Avvicinamenti al romanzo: Solinas e la conferma dell’errore di Littell

1. Avvicinamenti al romanzo: Wu Ming 1 e Piperno su Littell
2. Avvicinamenti al romanzo: Claude Lanzmann
3. Avvicinamenti al romanzo: Paolin sulla recensione a Littell di Piperno
benevole.jpg[Esponente di spicco della Nuova Destra di Tarchi negli anni Settanta e Ottanta, Stenio Solinas è un giornalista e, in quanto giornalista, è giusto che scriva su Il Giornale. Fosse un ideologo, dovrebbe scrivere su Ideologia, che non esiste, o su Ideazione, che esiste e forse ha nel suo archivio qualche intervento di Solinas. Il giornalista mantiene alcune peculiarità che lasciano perplessi: in diretta a Otto e Mezzo, qualche anno fa, si augurò che Antonio Moresco finisse sottoterra. L’entusiasmo di Solinas per Le Benevole di Jonathan Littell mette in mostra limpidamente quale sia l’ambiguità di poetica e di politica implicita in questo romanzo, che – va ripetuto – è esteticamente splendido. L’intervento di Solinas chiarisce gli effetti sul lettore, che sortiscono da un affrontamento del tema dello sterminio nazista per come Littell lo affronta: cioè la stesura di una mappa totale, il tentativo di trovare e spiegare le cause e, soprattutto, la finzionalizzazione applicata a un evento estremale della Storia che non può essere raccontato con un romanzo storico senza che poi se ne avvertano conseguenze politicamente ed eticamente gravi. L’incursione entusiastica di Solinas è, punto per punto, la smentita di quanto Levi e, sulla sua scorta, Lanzmann indicano come forma di avvicinamento artistico alla materia. Nella recensione, che è un peana, stilata da Solinas, intervengo con incisi in corsivo: brevi ma, spero, comprensibili, per evidenziare questa distanza che non può essere limitata a un effetto estetico]
IL CASO LITTELL – VIAGGIO AL TERMINE DI UN SS
di STENIO SOLINAS
[da “il Giornale”]
Nell’Orestea di Eschilo, le Furie che incalzano Oreste, uccisore di sua madre che aveva ucciso suo padre, reo di aver sacrificato una figlia, si placano allorché, grazie al voto determinante di Atena, i giudici mandano libero il matricida: le ragioni per condannarlo equivalgono infatti quelle per assolverlo [ecco uno dei punti più clamorosamente dannosi della finzione: assoluzione garantita, perché messa sullo stesso piano della condanna. Littell inizia con: “Fratelli umani…” – ma, per quanto il Male sia in ognuno di noi, io non sono affatto fratello del protagonista delle Benevole, e non lo sono per una frattura ontologica nell’umano di cui il responsabile è Hitler. Le ragioni della condanna non sono le stesse dell’assoluzione: io devo compiere un lavoro spirituale in me per perdonare. Tutto ciò, Littell se lo beve, grazie all’ubriacatura della finzione, che è in prima persona e crea quindi una perniciosa identificazione]. Da persecutrici le Furie diverranno da ora in poi le Eumenidi, benevole custodi della giustizia e della prosperità ateniese.
Vera e propria summa del Senso del Tragico [non è vero: Le Benevole non è una tragedia; la sua mimesi è finzionale, la sua catarsi è offuscata, rimane la potenza di una mitologia, che viene scaricata, come vedremo, sulla parte sbagliata – infine non si tratta di una rappresentazione sacrale comunitaria: questa misinterpretazione avviene nuovamente grazie alla finzione inventiva], non è un caso che Jonathan Littell abbia tratto il titolo del suo ambiguo e straordinario romanzo proprio dall’ultimo capitolo della trilogia eschilea: Les Bienveillantes (Gallimard, pagg. 900, euro 25, pubblicato in Italia da Einaudi) non sono altro infatti che le Benevole, le Erinni placate…


E se lì a chiedere vendetta c’era il sangue degli Atridi, la ragion di Stato e la morale [no, questo significa non avere compreso il tragico – sono le potenze della Dike, cioè le potenze che l’uomo intercetta come forza di sfondo e ubiquitaria da cui egli, in quanto umano, emerge – compiere la rottura di questa unitarietà è compiere la colpa che solo il sacrificio può emendare: ma perché avvenga il sacrificio deve essere avvertita comunitariamente l’unità del tutto, che poi, depositandosi nell’inadeguatezza del linguaggio umano, diventa il Divino. In questo senso, in Eschilo, sangue degli Atridi, ragion di Stato e morale sono la medesima cosa: tre modalità della medesima sostanza unitaria e metafisica], il rogo rituale degli innocenti e la sua liceità in tempo di guerra, la legge e il timore della legge, la colpa che deve essere espiata e la espiazione che la riscatta ma non la annulla, qui c’è il cuore nero dell’Europa 1939-1945, la Seconda guerra mondiale, i massacri e le stragi, il mito della razza e l’antisemitismo, la «soluzione finale» e la consapevolezza che non esiste più pietas [ecco l’errore più grave sul piano ontologico e su quello politico: la pietas non smette di esistere; solo che, dopo Hitler, è necessario uno sforzo interiore per ricomporre la sacralità del gesto di pietas, cosa che l’occidente non intende fare, non ne ha più le capacità, poiché l’occidente è ancora la terra in cui si è rotto il legame tra umano e umano. Affermare quanto afferma Solinas va contro al precetto di Fackenheim: “Non concedere a Hitler vittorie postume”. Quella che concede Littell, e Solinas seguendolo, è la massima vittoria postuma che si può concedere a Hitler. il che non significa che sul piano politico e materiale Hitler non abbia sortito in occidente vittorie postume decisive…]. Qui le Erinni non inseguono Oreste, figlio di Agamennone e di Clitemnestra, fratello di Ifigenia e di Elettra: qui sono sulle tracce dell’ormai vecchio dottor Max Aue che cominciò il conflitto da sottotenente delle SS e lo terminò da tenente-colonnello, uno che forse, non è chiaro, non ha ucciso la propria madre, ma di certo ha amato carnalmente la propria sorella [questa è la fiction che, personalmente condanno: calare una parodia di Elettra, cioè il guscio vuoto della tragedia, in un romanzo storico atto a contenere ciò che non può contenere, cioè una rottura ontologica tra uomo e uomo – non esiste una motivazione plausibile, se non una finzionale che guarda strabicamente al tragico, per configurare Max Aue in questo modo: non esiste dall’inizio e, al termine del romanzo, esiste ancor meno, poiché sta in luogo di una morale e di un esito che si crede essere la catarsi e che invece è regressione allo zero di sé], uno che in piena coscienza ha liquidato prigionieri di guerra, ebrei e no, e accettato di pianificare la loro eliminazione in grande scala, un nazionalsocialista che credeva in quello che faceva.
Con duecentomila copie vendute in pochi mesi, la candidatura a tutti i più importanti premi letterari e già l’assegnazione del Grand Prix de l’Académie Française, Les Bienveillantes è il caso letterario più clamoroso di Francia. Lo è perché è l’opera prima di un autore di nemmeno quarant’anni, americano di nazionalità ma che scrive un francese bellissimo. Lo è perché si tratta di un romanzo monstre, 900 pagine in cui la guerra e le sue atrocità sono dispiegate in forma quasi ossessiva, ma c’è anche spazio per dissertazioni musicali, analisi linguistiche, annotazioni filosofiche… Lo è perché, francofono come il suo autore, il protagonista Max Aue si muove nella Parigi degli anni Trenta nemmeno fosse a casa propria, è imbevuto di quella cultura, ed è del resto nella Francia postbellica che si è rifatto una vita sotto falso nome. Lo è perché Littell mischia verità e finzione [qui potrei stendere un trattato, ma mi limito a due domande: perché un romanzo che mischia verità e finzione deve essere un libro di ciclopico valore? Si pensa e si sente che cosa sia il peso di mischiare realtà e finzione nel momento in cui si narra di un’estremalità storica?], inventa caratteri ma dà voce e spessore a personaggi realmente esistiti che il giovane Max incontra e/o frequenta: Speer e Bormann, Eichmann e Himmler, Jünger e Abetz, Brasillach e Rebatet… Lo è, infine, perché è la testimonianza in prima persona di una SS («la più celebre di Parigi dopo Günter Grass», ha ironizzato nei giorni scorsi Le Figaro), che non si giustifica né rivendica: semplicemente racconta il proprio viaggio al termine della notte, al fondo della disumanità [ecco l’ingenuità critica e quella poetica di chi ha steso il testo: raccontare il viaggio in fondo alla notte è già giudicare e rivendicare. In questo senso il romanzo sfugge di mano a Littell. Della meditazione critica non c’è nulla da dire: qui è in atto un truismo inverificato, una communis opinio che un intellettuale che legge un libro dovrebbe avere ragionato a fondo…].
«Indovino quello che pensate: ecco un uomo veramente cattivo, dite, un essere malvagio, in breve, una carogna che dovrebbe marcire in prigione piuttosto che infliggerci la sua filosofia confusa di fascista pentito a metà… Sulle mie responsabilità morali permettetemi qualche considerazione. I filosofi politici hanno spesso fatto notare che in tempo di guerra il cittadino, il maschio almeno, perde uno dei diritti più elementari, quello di vivere, e questo dalla Rivoluzione francese e l’invenzione della leva di massa. Ma hanno raramente notato che quel cittadino perde contemporaneamente un altro diritto, anch’esso elementare e per lui forse ancora più vitale per l’idea che egli ha di se stesso come essere civilizzato: il diritto di non uccidere… Siamo chiari: non cerco di dire che non sono colpevole di questo o quel fatto. Lo sono, voi non lo siete, va bene così. Ma tuttavia dovreste potervi dire che ciò che io ho fatto l’avreste fatto anche voi. Forse con meno zelo, ma forse anche con meno disperazione».
Intendiamoci, Les Bienveillantes non è un romanzo apologetico e, letterariamente parlando, Max Aue è uno dei personaggi più contorti e scostanti che è dato incontrare. L’amore incestuoso nutrito da ragazzino verso Una, la sorella gemella, ne ha fatto un omosessuale passivo e senza affetti, capace sì di amicizie, ma teso a preservare la propria unicità anche a costo di uccidere chi in fondo lo ha sempre aiutato. L’idolatria per un padre, già ufficiale nella Grande guerra e poi nei Corpi franchi, andato via di casa e non più tornato, è la molla dell’odio verso la madre e il patrigno, ma anche la chiave psicologica atta a spiegare il perché della sua adesione ideologica [si rinviene qui la traccia della ricerca del “perché?”: è proprio l’opposizione a quanto va sostenendo da decenni Claude Lanzmann e non c’è da stupirsi che il grande maestro francese monti su tutte le furie ogni volta che questa sua proposta, che è definitiva e irrinunciabile, venga equivocata o smentita con tanta leggerezza…]: il riscatto di una Germania sconfitta e umiliata, la necessità di un Capo, una disciplina, una fede. Laureato, colto, intelligente, Aue non è un semplice esecutore di ordini e Littell è bravissimo a tracciare le motivazioni del suo agire: «Era vitale comprendere in sé la necessità degli ordini del Führer: se ci si piegava per semplice spirito prussiano d’obbedienza, per spirito di Knecht, di servilismo, senza capirli e senza accettarli, vale a dire senza sottomettervisi, allora non si era che un vitello, uno schiavo, non un uomo. L’Ebreo, lui, quando si sottometteva alla Legge, sentiva che quella Legge viveva in lui, e più era terribile, dura, esigente, più l’adorava. Il nazionalsocialismo doveva essere proprio quello: una Legge vivente. Uccidere era una cosa terribile; la reazione degli ufficiali lo mostrava bene, anche se tutti non tiravano le conseguenze della loro azione; colui per il quale uccidere non era una cosa terribile, uccidere un uomo armato come uno disarmato, e un uomo disarmato come una donna e il suo bambino, questi non era che un animale, indegno di appartenere a una comunità umana. Ma era possibile che quella cosa terribile fosse anche una cosa necessaria; e in questo caso bisognava sottomettersi a questa necessità». La necessità, per Aue e per quelli come lui, le SS garanti della purezza, è la supremazia nazionale che si incarna nella supremazia razziale. Non è sufficiente vincere, bisogna estirpare il pericolo alla radice, perché il nemico vinto, ma lasciato in vita, può un domani rivoltarsi ancora contro di te. È una questione numerica, una logica numerica [no: è una questione ontologica che diviene un punto di discrimine della vicenda umana tutta. Soltanto chi non ha capito in che senso si parla di unicità della Shoah può sostenere la veridicità di un calcolo ab origine come questo. Nello sterminio si gioca, per la prima volta, la negazione dell’umano mentre si è consapevoli che è umano, e non per sottrarre denaro, territori, beni. Quello che emerge da Littell e che Solinas bene sintetizza sarebbe una forma estrema di colonialismo – e non è così]
Costruito su sei grandi blocchi narrativi, Les Bienveillantes racconta l’ascesa e la caduta degli Dei di Germania dal di dentro [va da sé che è proprio come dice Solinas: la Germania hitleriana come evenienza che è stata Divina, cioè che esprime una potenza mitologica: è ancora la concessione di una vittoria postuma a Hitler]. C’è la grande avanzata verso l’Est, gli scontri fra il Partito e la Wermacht su come garantirsi le retrovie, l’invasione dell’Urss, Stalingrado e poi l’ordinato prima, convulso poi, ripiegare e intanto il fronte interno, la vita a Berlino… Nelle sue vesti di ufficiale addetto a stendere rapporti sulla pianificazione dei campi di lavoro e di sterminio, Aue è testimone di scelte che non possono lasciarlo indifferente, ma che non sono altro che la conseguenza dell’assunto che le ha rese possibili.
Visto dall’esterno, il delirio appare in tutta la sua tragica e insensata, militarmente come eticamente, dimensione, ma Littell nel raccontarlo dall’interno ne mette in risalto anche la quotidianità e, per certi versi, la anormale normalità. Sul fronte bellico orientale, il più sanguinoso e il più duro, per le condizioni climatiche, per lo scontro armato fra due potenze dittatoriali padrone assolute dei loro sudditi, non c’è che il mors tua vita mea
Les Bienveillantes è un libro crudele e disperato perché non indietreggia di fronte a nulla [cioè mostra tutto: questa è la logica radicale e panottica della finzione che si pretende veritativa, se si infila in una narrazione storica: si vede tutto e, vedendo tutto, nell’inconsapevolezza poetica e politica, tutto concede – l’insulto, l’oscenità e la mitologizzazione dell’obbrobrio, cioè della causa dell’obbrobrio]. Sul sadismo indotto, per esempio, Littell scrive pagine esemplari: «Una facile soluzione sarebbe biasimare la nostra propaganda: l’Häftling, il detenuto, è un sottouomo, non è nemmeno umano, perciò è legittimo bastonarlo. Ma non è proprio così: dopotutto anche gli animali non sono umani, ma nessuna delle nostre guardie tratterebbe un animale come tratta un detenuto. La propaganda in effetti gioca un ruolo, ma in modo più complesso. Sono arrivato alla conclusione che la guardia SS non diviene violenta o sadica perché pensa che il detenuto non sia un essere umano: al contrario, la sua rabbia cresce e diventa sadismo quando si rende conto che il detenuto, lungi dall’essere un sottouomo come gli è stato insegnato, è giustamente, dopotutto, un uomo proprio come lui, ed è questa resistenza, vedete, che trova insopportabile, questa persistenza muta dell’altro, e dunque la guardia lo batte per cercare di far sparire la loro comune umanità. Naturalmente, la cosa non funziona: più la guardia colpisce, più è obbligato a constatare che il detenuto rifiuta di riconoscersi come non-umano. Alla fine, non gli resta altra soluzione che ucciderlo, il che è la constatazione di uno scacco definitivo» [magari fosse successo così. Succede così solo in chi organizza lo sterminio, non in chi lo pratica, poiché chi lo pratica è già spostato sulla faglia opposta della rottura di specie: Hitler definisce gli Ebrei come insetti, blatte, parassiti, virus, arriva a dire che appartengono a un’altra specie; ma poi i campi sono organizzati in vista della disumanizzazione, il che testimonia che Hitler e i suoi scherani sanno che stanno agendo da aguzzini su esseri umani. Questa consapevolezza dice: so che è male e lo faccio; la consapevolezza umanistica dice: so che è male e vedo il bene, ma non so perché faccio il male. Hitler porta a termine l’umanesimo teorizzato nel Gorgia platonico].
Intellettuale, Max Aue cerca nelle parole qualcosa che spieghi e/o giustifichi la tragicità delle scelte, l’accettazione del loro grado zero. «Le parole mi preoccupavano. Mi ero già chiesto in che misura le differenze fra Tedeschi e Russi, in termini di reazioni alle uccisioni di massa, e che facevano che noi avessimo dovuto finalmente cambiare di metodo per attenuare in qualche modo la cosa, mentre invece i Russi sembravano, anche dopo un quarto di secolo, esservi rimasti imperturbabili, potevano essere dovute a differenze di vocabolario. La parola Tod, dopotutto, ha la rigidità di un cadavere già freddo, pulito, quasi astratto, la finalità in ogni caso del dopo-morte, mentre Smiert, il termine russo, è pesante e grasso come la cosa in sé. E il francese, nel caso in questione? Questa lingua, restava per me tributaria della femminilizzazione della morte attraverso il latino: quale scarto alla fine fra la Morte, e tutte le immagini quasi calde e tenere che essa suscita, e il terribile Thanatos dei Greci! I Tedeschi, loro, almeno avevano preservato il maschile (anche Smiert, sia detto di sfuggita, è femminile). Lì, nella chiarezza dell’estate, pensavo a questa decisione che avevamo preso, questa idea straordinaria di uccidere tutti gli Ebrei, chiunque essi fossero, giovani o vecchi, buoni o cattivi, di distruggere il Giudaismo nella persona dei suoi portatori, decisione che aveva ricevuto il nome, oggi ben conosciuto, di Endlösung: la “soluzione finale”. Ma che bella parola! E tuttavia, non era sempre stato sinonimo di sterminio: dall’inizio si reclamava per gli Ebrei un Endlösung, oppure una Völlige Lösung (soluzione completa), o ancora una Allgemeine Lösung (soluzione generale) e secondo le epoche questo significava esclusione dalla vita pubblica, esclusione dalla vita economica, infine emigrazione. E a poco a poco il significato era scivolato verso l’abisso, ma senza che il significante, lui, cambiasse, ed era un po’ come se questo senso definitivo fosse sempre vissuto nel cuore del termine, e che la cosa fosse stata ghermita da lui, dal suo peso, dalla sua smisurata pesantezza, in quel buco nero dello spirito, sino alla singolarità: e allora si era passato l’orizzonte degli avvenimenti, a partire dal quale non c’è più ritorno. Si crede ancora alle idee, ai concetti, si crede che le parole designano delle idee, ma non è necessariamente vero, forse non ci sono veramente idee, forse non ci sono realmente che parole e il peso loro proprio. E forse anche noi ci eravamo lasciati trascinare da una parola e dalla sua inevitabilità».
Così parla Max Aue e Jonathan Littell gliene dà facoltà per 900 fitte pagine [no: soltanto in questo passo Littell riprende la tesi di Lanzmann e hilberg – non nelle 900 pagine: è l’unico passo che si può eticamente e politicamente salvare in questa finzionalità che, splendida letterariamente, è il Nemico dell’umano, e quindi della letteratura, perché invera la vittoria postuma di Hitler: sembra affratellare, ma lo fa propagando la separatezza ontologica, che è il naturale portato della finzionalizzazione…] in cui c’è spazio per una glaciale quanto impressionante conta dei morti e per una comparazione filosofica fra nazismo e comunismo [questo sarebbe un portato revisionistico che ha in Nolte il suo cantore. Non si vuole giustificare qui l’orrore staliniano – si vuole dire che che esiste una fondamentale differenza ontologica tra lo sterminio hitleriano e quello perpetrato in epoca sovietica. Del resto, Solinas proviene dalla Nuova Destra, e questa idea dell’equivalenza tra Germania nazista e Unione Sovietica è stata uno dei cardini della riflessione del gruppo radunatosi intorno a Marco Tarchi…], per una rilettura del processo di denazificazione della Germania sconfitta, nel momento in cui i nuovi equilibri postbellici ricreano un fronte occidentale democratico in contrapposizione a un fronte orientale totalitario [questa è la premessa a un’ulteriore vittoria postuma concessa a Hitler: l’occidente come sbarramento al bolscevismo per Hitler e per chi ne eredita il ruolo di freno al comunismo], per una messa a punto dell’antisemitismo come moneta corrente europea di tutto l’Otto-Novecento. Scrittore versato in campo militare, il racconto che Littell fa della battaglia e poi dell’assedio di Stalingrado è da manuale, ma tutto il romanzo è attraversato da comprimari e primi attori splendidamente ritratti, siano essi dei teorici nazisti dell’odio antiborghese che alla fine troveranno a Mosca il modo per proseguire la loro lotta, degli aristocratici antihitleriani, degli ottusi esecutori di ordini, dei fanatici assassini… Quanto ad Aue, il capitolo in cui, in una Germania ormai in fiamme, cerca rifugio nei possedimenti abbandonati della sorella tanto amata, è un superbo concentrato di regressione all’infanzia, sadomasochismo sessuale, volontà di annientamento… [ecco che cosa diventa, nell’occidente in cui, come dice Piperno, la letteratura desacralizza, la catarsi tragica: un parodistico, caricaturale ritorno allo zero, al sollievo dal peso di sé e di quanto è stato agito contro la fratellanza universale, cioè contro l’unitarietà del tutto che determina il sacro e pretende di non essere separata, ma meditata singolarmente e condivisa comunitariamente]
Les Bienveillantes è non solo il grande romanzo dell’anno, ma uno dei più affascinanti che da almeno un trentennio a questa parte la letteratura ci abbia regalato. Lo è per le ambizioni, la ferocia visionaria, il cinismo, la vergogna, l’orrore e il dolore di cui si nutre [è molto più significativo La posssibilità di un’isola di ouellebecq, sotto questo preciso risguardo, che il libro di Littell – è molto più radicale, oggettivo, neutro, umano e letterario Houellebecq]. Se poi quelle del titolo siano veramente Eumenidi placate o ancora Furie in cerca di vendetta, il giudizio sta nel cuore di chi legge [dopo avere letto un romanzo che elimina il cuore: chi oggi sente e sa cosa sia il Cuore? Per Solinas è sufficiente un giudizio relativo su un Male assoluto: ecco l’esito finale della sua lettura che, temo, sia una lettura condivisa, perché è la corretta conclusione del relativismo finzionale di Littell, che non comprende come il relativismo finzionale sia un assolutismo ontologico: nuovamente, la vittoria postuma concessa a Hitler, nuovamente lo sfregio comminato a Fackenheim].

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