Nel genetliaco di Igino Domanin: da “Spiaggia libera Marcello” e altro ancora

igino_domaninOggi è il compleanno di uno dei miei più cari amici, lo scrittore Igino Domanin (qui le sue pubblicazioni). Desidero festeggiarlo pubblicamente, riprendendo un brano dal suo romanzo Spiaggia libera Marcello (Rizzoli, 2008) e una recensione che scrissi per il quotidiano “Liberazione” ai tempi dell’uscita del suo libro di racconti Gli ultimi giorni di Lucio Battisti (peQuod, 2005).

* * *

Vestendo la rabbia di pace
da Spiaggia libera Marcello (Rizzoli, 2008)
di IGINO DOMANIN

spiaggia_libera_marcello_domanin“Caro Marcello, non è la prima volta che ci vediamo qui?”. Le labbra carnose. Viola acceso. Gonfie. Iniettate. Capaci di soffiare forte… Così mi giungono le sue parole. Cocenti. Come vento caldo che stordisce.
La musica cambia. Depeche Mode: Personal Jesus. Il barman ha tolto il loop della versione di Last tango in Paris che gli avevo chiesto. Non vuole disturbare la Cinquemani. La padrona di questo mondo.
“No è vero… E’ stato un po’ di tempo fa. Ero venuto qui ad aspettare Panzeri. Lei fumava un sigaro dall’altra parte del bancone. E’ vero?
La Cinquemani apre la giacca del tailleur e mi offre un sigaro havana.
“Un robusto, le piace?”
“Abitualmente non fumo sigari, ma ogni tanto gradisco…”. Deve aver notato che ho regalato un sigaro a Panzeri. A casa sua.
Nello stesso tempo, vedo che ha in mano la ghigliottina.
“Me lo porga, glielo taglio io…”. Un colpo secco. L’estremità adesso è monca. Posso aspirare. Forte. Mentre lei mi lascia accendere. La fiamma è alta. Sovrastante la fronte. Avvicinandomi sento il calore di questo piccolo e micidiale fuoco.
Tutto divampa. Ordiniamo un paio di Zombies. Grande cocktail. Nella sua versione pura. Tre tipi di rum diversi. Un velo di Demerara rum sulla cima. Settacinque gradi che galleggiano per pochi attimi sulla superficie come zucchero velenoso.
La Cinquemani sorseggia. Le gote sono colorate e vive. Evidenziate dal phard. Trucco pesante sulla pelle già scura dei raggi del sole che troneggia spesso tra queste montagne ignote. Una grande bambolona selvaggia. Il capello ricco, nutrito e boccoluto. La camicia sotto la giacca. Bianca  con generosa scopritura sui seni ancora monumentali. Enormi e zampillanti.
Rischio, per la clamorosa eccitazione, alla quale sono sollevato anche dall’ampia bevuta in corso, di farle un compimento.
“Lei ha una splendida forma…”. Frase del cazzo. Sulla quale, però, la femmina Cinquemani non si scompone. Non fa una piega. Appena dilata le labbra. Tutto è oro in questo momento. Tutto ciò che nel suo corpo è artificio o protesi diventa stimolo erotico. Anche se scoprissi che nel cavo della sua bocca è insediata una dentiera d’avorio. Mi farei mordere e masticare le carni.
“Qui teniamo al nostro corpo. La ragione per cui siamo venuti in questo luogo io e mio marito è la ricerca di uno spazio eletto, favorevole al benessere e alla ricerca della felicità. Un luogo di ozio e di contemplazione nel quale curarsi e rigenerarsi attraverso la scienza e la riflessione…”
“Come siete arrivati qui…”
“Abbiamo discusso a lungo su dove trovare il luogo… Ciò che ci ha convinto sono soprattutto le acque del lago, le loro vibrazioni, che avrà notato sono maggiori che nella normalità dei casi… Immergersi nell’acqua fredda è come un tonico formidabile. Inoltre i movimenti del lago emettono delle frequenze particolarmente adatte agli stati di coscienza contemplativi. Chi giace in atti di completo rilassamento deve poter contare su un paesaggio che tolleri e accompagni la concentrazione della propria mente…”
La Centomani mi appare come una donna di genio. La sua non è una semplice visione edonistica da beauty-farm. Mi conduce per mano dentro un universo morale che era per me sconosciuto. Le sue mani: le ricordo pesanti, grosse e calde.
“Abbiamo sofferto molto. Prima di venire qui. La vita accademica ci stava lentamente uccidendo. Nessun ideale scientifico. Eterne discussioni sui concorsi e sui loro meccanismi per favorire le carriere dei protetti. Mio marito aveva un ruolo molto importante, di primo piano, a livello federale, in queste faccende. Il ministero lo consultava spesso per costruire i testi di legge che riguardassero l’ordinamento della carriere. In compenso, di pari passo alle posizioni di potere, c’era un completo inaridimento delle prospettive scientifiche. L’appannarsi di qualsiasi idea di verità sostenibile…”
Questa frase avrei potuto pronunciarla io stesso. Ma non ero ancora così venuto in chiaro con le mie motivazioni intellettuali. Eppure il sentimento di soffocazione, la ripulsa emotiva, l’aggressività cinica erano tutti sintomi evidenti di come affrontavo ormai il mio rapporto col sapere. Ne ero fuggito con risentimento. Sono tutte cose che partivano brutalmente dal mio corpo, dalla sua incapacità di agire e di muoversi. Di mettere al centro la sua salute. Avevo smesso quasi di leggere libri. Occupandomi principalmente di sbarcare il lunario e fare un po’ di quattrini. Una risposta comportamentale come un evitamento o una schivata a un disturbo. Ma qual era la radice del disturbo? La Cinquemani era in grado di portarmi fino a quel punto, di proiettare la luce sul morbo? So che c’è la ferita, ma no so dov’è localizzata. Questo è il problema?
[…] “La vita sta degradando. Questa coscienza dolorosa ha strappato me e mio marito dalle nostre occupazioni scientifiche routinarie. Si è trattato innanzitutto di una conversione morale. Dobbiamo sapere come vivere. Altrimenti l’Uomo soccombe e sparisce… Dobbiamo ripartire dall’esame della sua natura. Per questo motivo abbiamo scelto di dare un ruolo centrale alle neuroscienze per trovare la chiave del funzionamento cerebrale e usarla come accesso ai misteri della mente. Dobbiamo liberare la mente, là dove si è annidata la malattia… Depressione, bulimia, psicosi ictus, panico, pancreatite, sclerosi, angoscia, astenia, … prima o poi l’anima e il corpo di nessuno sfugge alla cattura. La nostra mente è ostaggio dei Titani… Noi siamo in guerra per abbatterli… Stiamo fabbricando le armi e per questo dobbiamo sfuggire all’errore di Cartesio. Bisogna considerare il corpo e la mente come una cosa sola… Lei è un filosofo, deve darci una mano! Dobbiamo uscire fuori dalla caverna, al più presto, e combattere!”.
Non ero molto sicuro di me. Volevo dirle che la mia filosofia era, in realtà, un’arma spuntata. Nessuna filosofia guarisce i mali. Ma forse ero io che sbagliavo. La mia sfiducia razionale era il laccio con il quale mi stavo strozzando da molto tempo. Una lenta agonia. La stessa impotenza che stava stritolando il cervello di Annalisa. Cominciai a darle ragione.
“In effetti, bisognerebbe cominciare dal cambiare l’impostazione stessa dei problemi filosofici. Esaminarli alla luce dell’urgenza morale della vita contemporanea. Il problema della vita, infatti, non ha nulla a che vedere con le visioni spiritualiste e irrazionaliste dell’inizio del Ventesimo secolo. Riguarda la centralità della terapia e della cura come bisogno e risorsa per la sopravvivenza felice della specie…Dobbiamo usare la medicina come una strategia e un arma. Usare le nostre malattie e gli stati degenerativi come risorse per trovare equilibri diversi dalla culture del passato. Accettare questa metamorfosi è la prova morale suprema!”.
Parlo quasi con fervore. In realtà, non smetto di fissare negli occhi la Cinquemani. La sua completa approvazione è quasi un atto d’amore. La pietà si scioglie in un abbraccio di materno erotismo. Mi domina e io affondo nel mistero del suo potere. Mi lascio governare. Nuoto nella corrente del mio sperma. Per raggiungere l’origine. Mi accorgo che le sue mani sono posate sulle mie. Un leggero trauma. Il palmo della sua mano si appiccica sul dorso irsuto della mia. Si salda. Aderisce e s’incolla. La bava di lumaca attacca dappertutto. Cola adesso dalle nostre bocche.
Restiamo in un silenzio scabroso.
Aspetto che la Sfinge parli ed emetta la sentenza.
La Centomani è la padrona di questo mondo. Perciò non si fa attendere.
Mi offre la caramella.
“E’ mai stato in un motel?”.

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Manuale lisergico per le giovani generazioni
“Gli ultimi giorni di Lucio Battisti” di Iginio Domanin. Non é una raccolta di racconti, non è nemmeno un romanzo: è un trip esilarante e commovente
di GIUSEPPE GENNA
[da Liberazione, 13.5.2005]

53_gliultimigiorniDalla letteratura abbiamo imparato a desiderare una fantasia complessa, seducente, perversa a un grado talmente intenso da spazzare via ogni imbarazzo e ogni inibizione. Un esercizio fantastico che sia politico: un’atletica della libertà che ci dia non la comprensione diretta, bensì le chiavi della comprensione stessa, che sapremo usare con smodata malizia e fervido trasporto.
Quando ci troviamo davanti a testi che permettono una simile trance realistica, che ci fanno scorgere gli inediti legami tra i fatti, i nomi, le persone, allora ci troviamo di fronte a libri importanti, se non decisivi. Gli ultimi giorni di Lucio Battisti di Iginio Domanin è uno di questi libri. Non è una raccolta di racconti, non è nemmeno un romanzo: è un trip, un accumulo lisergico, esilarante e commovente, di spazi curvi multidimensionali e dilatazioni del tempo.
Per comodità diciamo che sono super-racconti, quelli che Domanin comprime nelle pagine di questo formidabile manuale a uso delle giovani e meno giovani generazioni. Qui dentro c’è tutto: c’è Ugo La Malfa a braccetto con Brooke Shields, Ovidio Lefreve e lo scandalo Lockeed accanto al cardinale Lefreve e alla restaurazione del messale latino, l’esoterismo alchemico degli esperti di cocktail insieme a Sache Distel e Claude François, la centrale politica dell’infame Sid e la febbre da stock option ai tempi della bolla speculativa legete al Web, ci sono l’Ostpolitik e il pleistocene, il mal d’Africa ed Enrico Mattei.
Attenzione: Gli ultimi giorni di Lucio Battisti non è un minestrone pop, né un esercizio di snobismo da scrittore giovanilista: “Aperitivo con Pornocrate”, “Androginia sovietica”, “Dolce Vita per ominidi”, addensate a una pressione sconvolgente, queste sono storie, e per di più storie che intendono strappare con violenza i cieli del fantastico. Prendiamo “Androginia sovietica”e incontriamo una prosa al fulmicotone:

“Al mio tavolo è seduta Helena. Ci siamo conosciuti in Unione Sovietica. Quest’inverno. C’era il vento gelido. La neve stesa come un tappeto sulla Piazza rossa. La cioccolata calda del Café Puskin. Helena era la mia guida. Fingevo di essere un turista. Alloggiavo all’Hotel Cosmos. Un albergo con un numero infinito di stanze. L’era spaziale e gli eroi dell’Universo. Il volto candido di Gagarin visibile dappertutto. Su etichette, tovaglie, accendini. Soprattutto c’erano molte scale mobili. Un’atmosfera che mi ricordava l’Atomium di Bruxelles, dove viaggiavo a zonzo per le particelle subatomiche di cemento armato dell’architettura del Palazzo dell’Esposizione. La hall dell’albergo Cosmos rappresentava una remota stazione orbitale”.

Siamo in piena Guerra Fredda e una spia francese (nizzarda, per la precisione) ha una missione di sedurre e fare fuggire Oltrecortina una prodigiosa pubere matematica, che ha elaborato formule capaci di sccelerare la produzione di ordigni di avanguardie e di perfetti piani quinquennali. Lo scontro tra Occidente e Socialismo Realista ascende qui a una dimensione metafisica, non esente da atmosfere yé-yé e spy-story lounge, culminando in un memorabile rogo delle formule all’interno di uno chalet in cui si sono consumate sedute erotiche devastanti tra l’androginia adolescente e il consumato agente segreto.
Questo libro è una bolla spaziotemporale popolata di fantasmi riconoscibili perché li vediamo agire nella realtà di ogni giorno, oppure perché li abbiamo già visti in azione in un tempo non abbastanza remoto da essere obliato e non troppo prossimo da essere ricordato con precisione.
Così, attraverso una paratassi furibonda e dialoghi che avrebbero fatto la felicità di Burroughs, Domanin ci proietta all’intersezione di una memoria del passato, del presente e del futuro, spostandoci progressivamente in un altro tipo di memoria, ben più rischiosa e conturbante: una memoria che varca ogni tempo, come se noi fossimo in grado di ricordare quando l’uomo era un rettile strisciante o un organismo monocellulare o un primate incapace di ergersi. Valga l’incipit del libro:

“I nostri padri, peggiori di nostri avi, ci generarono ancora più cattivi, e noi daremo vita a una prole ancora peggiore. Passo il tempo come un uomo di Neanderthal, un barbaro inopinatamente emerso, un invasore senza patria”.

Questo smottamento fantastico è un miracolo che la letteratura ha sempre compiuto. Le percezioni disumane a cui ci si espone Pynchon trascinandosi in una Londra ucronica sotto le V2 naziste, oppure la visione del volto soprannaturale sul muro di periferia che in Underworld di DeLillo scatenano l’isteria di massa, o la sagoma chiomata del JFK di Ellroy – è questa la sostanza di cui sono fatti i nostri sogni e i nostri mondi quotidiani. Lo scialo, il lusso, le devastazioni dell’empietà, le derive scioccanti dell’invenzione più sfrenata, le libidini censurabili dei criminali con l’eterno salvacondotto, ma anche i processi giganteschi di crollo e restaurazione di ciclopici apparati economici e politici, la tenerezza dell’infanzia perduta e continuamente recuperata, la dolcezza dello svenimento e della morte, la pinguetudine della malizia e il mito della futuribilità: sono soltanto alcuni dei componenti del caleidoscopio barocco e neorealista che Domanin compone, arabescando senza freni le rozzezze del mondo con la sua prosa fantastica e iridescente.
Sono grandi anni per la narrazione italiana. Sta giungendo a maturazione la svolta che, dal ’95, ha rivoluzionato il nostro romanzo. Tra i protagonisti di questa narrativa che ha già mutato lo status quo – e che elegge a proprio riferimento Petrolio di Pasolini o La vita interiore di Moravia più che i manuali di Manganelli e le cautele di Calvino – c’è sicuramente Iginio Domanin con i suoi beluini e primordiali viaggi nel tempospazio.

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