E’ in libreria “Il re” di Leonardo Colombati

leonardo_colombati_il_reMondadori ha pubblicato il nuovo romanzo di Leonardo Colombati, Il re (€ 18 per 141 pagine: uno scandalo, francamente).
Propongo l’intervista e anticipazione comparsa sul “Corriere della Sera”, che a me era sfuggita. Prima dell’articolo, ritengo opportuno riprodurre un frammento cinematografico, per collocare secondo suggestione il lavoro che immagino abbia compiuto Colombati sull’icona Gianni Agnelli, cioè un lavoro di immaginario shakesperiano a cui si oppone il frammento filmico (che suppongo polarmente opposto al lavoro poetico di Colombati): si tratta del servizio sul sequestro dell’Avvocato, mandato in onda dal tg immaginario e condotto da Marcello Mastroianni in un episodio di Signore e Signori buonanotte.
Qui sotto, dopo il video, il pezzo del “Corriere della Sera”.

E ora: Leonardo Colombati e Il re

In arrivo «Il re», biografia romanzata di Gianni Agnelli
Così parlò il patriarca d’Italia
dopo vittorie, lutti e rimpianti

Leonardo Colombati immagina le ultime ore del signor Fiat: insoddisfatto e spaventato. Esce da Mondadori
di CRISTINA TAGLIETTI
[dal “Corriere della Sera”, 4 settembre 2009]

«Tutto il saper stare al mondo di un uomo che ha avuto ogni cosa dalla vita non ba­sta a saper morire con digni­tà »: in una sera del gennaio 2003, Gianni Agnelli, ultimo re d’Italia, pensa alla morte imminente e riflette sulla sua vita. Dovrà an­darsene per la cosa più comune per cui si muore su questa Terra, un tumore, lui che «dai letti delle sue case poteva guardare un Canaletto, un Bacon e un De Kooning», lui che era una delle poche persone al mondo a non aver mai posseduto un portafogli, lui che aveva cenato con Picasso e Fidel Castro.
Gli ultimi giorni dell’ultimo signore d’Italia li rac­conta Leonardo Colombati, scrit­tore romano che nel 2005 ha diviso la critica con un roman­zo-fiume, complesso e incom­piuto, Perceber (edito da Siro­ni), a cui è seguito Rio (Rizzoli), e che ora si mette alla prova con un racconto lungo (140 pagine) asciutto e levigato dove solo spo­radicamente il gusto per la scrit­tura barocca gli (ri)prende la ma­no. Il re (in uscita da Mondadori l’8 settembre, euro 17,50), nato co­me racconto breve per l’antolo­gia di Neri Pozza La storia sia­mo noi (a cura di Mattia Caratel­lo), è la narrazione della morte di Gianni Agnelli un po’ come ve­ramente è avvenuta, molto co­me Colombati la immagina. Episodi reali, particolari docu­mentati, luoghi veri, dettagli at­tinti da una nutrita bibliografia dichiarata in coda al libro si mescolano con personag­gi inventati e con una fiction fatta di pensie­ri, riflessioni, atteggiamenti che spesso ap­paiono aderenti alla figura dell’Avvocato co­sì come le cronache l’hanno descritto (l’Agnelli di Colombati, per esempio, cita in silenzio Goethe: «A vivere ho imparato, o dèi, prorogatemi i termini»).
«Gianni Agnelli è una figura che mi ha sempre affascinato — spiega Colombati —. Ho sempre letto molto su di lui. Per quasi quarant’anni è stato il simbolo di una certa Italia da esportazione, ha incarnato il capita­lismo familiare italiano, ha attraversato, con la Fiat, tutte le vicende politiche impor­tanti del nostro Paese. Ma nel libro non è questo che volevo raccontare. Mi interessa­va la vicenda umana di un vecchio ricchissi­mo terrorizzato dalla sua morte imminente perché consapevole di aver lasciato molti conti aperti. Entrare nella testa di quest’uo­mo è stata la mia sfida. In questo senso Il re è paradossalmente il mio libro più autobiografico, nel senso che per scriverlo mi sono chiesto che cosa penserei io se fossi in un letto in attesa della mia morte. Da questo punto di vista ci sono sicuramente delle forzature nella figura di Agnelli. Per esempio gli faccio provare a scrivere una pagina di diario, cosa abbastanza inverosimile. È più probabile, vista l’educazione ricevuta, che l’Avvocato fosse come quel personaggio di Saul Bellow che dice: avete una vita interio­re? Tenetela per voi. Avete delle emozioni? Soffocatele».
Colombati immagina l’Avvocato mentre rivede i fasti, le tragedie, le sfide vinte e le guerre perse della sua vita. Mentre in televi­sione scorrono le immagini di una trasmis­sione a lui dedicata, Agnelli ripensa agli an­ni della sua gioventù, quando pensava che non ci fosse nulla di più noioso della gestio­ne day by day di un’azienda da una città co­me Torino e trovava più divertente la com­pagnia di uomini con cui condivideva «un interesse per le ragazze e un grande amore per la velocità». Amici che si chiamano Por­firio Rubirosa, (soprannominato «Toujours Prêt» per la sua incredibile potenza sessua­le), che si schianterà con la sua Ferrari con­tro un platano del Bois de Boulogne, Alì Khan, morto contro un muro di un elegante caseggiato parigino, Alfonso de Portago schiantato alla Mille Miglia «dietro la curva di un paese di cui non ricordo il nome». E poi gli anni a capo dell’azienda, i reg­genti, gli eredi (o meglio l’erede mancato, il nipote Giovanni, morto a 33 anni), gli amici importanti e le alleanze strategiche. Nel li­bro di Colombati vita e leggenda del signore degli Agnelli si mescolano, al punto che il centro della sua esistenza sembra essere una frase che spesso i biografi gli hanno at­tribuito e che forse non ha mai pronuncia­to: «L’amore? È una cosa da cameriere».
«In realtà — spiega Colombati — Agnelli era un personaggio molto complesso, con un codice di comportamento che potrebbe essere semplicemente il frutto di un’educa­zione a non esternare nulla o, al contrario, la maschera di un uomo superficiale. Per questo mi interessava capire che cosa succede a un uomo che soltanto quando è troppo tardi si rende conto che ciò che rimane dopo di noi è l’amo­re che abbiamo dato a chi ci sta vicino». Per questo il rap­porto con il figlio risulta centra­le, mentre quello con la figlia che ha dominato le cronache di queste ultime settimane ri­mane completamente nell’om­bra.
«Il maschio era un ragazzo dolcissimo, sicuramente trop­po fragile per andare d’accor­do con un genitore per cui la migliore educazione possibile è quella della scuola militare — fa dire Colombati al «suo» Agnelli —. Con mia figlia inve­ce discutevamo spesso, forse perché ci somigliavamo mol­to». La relazione con il figlio è uno degli argomenti più poten­ti del libro, e si lega al rapporto con il giova­ne cameriere Giorgio, con cui Agnelli riesce, negli ultimi istanti della sua vita, a in­staurare una profonda intimità. «L’unico a capire veramente la brutalità della morte è lui — spiega Colombati — un semplice, un personaggio ricalcato sulla figura del servo de La morte di Ivan Ilijc di Tolstoj, che dal punto di vista formale è stato l’esempio a cui mi sono ispirato, insieme a L’autunno del patriarca di Gabriel García Márquez». È al cameriere e non al prete che lo confessa, che Agnelli affida il suo pentimento. La na­tura vuole che sia il padre a sacrificarsi per il figlio, gli dice. «È una lezione che purtrop­po ho imparato troppo tardi. E spero di mo­rire in fretta per non dovermene più ram­maricare».

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