Sul contemporaneo, ad altezza 2023

Se rifletto sul contemporaneo, di cui avverto l’ineludibile pressione sulla scrittura, e intendo questo contemporaneo aereo e metallico, questo lutto che intende restare a fronte di ciò che sempre più velocemente impartisce la sparizione, di momento in momento, di qualsiasi passato, contaminando addirittura il presente che è già un passato che sta accadendo, secondo un canone e un precetto e una disciplina di impermanenza che già conoscevo e conoscevamo; se penso che gli anni non passano ma spariscono, come ha scritto Tommaso Pincio recentemente, e che financo i momenti e gli attimi sono questa apparizione che si sfoglia lieve e pesante in sparizione; cioè che tutto è qualcosa, non è che sia niente, ma soltanto qualcosa, il qualcosa è il segno del contemporaneo, più adesso che prima e dopo non si sa; e che non si sa il tutto e il niente e però un qualcosa si continua a sapere, mentre il sapere è una configurazione che sta smentendo se stessa, per come era percepita dalla specie sempre, nel precedente della specie, ovvero realmente nelle specie precedenti che siamo; se penso a questo qualcosa che era ed è e probabilmente sarà la letteratura per me, in un adesso che è esso stesso qualcosa, qualcosa che non è connotabile, nemmeno asserendo che è *il* qualcosa; allora mi ritrovo con pochissimi snodi che segnano l’intensità di un apparentamento mio a ciò che fu una tradizione che si rinnova, e sempre meno interesse per una certa fatuità, non solo del presente, letterario ovviamente, ma anche del passato che ho studiato e tendo sempre più acceleratamente a dimenticare, mi dico Flaubert e non ricordo, dico Mann e mi sembra una deriva nebulosa all’orizzonte alle mie spalle, mentre dico, per fare pochi esempi a caso, Lovecraft ed è qui, Eliot è qui, Wallace Stevens è qui, Walser è qui, Kafka è qui, e tutto l’arcaico ovviamente, che si dimostra essere il futuro, ma anche l’antico, come Vico o Donne, Racine mi si sfoglia e addirittura Shakespeare mi entra in un Seicento che non c’è e non torna; impazzendo, me ne rendo conto, il catalogo; allora penso al capitolo 63 di “Moby Dick”, dove Melville applica questo incipit: “Dal tronco, crescono i rami; da questi, i rametti. Così, negli argomenti fecondi, crescono i capitoli”; e mi dico: no, non è così, qui siamo, ora, a che i rametti crescono nell’aria, l’albero è nello spazio, spazi e pezzi separati, per aria i rametti, non connessi per materia dura e legnosa ai rami e al tronco, e infatti Melville taceva delle radici, e quindi non c’è autogiustificazione possibile dell’albero e nemmeno di chi l’albero lo guarda, poiché nessuno guarda davvero più l’albero e non comprende che questa precisa *cosa* è la splendida e sempre tornante vita della cecità, da cui la luce. Questo penso, avendo parlato con il mio amico, fraterno, scrittore, e mi sento di dire grazie, a lui, ma non a chiunque, qualche grazie. Mandel’stam scriveva: “in segreto mi innamoro di tutti”, io in segreto mi innamoro di qualcuno, di qualcosa.