MEDIUM – 1. RITROVAMENTO – seconda parte

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Telefono all’ambulanza mentre Gisella urla come una scimmia di dolore e rimbalza da una parete all’altra e corre a guardarlo, lì immobile con le piante dei piedi spaventosamente blu, e poi corre fuori, è oltre il pianto, è l’ultrasuono del pianto, si muove a scatti Gisella, scatti primari e ancestrali che non controlla, come una scimmia, il portinaio spaventatissimo è sulla soglia della cucina, di colpo tutte le luci della casa sono accese, ha paura e io gli affido mia sorella, mentre torno a controllare il cadavere. Di cui dovrei avere paura e non ne ho. Mi curvo verso la sua faccia, non lo tocco, quel gomito alzato a novanta gradi è raccapricciante, povero papà che sei morto da solo. La luce è fioca, è sporca, e io penso al Libro tibetano dei morti e a quello che ho letto sulle esperienze di coma o prossime alla morte: l’anima va in alto, nell’angolo a nord ovest rispetto alla testa, e allora guardo quell’angolo, l’incrocio delle tre pareti, la calce levigata male, e sorrido e con l’indice sulle labbra chiuse indico al vuoto di fare silenzio, ché tutto va bene.


E’ raccapricciante. E’ il rigor mortis, non ci si è abituati. Mi chiedo se la guancia che preme sul parquet è gonfia e nera per il depositarsi dei liquidi colliquativi.
E arrivano quelli della guardia medica, sembrano pompieri, le tute arancioni, Gisella piange e piange sempre più flebile, si muove arcaica tra i corpi eretti, vedono e constatano e hanno pudore di dirmi che è in rigor mortis, che è morto da un giorno. Come se avessimo qualche colpa, come se l’avessimo trascurato. Questi i corollari, le induzioni, le estraneità.
Mi fanno uscire dalla stanza e poi rientrare ed è sul letto, supino. La faccia è rilassata, le guance sono normali, sembra che dorma, a parte quel blu, quel neromarrone degli arti terminali, e il braccio col pugno chiuso piegato a novanta gradi, che adesso è verticale nel letto. E’ paradossale, sta compiendo un gesto, sembra che compia un gesto ed è un cadavere. Chiedo al responsabile della guardia medica se possono per favore abbassare quel braccio, è terribile, sembra indicare il soffitto, sembra un saluto comunista venuto male, è terribile, esprime un’intenzionalità compressa, cristallizzata, il suo ultimo gesto sarebbe questo? Ma l’uomo del pronto soccorso mi dice che non sono abilitati a farlo, mi dice che è in rigor mortis, dovrebbero mettersi in quattro a riportare giù il braccio, spezzandogli l’osso. C’è una tecnica, se ne occuperà l’addetto delle pompe funebri. Nemmeno lo portano in obitorio, come mi aspettavo. Gisella schizza da una parete all’altra con stridii disumani. Mi dicono che devo chiamare d’urgenza le pompe funebri, altrimenti passa qui tutta la notte, il cadavere. E se rimane qui, dobbiamo spalancare le finestre, perché comincerà a emanare il puzzo dolciastro, di biscotto e ananasso andato a male, e se ne vanno.
L’uomo delle pompe funebri è un meridionale con il sembiante rassegnato alla saggezza che deriva dalla contemplazione continua della fine. E’ molto gentile. Mi colpisce la sua capigliatura compatta, grigia. Gli occhi sono due fessure strette, pressate da rughe che ispirano conforto. Quest’uomo sa come comportarsi. Mia sorella inizia a crollare, il pianto è sempre più debole, i singhiozzi si distanziano, mio padre è steso sotto un telo di tessuto di carta lasciato da quelli della guardia medica, sembra una tenda indiana per via del braccio sollevato, è terribile, non voglio sollevare il telo.
Mi siedo nella sala antistante quella da letto di mio padre: il salotto della mia infanzia. Mi siedo al tavolo dove studiavo, insieme all’addetto delle pompe funebri, che nel frattempo è riuscito a reperire un infermiere disponibile a venire per comporre la salma di mio padre, per abbassare quel braccio livido e granitico, stretto il pugno verso l’alto.
O papà, caro papà…
Mi dice, l’uomo delle pompe funebri, che bisogna chiamare un medico per la constatazione del decesso, altrimenti non possono trasportare il cadavere in obitorio e rimarrà qui finché non arriva un medico, si raccomanda, nel caso, di spalancare le finestre, ed è chiaro che resterò io nell’evenienza. Una notte intera con un cadavere, ed è il cadavere di mio padre. Mi rammento di colpo di un ingegnere tedesco che ha trascorso, chiuso solo dentro la piramide di Giza, tutta una notte, solo, per compiere un’operazione con un robottino semovente credendo che ci fosse una stanza non scoperta dietro una parete: non c’era niente. Una notte intera, il tedesco, dentro la tomba sacra, l’aeronave dei Faraoni.
L’uomo delle pompe funebri sottolinea che è il primo di gennaio, sarà difficile trovare un medico disposto a uscire a quest’ora, a constatare il decesso. Lui ha una lista di medici compiacenti, escono anche se non devono, costa cento euro l’uscita e io annuisco, non me ne frega niente di quanto costa, portàtelo in obitorio, gelàtelo, criogenizzàtelo, mantenetelo così, abbassategli il braccio e rilasciategli il pugno, quel segnale di dolore e impotenza, il suo ultimo gesto congelato nel rigor mortis.
Il medico non si trova. Nel giorno che dà inizio al duemilasei nessun dottore è disposto a venire qui a scrivere che il mio papà è morto.
Mi dò da fare. Chiamo molti amici medici. Sono tutti fuori Milano. Alla fine, l’unica che rimane è la dottoressa da non chiamare: quella che fa parte dello staff che mi segue in una terapia neopsichiatrica. I danni causati da una precoce traumatologia familiare, che devo sciogliere senza usare le parole, muovendomi. Movement therapy. La chiamo, le spiego l’urgenza, viene.
Quando arriva, si guarda attorno cauta. Mi conosce da anni, osserva con sospetto la scena primaria dove è cresciuto questo suo paziente, i mobili funebri, i quadri cupi e sospetti, il buio ovunque, che io ho tradotto in manifestazioni devastanti di psicosomatosi: vomiti ininterrotti, emicranie intollerabili, parainfluenze infinite, orticarie perenni. Il nemico è qui, è l’amico, è paterno, ultrasottile come un corpo etereo. Penso a mio padre, che secondo le tradizioni è proprio in questo istante un attonito corpo etereo, che non crede di essere morto e urla per essere ascoltato, ma noi non l’ascoltiamo. Niente di differente rispetto alla vita ordinaria che abbiamo condotto insieme, papà?
La dottoressa mi fa uscire dalla stanza, dice: “Non è un bello spettacolo da vedere”.
Quando esce, insieme all’addetto delle pompe funebri, stende la miriade non credibile di documenti da firmare, attestati, testimonianze, diagnosi. La diagnosi è I.M.A., cioè ‘infarto miocardico acuto’. La dottoressa sbaglia la data di morte e nessuno se ne accorge e per sempre risulterà che mio padre è morto il primo gennaio duemilasei, il giorno che ho chiuso il Dies Irae, e non il giorno prima.
Accompagno la dottoressa per le scale, tutto è aperto, scende, mi abbraccia. Mi abbraccia. Le chiedo quanto spazio di coscienza per avvertire la sofferenza ha trascorso. “Tra i quindici e i venti secondi. Mi creda, Giuseppe. Rispetto al tumore: è meglio così”.
E’ meglio così. Vederti consumare, la pelle gialla come cartapecora da vergare quasi fossimo antichi romani o scribi templari egizi, l’occhio bovino irrorato dai capillari che portano sangue marcio, il naso che collassa di giorno in giorno su se stesso, le tue braccia scheletriche su cui si allargano i lividi ovoidali delle flebo di glucosio perché non sei più in grado di mangiare, la forza di un uccellino abbandonato nella denutrizione, le parole incomprensibili sussurrate con la pasta cattiva dell’alito denso, il sudore innaturale gelido da detergerti in volto, la penosa richiesta avanzata allo stremo delle forze alzando a pena la terribile mano ossuta gialla e il bicchiere con la cannuccia da infilarti tra le labbra screpolate e rotte, le piaghe da decubito con i lembi che bruciano e la carne viva, rivoltare il tuo corpicino sul medesimo letto che ti tormenta e il camice ospedaliero aperto sulla schiena, sulle natiche smagrite e flosce, e la parola che non varca le barriere del suono e la pupilla che si svuota e le palpebre che si serrano, le labbra che si serrano, l’irrigidimento mentre ancora vivi, il coma, le poche ore di attesa, attendere che tu muoia disfatto, un’immagine ultima da conservare, contro cui lottare opponendo ricordi sbiaditi del passato che vivemmo, morto anch’esso adesso…
Quanta dignità, papà, quei quindici o venti secondi in cui la fitta ti ha sollevato il braccio e stretto il pugno, fatto scivolare orizzontale, addormentato, irrigidito così.
Arrivano i parenti, i cugini, suo fratello, la cognata molto anziana. Arriva anche l’infermiere convocato dall’uomo delle pompe funebri, un omosessuale con i capelli crespi disordinati, magro come il collo di un’oca, pallido fino alla cianosi, molto calmo e silenzioso, chiude le ante della porta a vetro smerigliato, dopo che mia sorella e mia zia hanno scelto con quali abiti vestirlo. Dargli l’ultima forma.
Io in salotto cerco il testamento, non è possibile che non ci sia testamento. Dopo tre tumori, due operazioni, chemioterapie pesantissime, come poteva non fare testamento? Cerco il testamento perché dobbiamo decidere, io e mia sorella Gisella, cosa dire all’uomo delle pompe funebri, se cremazione o normale sepoltura. In salotto, la libreria stipata di cassetti, stipati di ogni genere di cartelline in cartone, stipate di documentazione di ogni tipo, bollette pagate risalenti all’84: il suo ordine prussiano sconfinava ben al di là della psicopatologia.
Sarà cremato.
Non abbiamo reperito volontà scritte, in proposito.
Scelgo la bara che costa millecinquecento euro, una bara studiata per la cremazione, vedo il catalogo plastificato, l’uomo delle pompe funebri è intento a stilare una lista di voci componendo la corrispettiva cifra totale.
Il funerale in chiesa non si tiene, è ovvio. Non credeva. Non ha battezzato i suoi figli.
Mentre l’uomo delle pompe funebri annota il tipo di corona, che fiori, quanti paramenti, io osservo i libri della sua cultura, della sua formazione: cultura fatta materia, da lì proveniva la sua cultura classica, quella romantica tedesca, la sezione dei libri di Brecht, la disarmonica sfilza dei libri di Pavese che nasconde una seconda fila, tutto intatto sino da quando ero piccino e rubai Papillon di Charrière, e vedo il primo libro che avevo letto, ecco la farfalla di Papillon, Papi per gli amici.
Papi.
Quando l’infermiere ha terminato il suo lavoro, mi isolo nella stanza di mio padre e chiudo le porte ed eccolo disteso, il braccio è stato delicatamente abbassato, è rigido, lievemente sollevato di qualche millimetro dal letto, ma è orizzontale e la mano è meno contratta. L’uomo femmineo ha utilizzato una tecnica che esiste e resta a me sconosciuta.
Ti guardo, papà.
Sei tu e non sei tu.
Fisicamente sei tu, ma non ci sei. La tua giacca buona, la tua camicia, i pantaloni chiari. Sembri addormentato. Le scarpe non vanno infilate al cadavere. Non fosse per il blu neromarrone delle tue mani illividite dal rigor, staresti dormendo.
Vengo: più vicino, un passo più vicino a te, o Arcadia.
Il tuo volto sereno, dignitoso.
L’aria nella stanza è leggera, primaverile, come è possibile?
Ti tocco la fronte.
Fallo: toccalo. Congèdati vincendo l’ultima paura, spaccando la barriera come lui ha spezzato il cuore andandosene. Poso il palmo aperto sulla tua fronte, mi attendo la pelle callosa. A sorpresa invece è la tua pelle, è morbida, riconosco la grana percepita nei baci che ti davo, nei rari abbracci, nelle iniezioni ipodermiche con cui ti foravo e stantuffavo, o quando ti appoggiavi a me subito dopo la terapia, fuoriusciti dal day hospital del Policlinico, investìti di luce e di afa, e tremavi e non ti reggevi in piedi e mi davi il braccio.
La pelle della fronte è immensamente fredda. E’ frigorifera.
Non c’è nulla di sovrannaturale.
Non so dove sei. Vorrei sapere se sei, se è residuale una tua forma che esula dallo spettro delle mie percezioni, io ci credo, ma la realtà è che non percepisco niente e non so niente.
Papà.
I parenti se ne vanno e c’è un problema. Me lo riferisce l’uomo delle pompe funebri: “Proprio da oggi, primo gennaio duemilasei, entra in vigore una nuova legislazione in materia”.
“Che materia?”
“Per i decessi tra le mura domestiche. La salma deve essere esaminata da un medico che ha nuove funzioni ed è detto ‘medico necroscopo’. Senza il suo assenso, l’obitorio non può accettare il cadavere e dovete tenerlo qui un’altra notte”.
La seconda. Osservare l’inizio della marcescenza. Una meditazione buddhista prevede che l’aspirante si chiuda in una grotta con un cadavere e per mesi lo contempli nella dissoluzione disgustosa delle carni.
Dico: “Chiami il medico necroscopo, allora”.
Lui dice: “Non se ne trovano”.
Le ore trascorrono mentre cerchiamo un medico necroscopo, contattando funzionari delle ASL che non sanno nulla di questa figura nuova. Il governo Berlusconi mi consegna questo cappio.
Gisella mia sorella, gli occhi lucidi, ha trovato due piccole foto, una che ritrae me e l’altra lei, e ha scovato l’ultima tessera di iscrizione al Partito Comunista, un tesserino plastificato che tiene sottovuoto una minima medaglia d’oro sottile con l’effigie di Enrico Berlinguer. Vedo mia sorella Gisella infilare le due foto e la tessera nella tasca interna della giacca di mio papà che non è più e non sarà più mio papà.
Entro nella stanza che fu la nostra dell’infanzia, apro l’armadio, cerco sul fondo, e ritrovo intatte le edizioni de l’Unità dei giorni dell’agonia di Enrico Berlinguer. Il 1984, l’ictus a Padova, improvviso, nel corso del comizio elettorale per le europee, giorni di coma stabile fino alla morte, perfino Almirante il fascista si recò in clinica e poi ai funerali, e Guttuso riaggiornò il suo dipinto I funerali di Togliatti sostituendo il vecchio segretario con Berlinguer, e il poster del dipinto stava per anni sulla parete accanto al mio letto.
L’ultima edizione, straordinaria, il titolo a caratteri enormi, semplicemente: E’ MORTO.
Se sono seduto in cucina con Gisella mia sorella, mi attendo che appaia provenendo dalla sua camera, livido, irrigidito, Lazzaro la cui resurrezione è andata male, e ci osserva muto.
Abbiamo paura a stare qui.
Perché?
In bagno, mi lavo la faccia, mentre ascolto le imprecazioni e le preghiere a telefono dell’uomo delle pompe funebri per l’affare del medico necroscopo. Mi sollevo con la faccia bagnata verso lo specchio, per un attimo ho il terrore di vederlo in piedi, violaceo, irrigidito, immobile, che mi guarda fisso.
Mi asciugo nella sua spugna, avverto acuto l’odore del suo corpo quando era vivo.
Il suo capo è a venti centimetri da me, la sua nuca che ha perduto i capelli per la chemio, in mezzo c’è il muro in gesso.
Ho chiamato Federica. Si è messa a piangere quasi urlando, affannata, piangeva, in preda all’ansia.
Gisella fa la spola tra la cucina e la stanza dove è steso il cadavere vestito bene del nostro papà e piange.
Tre mesi fa era squillato il mio cellulare. Era lui. La voce impastata, aveva bevuto moltissimo. Una voce cupa, piagata dalla depressione. Nemmeno mi aveva salutato, mi aveva detto: “Sono al pronto soccorso, Giuseppe”. La pronuncia del mio nome era rara, significava qualcosa; in questo caso, una dimostrazione esplicita di quanto stesse male. “Sono caduto, davanti a casa”. Da quanto era ubriaco, era caduto. Tornava a casa con un sacchetto in cellophane, conteneva una bottiglia di birra, a tardo pomeriggio, era caduto davanti al portone di casa, la bottiglia si era rotta e lui si era tagliato la mano e il braccio e per caso passavano di lì due City Angels, un’associazione paracattolica di zelanti volontari del bene, che avevano chiamato l’ambulanza. Al pronto soccorso avevano riscontrato il grado di alterazione. Dal suo enorme dossier in possesso del database del Policlinico era emerso il tentativo di suicidio, il coma etilico, le molte cadute per ubriachezza (cadendo sul marciapiede, la testa in avanti, una volta, aveva perso un incisivo ed era svenuto), e l’avevano trattenuto.
Solo qualche giorno prima, radendosi, ubriaco, si era procurato un taglio al labbro superiore che avrebbe necessitato almeno di quattro punti, ma non si era presentato in ospedale.
Qualche giorno dopo, ubriaco, aveva calcolato male la distanza dalla porta in ferro battuto dell’ascensore, che si apriva, e aveva ricevuto una botta impressionante al ginocchio, e aveva zoppicato per una settimana.
Si stava slacciando. Stava slacciando il corpo.
Il medico necroscopo è stato finalmente rintracciato. E’ quasi mezzanotte, l’ora acuta. Attendiamo.
Nella stanza, di nuovo, di fronte a questa statua, a questa larva pronta a slacciarsi, la cui degenerazione interromperemo bruciando la carne, le ossa. Davvero avrebbe voluto la cremazione?
Tutta la storia tra me e lui è di colpo ripulita. Non ricordo più nulla e quanto è accaduto confluisce ora in una sensazione di dolce tenerezza, all’altezza del mio sterno.
Ci siamo perdonati tutto, tutti.
Non esiste trauma.
Sono sconcertato.
E’ tutto ripulito quanto abbiamo vissuto insieme.
C’era un vetro tra noi, si è rotto, e ora non c’è separazione.
Sei un ovulo luminoso che osservo nel mio intimo, che è buio, e sei all’altezza dello sterno, pura dolcezza, una dolcezza in parte triste e in parte beatificante.
Sei l’uomo quintessenziato. Sei colui che. Non esiste fantasma. La tua fronte è fredda, la tua presenza è calda e prescinde da questo contenitore di grasso e pelle e legno d’ossa, che non sei tu.
Sei.
All’una di notte squilla il citofono, vedo nel piccolo monitor in bianco e nero un barelliere vestito come un pompiere, uno come quelli di guardia seconda e non vedo il medico necroscopo, ma sento una voce femminile affettata, afflitta e raffreddata che dice al citofono: “Sono il medico necroscopo”.
Quando entra dalla tremenda porta sfondata, comprendo perché non l’ho vista sul monitor: è affetta da nanismo. Parla con la cadenza di certi preti o fedeli particolarmente bigotti, una cadenza focolarina, insinuante e dittatoriale: “Spenga quella sigaretta” mi dice, “sono raffreddata e non tollero il fumo”.
Chiunque, io, mia sorella Gisella, l’uomo delle pompe funebri, l’amico di mia sorella che è nel frattempo arrivato per starle accanto, siamo terrorizzati. E’ chiaro che questa dottoressa necroscopa, nana, è cattiva, nonostante l’accento apostolico. E’ nana con la fronte alta, uno di quei nani che si somigliano tutti, quei nani operosi che girano in moto e lavorano e vanno in banca superando, come se nulla fosse, la loro condizione di evidente e innegabile menomazione fisica.
Ci sediamo in cucina. Io e lei di fronte, al tavolo bianco. Il suo infermiere, l’uomo delle pompe funebri, l’amico di mia sorella e Gisella assistono. Se questa nana necroscopa non dà l’assenso, dobbiamo tenere il cadavere di mio padre tutta la notte qui, stare con il cadavere.
“E’ improbabile che io dia l’assenso a portare una salma in obitorio. Non è la prassi. Lo tenete in casa” dice la nana necroscopa. “Comunque devo vedere la salma, in che condizioni è. Devo stabilire che è morto di morte naturale e non lo ha ucciso Lei, si fa per dire” e mi indica, mentre si soffia il naso. Ha l’influenza e, con mio padre morto a quattro metri in linea d’aria da me, io temo di contrarre il contagio dell’influenza da questa nana.
“Devo fare alcune domande” dice la nana. Perché? Cosa significa domandare di un morto?
Le domande non sono di rito. Non sono anagrafiche. Non concernono le patologie di cui soffriva mio padre. Intendono comporre un ritratto esistenziale dell’appena scomparso Vito Antonio Genna. Sediamo, io e la nana, al tavolo in cucina, uno di fronte all’altro. Gisella e gli altri, attaccati con le spalle alle pareti, sono allibiti.
Io, no.
Io sono lo scrittore Giuseppe Genna. Io sono quello che, in un frangente simile, prende il timone e dirotta la nave verso le spiagge a cui mira. Io dico: “Era un uomo molto solo, sa? Un uomo cresciuto nell’ateismo che ha odiato per tutta la vita questa educazione materialista che gli sbarrava le porte di una grazia ricercata con pervicacia, con penosa sofferenza interiore”.
Vedo la nana cattolica vacillare. Lo sguardo le si fa incerto ed empatico.
Continuo: “Un rodimento spirituale che è andato crescendogli come un tumore dall’interno. Che si è ingigantito in occasione del divorzio, che è stato costretto a subire”. Invento, inverto le cronologie. “Dopo il divorzio, sa?, ha tentato il suicidio. Sullo stesso letto in cui si trova ora la sua salma. Una vita macerata nella pena spirituale e nell’alcol. Per vincere questo vizio, aveva trovato appoggio in un sacerdote, un uomo estremamente pietoso, umano. E’ a lui che mio padre domandava l’inutile interrogativo del perché i tumori lo colpissero a ripetizione. Tre in cinque anni. Terapie estremamente pesanti, subìte in solitudine, nonostante io e mia sorella lo accompagnassimo a ogni visita, a ogni appuntamento, a ogni day hospital. Il suo sguardo, riottoso verso se stesso, era sperduto in quegli ambienti, dove ha creduto fino all’ultimo di ravvisare un segno di grazia, una presenza superiore che desse un senso a questo calvario insopportabile. Solo, sempre solo. Al di fuori di mia madre, a distanza di vent’anni dal divorzio, nessuna donna. E’ per questo che io e mia sorella desidereremmo che non stesse qui, abbandonato, una notte di più, ancora solo, dopo essere morto in solitudine. Osserverà lo stato della salma, la prego di scrutare l’espressione quasi interrogativa del suo volto, un’espressione quasi stupita, come se avesse ricevuto la rivelazione di quella grazia superiore all’ultimo, la grazia che aveva così tenacemente ricercato in vita”.
Lo scrittore è un mistificatore a fin di bene, se non imprime i caratteri sulla pagina. Lo scrittore è all’avanguardia della specie, dispone le scapole perché la specie lo pugnali alle spalle.
La nana necroscopa ciellina è mortificata. E’ prossima al pianto, poiché ho utilizzato un tono vocale in calando. Mio padre è morto e io dò vita a una performance.
La nana annuisce. Fa un cenno col capo enorme all’infermiere di scorta, si avventura verso la stanza della salma.
Mia sorella, il suo amico, l’uomo delle pompe funebri: mi guardano come si osserva un animale esotico. Incrociano le dita.
Quando la nana necroscopa torna dalla stanza, dice: “E’ in avanzato stato. Bisogna portarlo in obitorio”.
La letteratura sortisce di questi risultati.
Un’ora e mezzo ad attendere che si presentino di operatori obitoriali.
Tempo per osservare che davvero il cadavere di mio padre esprime una sorpresa serena, compiaciuta, distesa. C’è una beanza nel suo non esserci. Chissà se una grazia superiore, non cattolica…
Il citofono, nuovamente. Nel monitor, questa volta, colossi da realismo socialista. Vestiti di nero. Sono quelli dell’obitorio.
Si presentano in cinque. E’ un gigante albanese (come si induce dal badge nominale che tiene affisso al bavero della giacca) che coordina le operazioni. Sembrano una squadra della Stasi. Il gigante albanese mi fa le condoglianze, è estremamente gentile, così come dovevano esserlo gli ufficiali di complemento della Stasi all’estero. Mi chiede di uscire dalla stanza. Gli chiedo dove sia la barella.
Nessuna barella. Lo infilano in una body bag, nera, di goretex, gigantesca.
Io e mia sorella Gisella li vediamo sfilare, affannati, mentre reggono orizzontale l’enorme borsa nera di goretex, al cui interno è ciò che resta di mio padre.
Si congeda l’uomo delle pompe funebri, che mi chiamerà l’indomani. Il giorno dopo, il funerale. Due giorni dopo il funerale, la cremazione.
La fattura è di migliaia di euro, c’è uno sconto se dichiariamo una cifra inferiore.
La casa, nera, è vuota.
Nessuno la abiterà più di noi.
Sono cresciuto qui, ho abbandonato questo, chiunque abbandona ora questo.
Il corridoio buio dove temevo l’assalto di spettri da bambino.
I quadri dipinti dagli amici teosofi, compagni di sezione del PCI, di mio padre: visioni cupe che hanno reso intollerabile l’infanzia a me e mia sorella.
Prima di uscire per sempre, per ora, dalla casa tremenda, io e mia sorella Gisella diamo uno sguardo al corridoio buio, dove è appena trapassato in una borsa in goretex il corpo senza vita di nostro padre.
Sto per tentare di ricomporre nei cardini la porta interna sfondata, e squilla il telefono.
Io e mia sorella ci guardiamo, interrogativi.
Sono quasi le tre di notte.
E’un parente?
Quello delle pompe funebri?
Accendo la luce del corridoio, Gisella resta sulla soglia, avanzo verso il vecchio telefono Sip di plastica grigia, a disco, alzo la cornetta.
“Pronto…”
“Dunque è morto…” dice dall’altro capo una voce maschile, pastosa, lontana, disturbata. Non italiana: c’è un indefinibile accento straniero, lieve ma sensibile.
“Chi è?”
“E’ morto. Aveva previsto tutto. Il giorno. L’ora. Che sareste arrivati un giorno dopo”.
Sto rabbrividendo. “Chi è? Chi è che parla?” sto urlando, e mia sorella avanza nel corridoio, il volto spaventato.
“E’ a te che bisogna dirle le cose, non a tua sorella. Perché sei tu che ti farai prendere dalle tentazioni. Lo aveva previsto. Aveva detto: non riuscirete a frenarlo”.
“Ma cosa sta dicendo? Cosa dice? Per favore… Chi parla?”
“Non farti prendere dalle tentazioni. E’ meglio per te. E’ meglio per noi. Scartale. Nessuna tentazione. Nei prossimi giorni, lascia perdere le tentazioni. C’è di mezzo molto male. Risparmia a te il male. Hai fatto male, risparmia a te il male. Quando si presentano le tentazioni, non seguirle. Lo aveva previsto. Con così tanto anticipo. Penetrava”.
Sto in silenzio. Attendo che parli. Non parla. Con voce esausta, esasperata chiedo: “Chi parla?”
“Noi. Siamo noi. Saremo sempre noi”.
“’Noi’ chi?”
“Noi”. E chiudono la chiamata.
mediumicoaudio.gif Lascio Gisella con il suo amico. Ho cercato di non spaventarla. La città non è buia, il cielo irradia chiarori torbidi. Le ho detto: un amico del papà, un vecchietto, non si capiva niente, un amico della zia, voleva sapere se era vero che era morto il papà. Piange, mia sorella. Sale sull’auto del suo amico. Li vedo lentamente accelerare nella via Greppi della mia infanzia.
Mi volto, spalle al portone da cui per più di trent’anni è entrata e uscita la persona, compressa in una capsula di solitudine, che era mio padre. Il portone della mia infanzia. Il portone varcato tante volte, prima dei tumori, per vedere insieme le partite di cui mi sono scordato.
Mi scordo tutto.
Accedo a un dolce niente. Dolcissimo niente, dimentico di sé.
Sulla destra: gli alberi oscuri di piazza Martini, i giardini che vedeva ogni giorno, che lambiva con il passo tremulo dei chemioterapici. I giardini dove crebbi, giocai a pallone, iniziai ad aspettare mio padre le domeniche, ogni domenica a pranzo insieme, a scrutare i danni collaterali della sua pena inconfessata, cioè l’amore deleterio, selvatico, incattivito. L’amore in cattività.
Attraverso la piazza.
Nel prato dove giocavamo bambini a pallone.
La casa rosa di mio padre, che fu di mio padre, è alle spalle, è l’avanguardia della specie, perché è morto.
Sorge al centro del prato, su una colonna di metallo alta più di dieci metri, un faro a forma di disco volante, che illumina con fasci arancioni mezza piazza.
Sono qui.
Avverto la presenza.
Il cielo è l’enorme volto tumefatto di mio padre morto, le fosse nere dei suoi occhi decomposti osservano sul pianeta me, ritto nel prato, e urlo.
Come una scimmia urlo, nella notte, cieco, come un primate, scaglierei un osso nell’aria buia, urlo, tutto il dolore che non c’è, la storia sciacquata e ripulita come il cadavere di mio padre, urlo come un macaco, gli arti flessi male, nella piazza vuota di notte, tutto è buio, solamente, tutto è buio continuamente.