“Non credere mai che uno spazio liscio sia sufficiente per salvarci”
è un precetto, più che un consiglio, che Gilles Deleuze [nel ritratto a destra] e Félix Guattari forniscono nel loro plurinterpretato Millepiani. Nasce dall’opposizione apparente di due fenomenologie dell’universale percettivo e, probabilmente, extrapercettivo, ovverosia extraumano: lo spazio liscio e lo spazio striato. Contro le opposizioni che solitamente hanno fatto preda e brani delle parole di Deleuze soprattutto, ecco le parole stesse di Deleuze e Guattari:
“Lo spazio liscio e lo spazio striato – lo spazio nomade e lo spazio sedentario – […] non sono della stessa natura. Ma a volte possiamo notare un’opposizione semplice tra i due tipi di spazio. Altre volte dobbiamo indicare una differenza molto più complessa, per cui i termini successivi delle opposizioni considerate non coincidono del tutto. Altre volte ancora dobbiamo ricordare che i due spazi esistono in realtà solamente per i loro incroci reciproci: lo spazio liscio non cessa di essere tradotto, intersecato in uno spazio striato; lo spazio striato è costantemente trasferito restituito a uno spazio liscio.”
C’è qui sotto un riferimento al modo di intendere il gotico da parte di Wilhelm Worringer (in I Problemi formali del gotico). E, sotto Worringer, c’è un riferimento alla filosofia vitalista che mostra una radice simmeliana, e cioè prettamente influenzata dall’autentico del Preromanticismo: che sarebbe poi il processo indefinito metamorfico.
Il modo in cui D&G discutono l’idea vorticale di gotico enunciata da Worringer, è singolare: nel senso che essa costituisce un punctum preciso, topico, dell’indefinitezza di ciò che concerne una delle meditazioni chiave dell’opera deleuziana: s’intende l’idea di “nomadismo”.
Questi interventi che sto pubblicando dovrebbero essere rubricati (e forse lo saranno) sotto il titolo ironico: Non è questa la sede. Titolo che manifesta una pluralità di significati, ma che in prima battuta è letterale. Non è infatti questa la sede in cui discutere compiutamente, come già migliaia di volte si è fatto assai competentemente in altre sedi, una tale piega della teoresi e della fenomenologia contemporanea, qual è in effetti il nomade deleuziano. La excusatio non petita nasce dal fatto che certo pudore nasce in me nel momento in cui vado idiosincraticamente ad annotare in pubblico personali impressioni.
In quale spazio dovrebbe muoversi nomadicamente il nomade? E’ questo spazio il mondo? Sì e no – dipende da cos’è il mondo. Annoto che l’implicito deleuziano è dunque la domanda: cos’è il mondo? Poiché è chiaro che ci muoviamo nel mondo, siamo qui nel mondo che cade sotto categorie spaziotemporali; però cade sotto categoria coscienziale, anche. E psichica, pure. Per esempio, se si sogna di muoversi dentro una corte medievale riattata alle esigenze del nostro tempo, è chiaro che ci stiamo muovendo dentro uno spazio. Arriviamo perfino non a immaginare, ma propriamente a sapere, che se pure non vi fosse la specie umana, comunque esisterebbe uno spazio: ivi muovendosi sfere e fenomeni materiali noti e ignoti o perfino assolutamente irriducibili alla cognizione della specie stessa. Ciò accadrebbe in una cecità assoluta, essendo assente la specie: la medesima cecità che abbiamo sperimentato prima di nascere, prima che fosse coordinata la materia strutturale minima adatta alla percezione, prima dunque ancora della memoria (laddove la mielinizzazione cerebrale non era stata completata) – ecco che di colpo il mondo ci è apparso.
Nonostante la cecità, accade.
Se Worringer trasferisce l’en kài pan del Preromanticismo nella sua visione del Gotico, è perché ciò che è nomade ancora non è stato attentamente messo in autoconsapevolezza – e non, invece, perché non esista di per sé:
“Mentre in senso organico la linea gotica si mantiene non espressiva, appare ciononostante percorsa da un’estrema vitalità.”
e
“Non troviamo né un punto d’appoggio n è un punto d’arresto. In questo movimento senza fine tutti i punti hanno lo stesso valore, e, insieme, sono senza valore di fronte al movimento che riproducono.”
Questo è Goethe. E’ la continuità Gotico | Barocco che Benjamin stesso vede. Tale è l’allegoria organica: non a chiave e nemmeno quella aperta nel senso in cui si pensa che sia aperta (“Aperta verso quale spazio?” è la domanda implicita che pone l’allegoria aperta).
E Deleuze? Apparentemente è molto preoccupato di sottrarre lo sguardo alla gabbia statuale che lo irregimenta. Il nomadico, in Deleuze, è anche l’anti-statuale per eccellenza. E perché? Il rapporto individuato tra nomade, abito e spazio è abbastanza esplicativo e, ancora una volta, letterale, a riguardo, poiché [cito Deleuze citato in M. Ronzoni, “Le parole della filosofia”, II, Università Statale di Milano, 1999] il nomade, tessendo il feltro, collega l’indumento
“allo spazio liscio aperto, allo spazio del di fuori, dove il corpo si muove.”
E dove si muove il corpo? Nello spazio. Dopo Kant, per qualsiasi filosofo, è difficile comunque sostenere l’esteriorità assoluta e antipsichica (intendo: antitrascendentale) dello spazio. L’implicito nel nomadico deleuziano è la questione metafisica, dunque: cosa sarebbe lo spazio? Come si fa spazio? Dove ci si muove e con cosa quando ci si muove nello spazio? Addirittura, da citazione iniziale: lo spazio potrebbe avere, e non ha, una funzione salvifica – il che è il momento preciso in cui la questione della pura coscienza, cioè della nudità e della cecità assolute, si fa torsione ideologica e, altrove, perfino religiosa.
Deleuze, come è noto, si è occupato assai profondamente di Kafka. La cui minoritarietà letteraria è un massimalismo metafisico della potenza veicolata in parole: potenza che viene da dove?, che risiede in quale spazio?
Questo, per esempio – e valga questa citazione come domanda intima che ci si concede di porsi, a meno che non si sia interessati a ciò che troppo è umano e dunque conduce al Violento Discorso Che Contiene:
“Mio nonno soleva dire: «La vita è straordinariamente corta. Ora, nel ricordo, mi si contrae a tal punto che, per esempio, non rieco quasi a comprendere come un giovane possa decidersi ad andare a cavallo sino al prossimo villaggio senza temere (prescindendo da una disgrazia) che perfino lo spazio di tempo, in cui si svolge felicemente e comunemente una vita, possa bastar anche lontanamente a una simile cavalcata.»”
e soprattutto questo:
“Se si fosse almeno un indiano, subito pronto e sul cavallo in corsa, torto nell’aria, si tremasse sempre un poco sul terreno tremante, fino a lasciare gli sproni, perché non c’erano sproni, si gettavano via le briglie, perché non c’erano briglie, e si vedeva appena la terra davanti a sé come una brughiera lanciata, già senza più il collo e la testa del cavallo!”.
La domanda che mi viene da fare, a proposito dello spazio e del nomade, infine, è: perché il punto del centro è interno al cerchio?
Questa domanda corrisponde letteralmente alla domanda: dove posa il piede il nomade?
Questa metafora che non è più metafora, questa allegoria veramente aperta che non è più allegoria bensì soltanto apertura, e cioè domanda priva di risposta… Questa narrazione finale, iniziale, mediana, sempre presente, a ogni qui e ora…