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Su “Italia De Profundis” e oltre
di DEMETRIO PAOLIN
[da Bottega di lettura]
La prima domanda che mi sono fatto, leggendo Italia De Profundis (Minimum fax) di Giuseppe Genna è stata: che libro è? Un romanzo, una narrazione, una confessione, una autofiction?
Per rispondere a queste domande parto da una divergenza interessante. Se guardate la copertina del libro, sotto il titolo appare la scritta “romanzo”. Se andiamo invece sul sito del libro, nella immagine che riproduce la copertina accanto alla parola romanzo abbiamo un punto interrogativo.
Paradossalmente prima di entrare nel libro dobbiamo sciogliere questa tensione. Tra “romanzo” e “romanzo?”.
L’autore non ci aiuta, nel testo ci sono diverse dichiarazioni su cosa sia o non sia Italia De Profundis
La verità è che il romanzo non coincide più con il veicolo della narrazione. Esso stesso è un canale alienativo, e lo diventa maggiormente quando l’élite intellettuale ne richiama la tradizione, che è quella di uno strumento efficace nell’interpretare la realtà. Eppure a quale narrazione bisogna guardare? Questo, precisamente questo, è il problema della poesia in epoca contemporanea.
Eppure sulla copertina del libro c’è scritto “romanzo”. Certo mi si dirà, è una scelta ovvia dell’editore. Tale dicotomia, però, mi interessa e per risolverla mi affido non tanto alle dichiarazioni esplicite di Genna nel libro, che appunto sono per il superamento del romanzo stesso, quanto alle strutture implicite e in particolare alcuni apparati paratestuali.
Mentre leggiamo Italia De Profundis arriviamo ad un punto in cui in bella vista l’autore affigge una sorta di post-it al centro della pagina che recita
Da questo punto, fino a pagina 91, tutto diventa noiosissimo. Al fine di evitare tale noia, si consiglia vivamente di saltare a pagina 92, dove non è neppure detto che non ci si annoi. Comunque, ciò che segue è più noioso di quanto sia umano immaginare e inoltre si tratta di una parte che abbassa le vendite del libro. Si raccomanda di saltarla a piè pari, davvero.
Questo intermezzo mi pare illuminante. Mi sembra di sentire una voce simile a quella del Manzoni che mentre ricopia la famosa introduzione ai Promessi sposi ad un tratto entra in scena, sbuffa e parla dell’eroica fatica etc etc… L’autore interviene dirige, mette in scena se stesso, che è diverso dal “Giuseppe Genna” che agisce nel libro: questo intervento, negandola, paradossalmente svela una struttura che è narrativa nel profondo. Da pag. 74 a pagina 91, Genna condensa le immagini del libro, sia quelle lette sia quelle che leggeremo. E’ una parte essenziale del testo, che Genna ironicamente – il riferimento all’abbassamento delle vendite del libro – ci invita a saltare. Non è l’unica struttura paratestuale esistente. Io ne ravviso altre due legate alla sezione, un vero e proprio confiteor (p.114), detta le storie di “merda”.
Incominciamo a leggere la prima. “Giuseppe Genna” prende il suo motorino e si dirige verso Enzino, mentre va verso Enzino, Giuseppe Genna dice
Provengo da via Novara, esco da casa di Vanessa. Chi desiderasse sapere chi sia Vanessa e cosa è successo a casa sua, può ignorare quanto sto scrivendo, saltare le pagine, andare al segmento successivo.
Mi pare che il meccanismo sia chiarissimo. Abbiamo una struttura de “le storie di merda” che l’autore mette secondo una logica che ci pare temporale, l’intermezzo ci chiarisce che il tempo del racconto è sfasato rispetto al tempo degli accadimenti: Genna racconta prima una cosa che è successa dopo e ci informa anche che se vogliamo possiamo andare a leggerci direttamente l’altra storia. Questo rimandare a parti del testo successive, questo mischiare i piani temporali mi hanno fatto venire in mente il Tristram Shandy, che rappresenta uno dei modi – forse più atipici e nel contempo classici– di scrivere un romanzo e un romanzo moderno.
Quando ci troviamo davanti alla terza storia di merda, dove il protagonista pratica l’eutanasia ad un malato terminale, leggiamo una nota – in questo caso l’elemento paratestuale è evidentissimo – che ci dice: i nomi, i luoghi e quant’altro sono stati cambiati per evitare eventuali rischi legali. Poi seguono queste righe
Questa è dunque la finzione? Cosa c’è di vero nella finzione? La finzione è vera? E’ romanzesca? E’ una storia? Questa è una confessione? La finzione, qui impiegata a fini di occultamento, è un occultamento?
Siamo davanti ad una confessione, ma a pie’ pagina l’autore incomincia a ragionare manzonianamente sul vero, verisimile e falso, che sono il germe della riflessione sul romanzo almeno per quanto riguarda la letteratura italiana.
Dopo la nota continuiamo la lettura della storia e incontriamo un uomo così simile a Welby, così uguale a lui, così medesimamente desideroso di porre fine alla morte, ma qualcosa non quadra: la sua strenua volontà che la cosa rimanga nascosta. L’uomo non si è rivolto ai giornali né alle televisioni, vuole morire solo. L’uomo è molto religioso, sulla testiera del suo letto crocifissi, rosari benedetti a Lourdes e disegni di bambini.
Poi il colpo di scena. Genna ha un dubbio legato proprio a tale ostinata scelta di privacy: qualche ricerca e si scopre che l’uomo che vuole morire è un pedofilo condannato. Di colpo il caso di cronaca, alla Welby, è altro, l’episodio diventa una riflessione dostoevskijana sul male, sulla pietà e la colpa (p.167-172).
Rimaniamo alle strutture paratestuali. Italia De Profundis ha una epigrafe tratta da Petrolio, il romanzo di Pier Paolo Pasolini. La citazione ci porta a domandarci quanto è in che modo Petrolio abbia influito sul libro di Genna. C’è una prima vicinanza che è tematica. Petrolio nelle intenzioni di Pasolini doveva essere un romanzo sull’Italia e su cosa era diventata nel corso degli anni 70. Il testo di Genna vive la medesima tensione “morale”. Anche se l’analisi pasoliniana si muoveva nell’ambito del potere e ai prodromi di quel mutamento sociale ed economico che paradossalmente a Genna viene “rivelato” nella sua permanenza nel villaggio vacanze in Sicilia.
Il libro di Pasolini agisce più in profondità.
Torniamo per un attimo a quella sorta di confessione delle esperienze più tremende di “Giuseppe Genna”. Il titolo che viene dato a queste 4 lasse di testo è appunto “storie di merda”.
Ora se prendiamo Petrolio, notiamo come tra gli appunti una parte molto cospicua sia legata a “Il Merda. Una visione” (Pasolini, Petrolio Einaudi [1992], pp.323-85). Sono pagine quelle dove tramite il Merda assistiamo ad una sorta di processione allegorica in cui con un gioco di specchi si mostra cosa realmente è la società italiana. E lo si mostra tramite il Merda e le sue peripezie.
Le storie di merda di Genna vivono della medesima trasparenza allegorica: Genna raccontando di sé e delle proprie vicissitudini, vuole dire altro e precisamente la metamorfosi finale di ogni italiano.
Si crea quindi una prossimità tra il Merda pasoliniano e le storie di merda di Genna, legate da questo intento di rivelazione finale.
Tra le storie “inconfessabili” di Genna abbiamo, infine, la descrizione dell’incontro tra il Giuseppe Genna e Vanessa, una drag queen. In queste pagine assistiamo alla descrizione particolareggiata di una fellatio che il protagonista Giuseppe Genna compie. In questo caso il debito verso Petrolio, non è tanto tematico o strutturale come nei primi due casi, ma letterale.
Nel romanzo di Pasolini assistiamo alla descrizione particolareggiata e precisa di una fellatio da parte del protagonista Carlo (Pasolini, cit., pp.201-29), che nei termini e nei modi ricorda quella presente in Italia De Profundis.
Quindi proprio l’esempio più basso della abiezione di Giuseppe Genna nasconde un omaggio e una citazione chiara al libro che fa da palinsesto alla narrazione.
Italia De Profundis è il libro gremito di letteratura, dove l’elemento autobiografico se c’è è soltanto dato iniziale, perché tutto – come accadeva per altri versi in Hitler – si riconduce alla scrittura e alla letteratura. L’episodio dell’eroina, le sue allucinazioni e dialoghi al limite ci riportano alle atmosfere de Il pasto nudo, la descrizione delle settimane nel villaggio turistico sono una sorta di tenzone rispetto a Wallace e al suo reportage Una cosa divertente che non farò mai più (l’autore in questo caso dichiara la relazione tra Italia De Profundis e il testo di Wallace).
Queste riflessioni ci portano a dire che Italia De Profundis è un romanzo per struttura, montaggio e per trama, ma a rendere ancora più interessante il tutto è funzione allegorica, che Genna dà alla sua narrazione. Proprio l’allegoria, che è un tratto che Wu Ming ha ravvisato caratteristico della NIE, fa divergere negli esiti Italia De Profundis dai protocolli narrativi della nuova epica italiana.
Wu Ming 1 nel suo intervento definisce così l’allegoria
E’ l’allegoria metastorica. Si può descriverla come il rimbalzare di una palla in una stanza a tre pareti mobili, ma anche come un continuo saltare su tre piani temporali:
– Il tempo rappresentato nell’opera (che è sempre un passato, anche quando l’ambientazione è contemporanea);
– Il presente in cui l’opera è stata scritta (che, anch’esso, è già divenuto passato);
– Il presente in cui l’opera viene fruita, in qualunque momento questo accada: stasera o la prossima settimana, nel 2050 o tra diecimila anni.
Le opere che continuano a risuonare in questo presente sono chiamate “classici”. Il loro segreto sta nella ricchezza dell’allegoria metastorica, la stessa che possiamo trovare in miti e leggende. La storia di Robin Hood è sopravvissuta ed è ri-narrata a ogni generazione perché la sua allegoria profonda continua ad “attivarsi”.
A me pare che questa definizione abbia un difetto, ovvero descrive un simbolo più che un allegoria. Il riverbero di un libro nel tempo ha a che fare con la potenza simbolica (o mitica) e non con quella allegorica di una storia. [*]
Cosa è quindi allegoria?
L’allegoria è dire una cosa per dirne un’altra. L’esempio più eclatante è in un gesto. Ognuno di noi sa cosa è la transustantazione. Ovvero il momento in cui il pane diventa il corpo di dio. Il segreto è che rimane pane, ma nel contempo è la carne di dio.
Se dobbiamo parlare di allegoria, allora io credo che bisogna muoversi su questo campo.
Io narro una cosa, la narro così come è. Eppure questa cosa ha un significato altro che prescinde, che non ha rapporti, con quello che sto dicendo. Io scrivo che mi sono perduto in un bosco oscuro, ed è così, è un fatto. Nello stesso tempo io parlo di un uomo che cade nel peccato.
Io non faccio niente perché il lettore intenda questo, non gli do segnali specifici – in quel caso sarebbe un simbolo -, ma tutto semplicemente accade nella scrittura.
Italia De Profundis non crea quindi dei rimbalzi. I fatti si presentano nudi, accadono. Sono lì in tutta la loro presenza. “Giuseppe Genna” infila un ago nella sua vena, e noi vediamo solo e soltanto questo. Eppure alla fine del libro comprendiamo che abbiamo fatto una esperienza diversa, altra. Il testo non ha creato quella sorta di complicità tra autore e lettore, quel legame è che tipico del simbolo. Per capire il simbolo io devo avere un legame con chi lo pronuncia.
Italia De Profundis contrariamente a Dies Irae non fallisce in questo: non si fa simbolo, ma allegoria. Alla fine di Dies Irae io mi sentivo come Giuseppe Genna (nel “come” è contenuta la carica simbolica del libro). Dopo Italia De Profundis io non sono Giuseppe Genna, che rimane da me separato e distante: perché non si dà allegoria senza distanza. Mi rendo conto che l’autore Giuseppe Genna raccontando i nudi fatti di “Giuseppe Genna” ha detto qualcosa di me come uomo.
Il testo di Genna non rimbalza, per mantenere la metafora di Wu Ming, ma è fermo e chiuso. La profonda letterarietà della struttura, il continuo gioco di citazioni non fanno che frapporre uno schermo tra l’autore e il lettore, uno specchio, che per comodità si chiama “Giuseppe Genna”, e dove misteriosamente ognuno vede ciò che alla fine è.
[*] Nota di Giuseppe Genna: nell’accezione che Demetrio Paolin conferisce all’allegoria secondo quanto descritto da Wu Ming 1 nel memorandum sul NIE, accade uno scontro tra sistemi ermeneutici e filosofici contrapposti. Mentre infatti, come ribadito in più punti, Wu Ming 1 utilizza, per tentare di circoscrivere il campo di forze allegorico, l’impianto dinamico dell'”allegoria aperta” desunta da Benjamin, l’interpretazione dell’opposizione tra simbolo e allegoria (a tutto vantaggio del simbolo, che in Benjamin è in un certo senso l’avversario teoretico sia in Angelus Novus sia nel Dramma barocco tedesco) è mutuata dall’estetica esistenzialista di Pareyson e, mi pare, soprattutto del testo su Kafka di Remo Cantoni, laddove il filosofo italiano giunge a conclusioni polarmente opposte rispetto a quelle enunciate da Benjamin nel saggio kafkiano in Angelus Novus. Entrambe le prospettive, tuttavia, conducono a un esito unico, che forse è il Bloch di Tracce a riassumere: è la prospettiva dell’abolizione del “come”, cioè il raggiungimento di una “letteralità” così intensa da resistere a qualunque temporalità umanistica e a qualunque ermeneusi. Il punto comune su cui mi pare necessario lavorare è dunque questo: non tanto le sistematiche che fanno da premessa a modalità interpretative apparentemente opposte, quanto l’esito “aperto” del testo, che è una “potenza” in grado di significare al di là della costrizione del testo stesso a un messaggio, a una forma non dinamica, a un significato o a un Discorso, che è sempre il Discorso.