la letterarietà che alcuni eventi custodiscono. La letterarietà non vuol dire l’eccezionalità dell’evento, ma al contrario la sua onnipresenza, la sua capacità di continuare ad accadere nella possibilità umana. Il suo essere universale-particolare nello stesso momento, non nella modalità dell’esempio, ma della ripetizione.

Ed è a partire da questa concezione letteraria dell’evento che si può guardare al nuovo libro di Giuseppe Genna, Yara, il True Crime, pubblicato da Bompiani.

Yara infatti è un romanzo che si colloca all’interno di una indagine sull’umano che Genna compie da diversi libri, forse da sempre, sicuramente a partire da Io Hitler, da La vita umana sul pianeta Terra, da Assalto a un tempo devastato e vile, ma forse più di tutti questo testo rimanda a Dies Irae e in particolare alla storia di Alfredino Rampi, perché è come se i due eventi comunicassero, si ripetessero in una rivoluzione stessa dell’accadere. Scrive Genna:

“Diciamoci la verità: la diretta televisiva tende sempre all’infinito. Il caso Yara è il caso Alfredino rifatto. La diretta dilatata. Il pozzo artesiano in cui cadde il bambino nel caso di Yara è il buco nero che è diventata tutta la realtà”.

Ma in che senso il buco nero è diventato la realtà stessa? Tutto intorno è cambiato, gli strumenti tecnologici sono cambiati, la comunicazione è cambiata, ma la struttura è come se si ripetesse, se andasse a mimare il costante desiderio dell’Italia di diventare spettatrice-divoratrice. Scrive Genna sui mesi che hanno preceduto il ritrovamento di Yara:

“La verità è che si sta smobilitando. È nell’aria il fatale disimpegno, se non emergono novità investigative. La verità dispersa e caduta. Non c’è più notizia, non c’è più gola o lussuria. La notizia raggiunge la data di scadenza. Dateci una notizia nuova e ripristiniamo l’esaltante e tristo spettacolino che abbiamo inscenato per due mesi. La verità al momento è: stiamo smobilitando. Due mesi di nulla. La pubblica attenzione sta calando, sia chiaro. L’Italia è innamorata del caso. Ma i costi sono alti e la ragazza non si trova. Anche i più fanatici hanno bisogno di alimentarsi, per nutrire l’ossessione. Qui ci si alimenta di ombre. L’ombra non nutre”.

Genna qui non compie solo un lavoro di ricostruzione giornalistica, ma principalmente compie, come anticipato, un lavoro letterario sul male, un lavoro letterario che in quanto tale è politico, perché ha a che fare con l’agire umano e l’agire umano qui non è solo il tragico agire dell’assassino, ma è l’agire dello spettatore, l’agire del narrare giornalistico.

In questo senso la voce narrante utilizzata da Genna è una voce plurale, sempre presente, una voce, si potrebbe dire, onnipresente, ma che non può nulla davanti al narrare pruriginoso. A tratti leggendo Yara si ha la sensazione che la voce narrante sia l’umanità stessa, onnipresente ma incapace di agire al di là dell’evento. Evento che diventa singolare e plurale, scrive Genna:

“La comunicazione ha fatto collassare la finzione nella realtà. Non viceversa. Gli interpreti, che siamo tutte e tutti, il chiunque, abborracciati, famelici, hanno chiacchierato, a vantaggio dell’ampliamento di share e pubblica condivisione. E la nazione, che da sempre adora l’immagine di Bruto mentre accoltella Cesare, per seguire le avventure della new wave Bruto e scordarsi di Cesare e poi gettare nell’ignominia Bruto e rimpiangere Cesare, ha pronunciato la sua sentenza in anticipo e la sentenza ha questa forma: “Secondo me è colpevole. Secondo me è innocente”.

“Yara” è un romanzo che attinge dal reportage, dalla non-fiction, dalla cronaca, andando a investigare, nel contemporaneo, la messa in mostra del distanziamento che crea il tragico, che crea la tragedia stessa. La tragedia ha sempre avuto nel suo costituirsi una distanza dal pubblico che, appunto, l’ha resa tale, la distanza è differenza tra pubblico e messa in scena, è la creazione della scena. È a partire da questo tipo di distanza che si percepisce la rappresentazione, che in questo caso è evenemenziale in quanto, come detto, rappresentazione cronachistica delle televisioni, dei giornali, dei social. Ma l’evento oggi è sempre al di là dell’evento stesso, annulla la distanza e diventa un evento del pubblico, tra il pubblico, si potrebbe quasi dire che sia il pubblico l’evento, nelle modalità della massa.

In questo senso Yara è un romanzo che lavora su un evento che in quanto tale non è possibile prevedere, perché rompe la linea temporale collocandosi come assolutamente nuovo; ma che proprio per questo è impossibile che non sia nel tempo, che non sia generato dal passato del quale ne può essere solo ripetizione, perché è il pubblico che lo genera e lo divora. E questo avviene proprio per la messa in mostra cronachistica e spettatoriale, che ne rende strutturale la tragicità senza però averne la grandezza classica, ma solo una mal costruita evanescente distanziazione. Ed è filosoficamente su questo che lavora Giuseppe Genna, mostrandone le storture moralizzanti ed etiche che ne derivano: un tragico senza tragedia, una tragedia che annulla la distanza anziché una distanziazione che crea la tragedia.

La scrittura di Genna riesce in maniera decisa a rompere lo schema interpretativo del lettore costringendolo a una messa in discussione del modo attraverso il quale si relaziona con il presente stesso. Andando a costruire un nuovo modo di vedere il caso Yara, ma andando anche a offrire possibilità interpretative che si estendono a casi come Alfredo Rampi, o a ciò che è accaduto a Giulia Cecchettin.

Yara è un romanzo che interpreta il nostro tempo, che racconta il nostro modo di vivere il presente e le sue strutture, diventando un romanzo necessario per il futuro, per il cambiamento.