[Pubblico, con un ritardo che mi fornisce di adeguati sensi di colpa, uno speciale sull’importante romanzo Il giorno dell’indipendenza di Letizia Muratori. Sotto la mia recensione, una videointervista all’autrice, un articolo da Rolling Stones e un intervento di Paolo Di Stefano. gg]
I casi della vita non mi permettono di avere fiato da mesi e, quindi, di non riuscire a scrivere adeguatamente dei libri che ritengo importanti.
Tra i libri che ritengo importanti, usciti in questo ultimo semestre, mi pare abbastanza fondamentale Il giorno dell’indipendenza di Letizia Muratori, edito da Adelphi (15 euro). Chi desiderasse conoscere la trama, può farlo cliccando qui. Posso permettermi qualche superficiale osservazione, che vorrei tanto corroborasse la fiducia nella scrittura di questa autrice per me straordinaria. Seguo con non malcelato interesse il percorso narrativo (che ora non so nemmeno più se qualificare in questo modo) di Letizia Muratori, giunta, con La casa madre (qui la mia recensione), a un per me evidente salto quantico, per il lavoro effettuato sulle strutture e per l’impressionante raggiungimento di uno stile di “grado zero”, possibilità concessa soltanto a chi abbia la capacità di percorrere e praticare ogni stile.
Il giorno dell’indipendenza, per quanto apparentemente distante dalle ambientazioni e dalle location del romanzo precedente (poiché di romanzo, od oggetto narrativo, si trattava: non tanto nonostante, ma proprio per il fatto che era costruito sull’incrocio ambiguo di due racconti, non perfettamente speculari), porta a estreme latitudini la tematica dell’affetto al trauma che è l’umano tutto, cioè l’occhio ciclonico di entrambi questi libri. Se nella Casa madre Muratori conduceva agli estremi linguistici e figurali la meditazione sulla dipendenza dal trauma, e sulla propria dipendenza dal linguaggio anzitutto, ne Il giorno dell’indipendenza giunge letteralmente a quanto dichiara il titolo, cioè all’indipendenza dal letterario e alla possibilità di sporgersi allusivamente oltre l’assenza dell’umano. Questa è la narrazione letterale, costruita sì per metafore (non per allegorie), però tali che o vengono prese alla lettera oppure impongono la percezione di un mancato nitore e di una ricaduta in chissà quale estetico. Il lettore è (non mi è possibile evadere dall’avverbio ancora una volta) letteralmente lasciato da solo e, se il libro non è compreso (e non mi affido a una capacità cognitiva o semplicemente emotiva), la colpa è del lettore stesso. Muratori giunge all’ininterpretabilità che è lo stesso movimento dell’interpretazione.
La dipendenza da cui tenta di sottrarsi a forza il non-personaggio Giovanni, apparentemente escavato nella sua psicologia che però è una sociologia, è una forma universale che potrei semplicemente riassumere così: l’umano è dipendente in quanto è virale, se non trova un organismo ospite non sopravvive. Gli organismi ospiti che Muratori allinea, secondo una struttura a onda, che definire spiazzante sarebbe un torto nei confronti del libro, sono: le relazioni, il monologo mentale interno all’umano, l’ambiente inteso come totalità della cultura umana, la natura intesa come possibilità di negativo dell’umano perché testimonia della onnipresente capacità del mondo di essere indifferente alla scomparsa del fenomeno umano stesso. In definitiva, l’ontologia del linguaggio, e quella morbosa secrezione di difesa psichica che è l’idea stessa di stile, viene qui trascesa di colpo. L’eccezionalità autoriale di Muratori sta nella facilità di tale trascendimento: la scrittura de Il giorno dell’indipendenza è palesemente un testo che deve essere costato una fatica immane in stesura, poiché in ogni nesso, in ogni particola linguistica, in ogni sonorità anche microscopica è abolita la cattiva dualità del piacevole vs. il non-piacevole. Il risultato, però, è che ci si scorda perfino della possibilità della fatica, e della fatica umana in primis.
Il giorno dell’indipendenza è l’opera più prossima a Body Art e Cosmopolis di Don DeLillo (da cui Cronenberg trarrà il suo prossimo film), cioè alla svolta di una letteratura che è davvero di avanguardia, senza giochi linguistici che ne giustifichino lo statuto avanguardista. Questa scrittrice, che è un immenso patrimonio (e anche un importante matrimonio) della nostra narrazione aperta, sta esplorando per tutti noi piste innevate non calpestate da orma alcuna. La sua stella polare mi pare identificabile in Kafka, altro scrittore in cui l’apparente interpretabilità conduce alla frustrazione continua. C’è un passo dei Diari kafkiani che mi ricorda moltissimo l’opera che Letizia Muratori sta compiendo di libro in libro, secondo una progressione che, sfondando la propria indipendenza (e, quindi, quella del lettore), non so francamente dove condurrà, ma so che condurrà lontano, in zone che diverranno praticabili per ogni altro autore:
“Dimenticai di aggiungere, e in seguito lo omisi apposta, che quanto di meglio ho scritto ha il suo fondamento in questa mia facoltà di morire contento. In tutti quei passi buoni e convincenti si tratta sempre di qualcuno che muore, a cui la morte riesce molto difficile e in ciò è contenuta per lui un’ingiustizia o almeno una durezza sicché il lettore, almeno secondo la mia opinione, ne rimane commosso. Per me invece, che credo di essere contento sul letto di morte, quei racconti sono un gioco segreto, tanto è vero che sono lieto di morire col morente, sfrutto quindi volutamente l’attenzione del lettore concentrata su quella morte e mi conservo la mente più lucida di lui che, secondo me, si lamenterà sul letto di morte. Perciò il mio lamento è più perfetto che mai e non prorompe improvviso come un vero lamento, ma si svolge in limpida bellezza”.
Il passo di Kafka per me descrive tutto il movimento di scrittura di Letizia Muratori, che personalmente è un’autrice vitalista, ma per cui è propriamente vitale il confronto con la naturale scaturigine di ogni allusione, e cioè l’ineffabilità della morte e la possibilità che si levi l’ultimo gesto umano, e cioè il lamento in cui ha estremo asilo la bellezza del nitore.
Non pratico nessuno spoiler, riprendendo alcune righe finali de Il giorno dell’indipendenza, che dovrebbero a mio parere evidenziare il carattere kafkiano del movimento messo in atto in scrittura da Muratori:
“Tu sei diventato il mio unico testimone silenzioso. Qualcuno più onesto di noi direbbe che sei diventato mio complice, ma noi non siamo onesti e sappiamo che il paradiso inizia proprio dove finisce, è l’istante in cui ti cacciano, un istante che si ripete all’infinito e così siamo sempre bloccati sulla soglia come capita ai maiali quando vedono le ombre al posto delle cose. Vedi, il problema non è tornarci in paradiso, ma riuscire a venirne fuori una volta per tutte. Se ti scrivo solo oggi e non ti risponderò domani, è perché festeggio il nostro giorno dell’Indipendenza, il resto sono solo lotterie, bandiere che sventolano e fuochi che esplodono sulla mia infanzia a Philadelphia”.
Si accosti questo passo di una lettera datata 4 luglio 2009, cioè l’effettivo giorno dell’Indipendenza statunitense, all’approccio di Karl Rossman al Teatro Naturale di Oklahama in Amerika di Kafka, e probabilmente si comprenderà cosa si cela dietro e soprattutto dentro la percezione di questa narrazione breve, soltanto apparentemente misteriosa seppure non incantevole o semplicemente enigmatica (qui l’aggettivo è usato secondo la lezione benjaminiana). Il libro è altro da ciò: è l’autentico racconto universale: indifferentemente lirico o epico, soggettivo od oggettivo, nitido o polveroso, linguistico o a-linguistico – e ciò perché l’indipendenza raggiunta da Muratori è uno stato coscienziale da cui le forme nascono senza necessità di afferire a una qualunque ideologia ispirazionista. Siamo a livello degli archetipi e l’aria che si respira è eminentemente platonica (la metafora letterale dei maiali che vedono ombre al posto delle cose è, per quanto avverto io, il rifacimento naturale di un gesto arcaico riproposto nel presente: l’esposizione del mito della caverna di Platone in due righe). Così pure si dica della “lotteria”, che qui vale come archetipo nel contemporaneo e, al tempo stesso, come rilettura non solo tematica di un topos di certa letteratura post-romantica.
Il battesimo di Giovanni e la maternità vuota di Mary sono un’implicita sentenza storica che viene partorita da qualcosa di non storico, quale è a tutti gli effetti lo stato coscienziale a cui e da cui allude (e che con tutta evidenza vive) Letizia Muratori, una delle nostre autorialità decisive in questo tempo.
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VIDEOINTERVISTA A LETIZIA MURATORI
da Booksweb.tv
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IL GIORNO DEL GIUDIZIO
di IVAN COTRONEO
[da Rolling Stone]
Un incontro tra un giovane uomo e una giovane donna, in un allevamento di suini neri, a Colle Reale. Il concetto di dipendenza, non solo dalle droghe, ma dagli affetti, dalle routine quotidiana, dal denaro; dipendenza come possessione, come straniamento da sé per venire posseduti da qualcos’altro. Sono questi i due perni su cui ruota il nuovo, e bellissimo, romanzo di Letizia Muratori. Difficile parlare dei romanzi che ti piacciono tanto, e ancora più difficile chiacchierare con l’autore. Rischi di fermarti ai complimenti generici, vorresti farle sapere che ti sei affezionato ai suoi personaggi e alle loro storie, vorresti dirle (e lo fai, in effetti, con sprezzo del ridicolo) che è stata proprio brava, e che di nuovo, dopo avere letto La casa madre, ti ha sorpreso. Vorresti avere con l’autore una maggiore confidenza (conoscerla da prima di questa chiacchierata per RS) o una confidenza minore (scrivere quello che pensi del romanzo senza confrontarti con la sua interpretazione autentica). Invece sei qui, a parlare con Letizia Muratori. E inizi a dirle che, secondo te, il suo romanzo racconta di molte cose: di rinascita, lenta e faticosa, alla vita, di scoperte, di segreti nascosti, di affetti famigliari, ma (vorresti dire soprattutto) ti sembra che racconti di (… e qui esiti appena) un incontro d’amore. «Sì, è vero. Giovanni e Mary sono una coppia endemica, assoluta. Intorno a loro ruota tutto, tutte le vicende che compongono il romanzo», risponde la Muratori. Una coppia, aggiungo io, ai cui destini ci si appassiona, così come ci si appassiona alla lenta rinascita alla vita di Giovanni, ex tossicodipendente che misura il peso della sua dipendenza proprio nel momento in cui decide di smettere, e si ritrova senza più niente: niente sensazioni, niente sentimenti, come un ospite precario della vita. «I miei protagonisti sono spesso dipendenti, nel senso di posseduti. Così era anche Irene, la bambina protagonista di La casa madre, o il protagonista di Tu non c’entri. Per questo non sono in grado di descriversi. Giovanni, nel libro, non è descritto fisicamente. Nel momento in cui ha smesso di drogarsi ha perso tutte le sue facoltà percettive. Deve riappropriarsi del proprio corpo». Da solo, sembra non farcela, sembra avere bisogno dell’altro… «Questo è l’elemento narrativo da cui sono partita. Un incontro tra due persone, un investimento ad alto rischio umano». Il che per un personaggio come Giovanni, ex banker, è molto proprio. «Sono sconosciuti, ed entrambi hanno un passato che nasconde dei segreti. Si avvicinano lentamente uno all’altro. C’è un equivoco di partenza, c’è diffidenza, all’inizio addirittura incomprensione e insofferenza». E una storia costruita su materiali contemporanei… «Su cui ho lavorato di invenzione. Usando l’invenzione come strumento di rivelazione. C’è il mondo della finanza, c’è la cocaina, c’è la contrapposizione fra due economie, quella reale della fattoria e quella virtuale del mondo della borsa… Ma il libro racconta come questi due mondi, questi due modi di vedere l’economia non siano poi così distanti». La porcilaia, i Ruggeri, le Isabelle, i suini neri che popolano il libro, danno a queste pagine un carattere di novità. Insomma, credo sia il primo romanzo che leggo con questa ambientazione. «È nata dall’idea che Giovanni avesse da bambino un salvadanaio a forma di maialino. Da lì riparte per la sua personale terapia di recupero. Vuole ricominciare dal peso delle cose in carne e ossa. Decide di non affidarsi a un centro di recupero tradizionale, e va a trovare la vita vera». La vita vera che incontra è fatta di realtà quotidiane dure, ma anche del sogno, o almeno del vagheggiamento di una compagnia. «C’è un momento nel romanzo in cui Giovanni dichiaratamente sostituisce alla droga Mary, come oggetto della sua dipendenza». È il momento dell’inizio dell’amore, scandito durante un viaggio a Milano, narrativamente appoggiato a un gesto semplice, a un momento di cura, di accudimento. È una piccola rivelazione, come succede nei più classici romanzi romantici. Letizia, questo è anche un romanzo d’amore. «Non me lo dicono mai, ma è vero». La chiacchierata finisce e saluti l’autore. Sai di averle detto abbastanza che è stata davvero brava, e che pensi Il giorno del giudizio sia un libro molto bello. Pure, sai di non essere riuscito a raccontarle come non si tratti di un apprezzamento solo critico. Per i libri che ti danno conforto, e che trovano il modo di rimanerti dentro, vorresti inventare parole che non sai inventare.
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I GIORNI DELLA CRISI
di PAOLO DI STEFANO
[dal “Corriere della Sera”, 21 maggio 2009]
Ecco un romanzo, breve, da leggere con sorpresa, piacere e insieme con inquietudine. Non capita spesso. Solo i romanzi migliori sono nel contempo originali, coinvolgenti e perturbanti. Stiamo parlando del quarto libro di Letizia Muratori, Il giorno dell’indipendenza (Adelphi, pp. 112, 15 euro). C’ è un protagonista, Giovanni, che è un uomo dei nostri (recentissimi) tempi: uno spericolato operatore finanziario miseramente fallito, che per uscire dal tunnel della cocaina si ritrova in una fattoria del Centro Italia dove si allevano strani suini neri di razza pregiata che si chiamano tutti Isabella e Ruggero, e dove si sperimenta un improbabile progetto Internet di adozione di maiali a distanza. Lì Giovanni offre gratuitamente le proprie scarse prestazioni, passando intere giornate nella totale inattività e dormendo in un capanno nel bosco. Una sorta di contrappasso local rispetto alla vita frenetica vissuta nel cuore del cuore della civiltà globale. Nel suo isolamento, previsto dalla strategia di recupero che gli è stata consigliata, irrompe Mary, una giovane americana arrivata dagli Stati Uniti per ritrovare dei parenti adottivi che abitano nello stesso paese in cui vive Giovanni. Scoprirà che il nonno, morto di recente in Florida, è stato uno dei benefattori della razza suina ricevendone in cambio una partita di capocollo. Giovanni la aiuterà a cercare in paese qualche testimone della sua vita italiana, ma senza successo. Il romanzo della Muratori è abitato da presenze che incombono e premono quanto più sono sfuggenti. In primo luogo, le figure dei grossi suini che si aggirano intorno alla fattoria non sempre obbedienti e comunicano attraverso enigmatici codici etologici che solo la totale dedizione del proprietario Franco Messere e dell’ assistente-guardiano Nico riesce a decifrare. I maiali sembrano la materializzazione zoologica delle nuvole nere che affollano il cervello di Giovanni, le sue ansie, le sue fissazioni, la sua tempesta mentale, in cui un passato di relazioni familiari irrisolte, di rapporti con l’altro sesso che si intuiscono difficili, di débâcle emotive prima che sociali ha prodotto un presente di prostrazione e di sfiducia non priva, per nostra fortuna, di autoironia. Anche Franco è un personaggio inquietante, con il suo culto tecnologico delle bestie, per cui non si capisce mai dove finisca la missione del naturalista appassionato e dove cominci il suo gusto sadico da sperimentatore di razze. Tutto, insomma, lascerebbe credere che spetti a Mary il compito di iniettare nella storia un vero slancio vitale, onesto e disinteressato, con il suo desiderio di portare alla luce le proprie radici. L’incontro con Mary, in effetti, si rivelerà catartico per Giovanni, anche se (o piuttosto proprio perché) la donna non si presenta come la sua soccorritrice compassionevole, tutt’altro. Un viaggio in treno a Milano, la città in cui lui ha lavorato quand’era sulla cresta dell’ onda, contribuirà a rimuovere qualche angoscia, in primis la dipendenza dalla coca. A Milano, dove si reca con Mary per un buffo convegno di allevatori arrabbiati, Giovanni incontra un vecchio amico e collega senza lasciarsi sfiorare dalle ansie antiche del lavoro. Dal convegno nascerà, improvvisata, l’idea di una fantasmagorica lotteria suina, pensata da Mary e fissata per il 4 luglio, giorno dell’ indipendenza americana che coinciderà con il giorno dell’indipendenza di Giovanni: sono pagine esilaranti e commoventi, che alternano comicità e malinconia. Su questi due livelli è giocato tutto il romanzo, con un protagonista che si muove come una sorta di Guizzardi rivisitato in chiave meno delirante e più postmoderna, così come i suoi genitori, che Giovanni andrà a trovare a Roma aprendo al lettore un interno a tratti grottesco a tratti doloroso: un padre inebetito dalla vecchiaia e dalle delusioni della vita ma con imprevedibili sprazzi di lucidità, e una madre al contrario proiettata verso una rivalsa sociale (per sé e per il figlio). E quando Giovanni le confesserà, in clinica, che è lei l’unica creatura della quale gli importa qualcosa, lei risponderà: «Dallo a qualcun altro questo bene, liberami, fammi il favore». Nelle pagine finali, che ci fanno trasvolare a Miami con Giovanni, tutto ciò che pensavamo di avere acquisito come certezza si capovolge davanti ai nostri occhi procurando una sorta di vertigine. E non solo perché lo scenario cambia di colpo passando dal paradiso naturale del basso Lazio (ma era poi davvero un Paradiso?) a un altro eden, quello translucido e rarefatto della Florida tropicale, dove si scorgono squarci plumbei di violenza. Il risvolto di copertina cita opportunamente Hitchcock: perché, come nella Donna che visse due volte, le piste che avevamo seguito finora si mostrano inaffidabili rivelando un retroscena capace di lasciare con il fiato sospeso e soprattutto di ribaltare la commedia in tragedia. Ma attraversare la tragedia a occhi aperti, significherà davvero, per Giovanni, conquistare l’ indipendenza, non solo dalla cocaina. Un romanzo con un’escursione linguistica minima, dallo stile controllatissimo, che con poco riesce a indagare in profondità ma con formidabile leggerezza nel repertorio emotivo e psicologico vastissimo del nostro tempo globale.