[Già in occasione di uno speciale dedicato a Giulio Mozzi e al suo ultimo libro Sono l’ultimo a scendere (e altre storie credibili) ho segnalato Sul Romanzo, uno dei migliori blog letterari in circolazione sulla rete italiana. Il gestore del sito mi ha chiesto di rispondere alle domande della sua intervista standard (qualcosa che ricorda il questionario proustiano, ma fortemente declinato in senso personale e colloquiale: in pratica, un’occasione per guardarsi dentro e dietro e davanti). Eccone il testo. Non posso mancare di ringraziare l’intervistatore, Radames, soprattutto per la qualità delle cose che pubblica. gg]
Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinato alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.
Il primo libro che ho letto è stato Papillon di Charrière, a sei anni. Cinque giorni di immersione totale. Poi ho preso dallo scaffale della libreria dei miei Lovecraft (I mostri all’angolo della strada, un’antologia non propriamente filologica, curata da Fruttero e Lucentini). Poi, le poesie di Eugenio Montale. Da lì, non ho più smesso. C’è stato un appannamento quando ho iniziato a lavorare professionalmente a stretto contatto con la poesia mentre facevo l’università, a Milano (studiavo filosofia) – da un lato mi giungeva la nausea derivante dalla conoscenza personale dei poeti contemporanei, mentre dall’altro le bibliografie erano talmente sterminate (il primo esame, Filosofia antica, contava 42 libri da preparare) che non avevo tempo di leggere altro o, se tentavo di farlo, ero preda di abissali sensi di colpa perché non stavo studiando.
In mezzo c’è stato l’incontro, piuttosto precoce, con “Intrapresa” di Gianni Sassi, cooperativa che editava Alfabeta e La Gola, e che poi sarebbe arrivata a organizzare festival letterari leggendari, quali MilanoPoesia. Qui, l’incontro con il poeta Antonio Porta, che poi seguii in un corso di poesia, venendone seguito da lui a mia volta: lo considero, a tutt’oggi, il mio maestro letterario.
Dico tutto ciò perché, a mio parere e nella mia esperienza, la lettura è inscindibilmente legata alla struttura.
Quanto alla scrittura in sé (cioè alla creazione fisica di testi), l’incipit di tutto sono state le canzoni di Franco Battiato, che abitava a cento metri da casa mia, a Milano. L’era del Cinghiale Bianco e La voce del padrone mi hanno notevolmente impulsato, affascinandomi con parossitone che irradiavano atmosfere ben oltre l’esotico. La prima poesia, tuttavia, la scrissi dopo avere letto un episodio dei Fantastici Quattro: scioglievano il gruppo, ne rimasi colpito. Poi, avendo alle spalle Montale, tentai moltissime imitazioni di Felicità raggiunta, componimento appartenente a Ossi di seppia. Quando lessi, molto giovane, Zanzotto e Porta e il Gruppo 63, tentai imitazioni dai loro testi. All’incontro dei poeti Stefano Dal Bianco e Mario Benedetti (editi attualmente da Mondadori), che hanno giocato un ruolo fondamentale nella mia esistenza, mi convinsi a non scrivere più poesia. Su spinta di Ferruccio Parazzoli (scrittore ed editor mondadoriano), tentai la prosa. Tuttavia mi ero già esercitato prima: avevo steso, anni addietro, un’imitazione de L’autunno del patriarca di Gabriel García Marquez.
La centralità dell’impulso alla riflessione su quanto scrivevo in prosa e il moto decisivo a costruire in prosa, tuttavia, si devono alla critica e teorica e traduttrice letteraria Donata Feroldi (autrice per peQuod del fondamentale La chiave della porta rossa – Leggere Victor Hugo), che è un’altra persona fondamentale nella mia vita e senza la quale è probabile che non avrei scritto nulla, se non versi privi di rilevanza (non sto con ciò intendendo che i miei libri in prosa vantino qualche rilevanza).
Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?
Non so dirlo, perché le cose per me non stanno così. L’istinto creativo è la stessa cosa della razionalità consapevole, per me. E’ la mente, questa. E la mente solo a certi stadi ha a che fare con la scrittura. Quando la mente non parla, si dà la letteratura, perché parla qualcosa che è più vasto e naturale e interiore della mente per come attualmente la si intende. Non voglio con ciò richiamare alcuna teoria ispirazionista.
Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.
Anzitutto, Moravia non lavorava, mentre io sì. Non c’è ispirazione. Prima accadeva in me questo: c’erano frammenti visivi e ossessioni, mi muovevo immaginalmente verso scene o momenti, le parole emergevano a partire da un movimento scatenato dall’interno e al tempo stesso controllato dall’indole della lingua. Le immagini si presentavano nel buio della psiche, in posizione interna e occipitale. Adesso non è più così: è come se all’interno, nel buio della psiche, io mi voltassi di spalle, e le immagini non le vedessi più – le vedo direttamente quando si vanno scrivendo. Circa le storie, se sopravviene una determinata suggestione, mi informo e studio molto, non solo in archivi, ma anche con letture che mi interessano rispetto a determinate prospettive. Tali prospettive sono multiple, perciò accade che debba spesso leggere numerosi testi o, comunque, che non mi attivi impressionisticamente. Nella congiuntura attuale, avverto premere una forma a me per ora sconosciuta, in un silenzio mentale che unicamente è mio – so che si tratta di una forma molto diversa da quelle all’interno delle quali ho mosso la scrittura, ma attualmente devo lasciare che si depositi. E’ molto strano, per me, perché ho in mente almeno otto storie a cui lavorare, e in passato avrei cominciato a studiare e poi a scriverle. Evidentemente non mi interessa più, e profondamente, l’ossessione. E’ abbastanza angosciante, per me, stare in questa situazione, che però mi pare, come tutte le situazioni dolorose, magistrale a tutti gli effetti: imparo a stare.
Ciò nulla ha a che vedere con la scrittura ologrammatica di pura comunicazione, che spesso è il mio lavoro: in questo caso scrivo ogni giorno, e molto più e molto peggio di Moravia.
Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?
Del silenzio. Non ho nulla di pittoresco da raccontare intorno alle fasi di scrittura.
Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiato nel tempo tale relazione?
Assolutamente sì. Prima pensavo che esistesse il genio, da molto non lo penso più. Ciò depersonalizza (nel senso che include la persona dell’autore nell’opera) il rapporto che intrattengo con gli scrittori che avverto decisivi per me (non è detto che cerchi di inverarne la decisività scrivendo, tuttavia). Prima Dante, Celan o Eliot erano una sorta di feticcio memoriale, oggi sono per me l’opera e insieme la persona, indistinguibilmente. Non mi verrebbe mai di parlare della loro esistenza. Ciò è andato di pari passo con la percezione del testo, che incomincia a interessarmi sempre meno, a favore di una strana percezione di ciò che il testo stesso, nella sua totalità indistinta, irradia in me se lo leggo. Tale percezione mi induce stati di coscienza differenziati, ma in ogni caso privi di possibilità di definizione. Sono extraverbali e singolari, nel senso che pertengono me e non l’opera, per cui non mi permetterei mai di dire qualcosa di teoreticamente legato a questi stati, nel caso dovessi affrontare pubblicamente l’opera medesima.
L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?
Secondo me Bologna e Roma sono attualmente i centri più interessanti, in questa prospettiva. Frequento pochissimi scrittori viventi, voglio molto bene a molti. Teorizzo e pratico da più di un decennio la necessità di una rete dialogante tra intellettuali e artisti. Dal tempo delle BBS mi muovo in questo senso. Una delle ragioni di più intensa gratitudine risiede nella fiducia che mi ha concesso Valerio Evangelisti e, con lui, il gruppo tutto che edita quotidianamente http://www.carmillaonline.com.
Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?
Se intravvedo una traiettoria, il che mi pare abbastanza grottesco e però al momento è così, mi pare che la scrittura mi sia servita anzitutto come difesa psichica dall’aggressione del mondo e di me stesso, per poi concedermi la possibilità di praticare un àmbito della mia vita in cui posso osservare quanta fatica faccio ad avere rapporto con i miei desideri e a consumarne la carica.
La ringrazio e buona scrittura.
Sono io a ringraziarti.