Il romanzo Hitler ancora su “Bottega di Lettura”: la critica di Giorgio Fontana

hitlercovermedia.jpgGiorgio Fontana ha pubblicato il terzo intervento su Hitler che appare su Bottega di Lettura. Nel suo blog si lamenta perché non l’avrei ripreso volutamente su queste pagine, rispondendogli però in maniera trasversale qui. E’ un misunderstanding. Semplicemente mi era sfuggita la critica di Fontana e ciò che genericamente scrivevo nell’articolo segnalato era in risposta ad alcuni commenti, altrettanto generici, letti su altri blog e su IBS. Perciò mi scuso con Giorgio Fontana e vengo a rispondergli qui direttamente, prima di riportare integralmente il suo pezzo. Circa il punto 1, ovviamente senza intendere in alcun modo che le impressioni di Fontana non siano giustificate, confermo che, nella mia percezione, in Hitler non c’è la mia lingua. Esistono tre piani stilistici, nel romanzo: il più evidente è un’enfasi che mutua una finta paratassi (che è però complicata nella reiterazione, giungendo allo statuto di ipotassi) tesa a costruire una maschera linguistica dietro cui sia il niente. Questa enfasi non è epica, a mio parere, semplicemente perché non è vero che Hitler affascina: a conti fatti esiste forse una progressione mitologica per cui Hitler esce dal libro accresciuto o costruito? Semmai il problema da discutere è come rappresentare il vuoto umano – e solo in termini di lingua di superficie, perché la lingua è qualcosa di più profondo della superficie. Il secondo piano linguistico, che non è comunque mio, risiede nell’intervento esorcistico e diretto dell’autore, che non sono io, ma è qualunque autore. Il terzo piano linguistico concerne la sezione Apocalisse con figure, dove altri parlano: e si tratta del perno del libro. L’enfasi che irrita è tesa a irritare e, spesso, ad annoiare, a opporre resistenza emotiva contro il testo da parte del lettore. Circa il punto 2, l’esempio delle metope mi sembra riprendere una pratica che, in Benjamin, è detta “mosaico” e tenta di allargare gli spazi tra le tessere. Spesso, tra una scena e l’altra, trascorre un anno. Il salto tra scena e scena non viene visto come silenzio o vuoto o congelamento, perché gestalticamente l’occhio si fa prendere o dalle figure o dallo sfondo o dai rapporti tra i due – ma qui lo sfondo è un salto, un vuoto. Inoltre, la vicenda di Hitler è conosciuta, esattamente come la storia che le metope raccontavano nei tempi antichi. Il fumetto sfrutta questa sospensione di incredulità da decenni. Poiché la storia di Hitler è la storia di Hitler e nulla è inventato, ma comunque lo sguardo del narratore allarga certi particolari, non posso definire romanzo un libro in cui mi limito a inventare ironicamente solo Fenrir, cioè la postura del cosiddetto invasamento del Male in Hitler, per capovolgerla. Potrei chiamare Hitler un “oggetto narrativo”. E’ certo che non è un romanzo e non ha l’estetica di un romanzo per come il genere del romanzo storico è stato interpretato negli ultimi trent’anni. Sul punto 3: la nozione di “non-persona” è tutt’altro che inindagata, tanto che fuoriesce dalle più che 1.000 pagine della biografia di Fest e ha il suo fondamento filosofico nella Teologia della Shoah. Il non-essere per come è esplicitato nel libro non è un demone: è proprio il non-essere, la corrosione dell’essere e l’annichilimento totale: anzitutto del popolo ebraico. Cosa che a Stalin non venne nemmeno in mente. L’essere è e continua a essere: per questo motivo coloro che subirono lo sterminio raggiungono la massima intensità di essere – il che va ben oltre le categorie etiche di bene e male, e pone la questione su un piano metafisico. Tutto ciò concerne fondamenti filosofici, teologici e storiografici che, se sostanziano Hitler, tuttavia non ne sono elementi poetici. Elemento poetico è invece l’apparentemente sterile nozione di “non-persona” che viene ossessivamente ripetuta nel testo – il che è uno stilema che ha il suo pari nell’insistenza con cui si ripete il verbo “esorbitare”, cioè eccedere l’orbita umana, esserne fuori. Quanto all’indagine sul personaggio, non mi pare incompiuta: mi pare ci sia investigazione, solo non c’è giustificazione, cioè dazione di intensità esplicativa a un momento particolare della vita di Hitler che dia senso al passaggio da un Hitler suppostamente edenico e Hitler sterminatore. Sul punto 4, valgano le risposte date in precedenza: la reiterazione meccanica è mimetica eppure evita l’identificazione con Hitler (può non piacere, ma è la mia proposta letteraria); Fenrir non è Fenrir, è la parodia dell’atteggiamento di chi misticamente tenta di spiegare Hitler, è proprio il suo simmetrico capovolgimento, così come il Ragnarok è invertito nella scena del post-mortem; così dicasi circa l’estetizzazione, che è critica accettabile se l’estetica si pone come criterio valutativo, mentre qui non lo è, qui si tratta di un’immagine e di un’etimologia di ordine metafisico (come già detto, “santo” proviene dalla radice ebraica “separato”). Sul punto 5, non posso rispondere: è l’opinione di Giorgio Fontana sul libro. Per quanto concerne la mia autopercezione, non mi pare di non disporre di un apparato filosofico sufficiente a prendermi una responsabilità costatami parecchio, in termini emotivi e di ricerca interiore. Però ognuno può trarre le conclusioni che avverte come veridiche. Che io “spacci una pastoia come base concettuale” è da vedere: qui mi riservo il diritto autoriale di pretendere che il lettore non sia giudice assoluto e abbia delle responsabilità percettive che possono risultare fallaci – e comunque ciò concerne l’officina teorica, non il libro. Tutto il resto è legittimissima impressione di chi legge e, soltanto per lo sforzo compiuto nell’affrontare il libro e nello scrivere l’intervento che segue, mi sento di ringraziare Giorgio Fontana per l’attenzione e la pazienza spesi.

Giuseppe Genna, Hitler

di GIORGIO FONTANA

0. Dopo le precedenti letture di Paolo e di Demetrio, un punto di vista diverso. Dove si pongono alcune domande e dove si presentano parecchie perplessità.

1. Lingua. Genna invita apertamente a non considerare il lato estetico di Hitler (scrive sul suo sito: “la questione della bellezza e del piacere della lettura in Hitler non si dà o è secondarissima“). Ma questo non può essere irrilevante. In un’opera che si pretende letteratura, il lato estetico e linguistico è comunque fondamentale — anche quando il contenuto è “esorbitante”. Di qui le seguenti considerazioni. Il romanzo sembra scritto in fretta (impressione che ho ricavato anche da altri lavori di Genna). La prosa è incalzante, veloce (il libro si legge d’un fiato), ma a volte semplicemente troppo incalzante. Un amico l’ha definito “fumettone”: tutta trama, e il vuoto preteso non filtra dallo stile. Suona inadeguato: suona troppo roboante e coinvolgente. Dove sono tutte le belle promesse dell’officina teorica? (Dov’è finita la “lingua che non può essere la mia lingua”?) Vista la difficoltà mostruosa del tema (e del modo in cui si è scelto di trattarlo), ogni frase doveva essere scritta con rispetto sacrale. Il fatto che Hitler affascini comunque attraverso queste pagine dimostra subito lo scacco del tutto. Se Genna voleva rappresentare lo zero umano, ha fallito. Perché questa scelta linguistica? (Si pensi all’immagine di Stalin che sorride e poi la marea di siberiani che si alza; si pensi alle varie scene di allestimento del partito: entusiasmante, ma il protocollo non doveva essere altro? — cfr. anche punto 4d).

2. Metope. Il romanzo, dice Genna, è strutturato come le metope di un frontone. Non riesco a vedere la differenza fra questa struttura e l’idea di una serie di capitoli brevi divisi da salti temporali (come è effettivamente). Sospetto: dire che l’unità narratologica del libro è la metope è più figo (e in effetti è una bellissima immagine). Esattamente come come definirlo romanzobarrato sembra creare una categoria ad hoc per assicurargli una via intermedia, al riparo da determinate critiche. (Popper vs. Poincaré: il convenzionalismo è disonesto: contro la realtà recalcitrante, si limita a correggere la categoria. Un corvo bianco non nega che i corvi siano neri: non è un corvo. Allo stesso modo, un romanzo si pone al di là del bene e del male, per così dire. Sfugge da una e dall’altra parte — fiction, non-fiction — per ritagliarsi automaticamente un posto unico.)

3. Senso. Lasciamo da parte il contenuto materiale del libro e passiamo alla chiave poetica. Secondo Genna Hitler è la non-persona. Una bolla vuota. Il non-essere. L’idea è ricavata da Fest e mantenuta come assioma, indimostrato e indimostrabile (anche se Fest problematizza molto di più tale concetto).
In primis, non sono affatto sicuro che la non-persona coincida con il non-essere (interpretato come, fra l’altro? Cos’è il non essere per Genna? Queste sono categorie filosofiche di un certo peso, ma qui vengono trattate semplicemente come paroloni). Ma la mia formazione filosofica è troppo debole in questo campo, e non ho gli strumenti per affrontare di petto la questione. (Sarebbe bene che qualche esperto di Sartre e Lévinas dicesse la sua. Peraltro, non ho trovato un solo punto chiaro in tutta la riflessione di Genna dove viene sciolto questo nodo). Cerco di interpretare: per Genna il nulla si incarna nell’apparenza Hitler, così come un demone potrebbe incarnarsi in un essere umano, e fa strage dell’essere.
Fatte salve queste perplessità, io ritengo la prospettiva comunque limitante, perché in qualche modo ci assolve. Ci libera dalla responsabilità di poter diventare Hitler. In sintesi: Hitler si è, punto e basta.
C’è un vecchio enigma di filosofia morale. Immaginate di poter tornare al 1889 e assistere alla nascita di Hitler. Lo uccidereste? Be’, forse sarebbe sufficiente portarlo da un’altra parte, no? Farlo crescere in un ambiente completamente diverso. Ebbene, per Genna la risposta è no — una volta stabilito il valore ontologico della non-persona, questa sarà tale ovunque si trovi. Irradierà male necessariamente. Ma questa è una posizione modale piuttosto forte. Si stabilisce che a priori l’individuo Adolf Hitler (qualunque sia la sua biografia) è il Male, è inumano.
Ora cfr. Vollmann: in Come un’onda che sale e che scende indaga razionalmente Stalin, invece di fermarsi alla “sterile categoria dell’aberrazione” (p. 329). Genna direbbe: Hitler esorbita Stalin. Ma perché? Su che basi si fonda quest’assunto? Perché non posso indagare, cercare ragioni o cause, e devo fermarmi invece a una convinzione mistica — per quanto affascinante, per quanto così semplice da sostenere: Hitler è la non-persona, è sempre uguale, non è degno neanche di indagine ulteriore. Fine. È una bolla vuota e va solo rappresentata: “Non spiegare il male, farlo vedere.” Questo suona ammirevole, ma non riesco a considerare immorale, come vorrebbe l’autore, un ribaltamento di prospettiva ontologica. Soprattutto perché considerare Hitler come essere umano non nega alcuna sua responsabilità, anzi la acuisce ulteriormente. E ci ricorda che il Male più maiuscolo non è “irruzione di non-essere”, ma una realtà orribilmente essente, possibile e umana. (Così insegnava anche Schelling nelle Ricerche filosofiche). Un umanesimo consapevole riconosce dunque che Hitler è stato uno di noi, e non altro da sé: la fratellanza invocata da Littell. Chiamare Hitler l'”antipodo della redenzione” (p. 479) impone invece una specie di giustificazione anti-critica: Hitler come evento terminale dell’Occidente. No: solo ricordando senza falsi misticismi che era un uomo, è possibile evitarne una seconda venuta.

4. Ingranaggi filosofici. Facciamo un passo indietro e accettiamo come valido lo sfondo concettuale della non-persona, pure con i suoi problemi e la sua mancanza di chiarezza. Accettiamo l’orizzonte di Genna e vediamo se è intimamente coerente, a livello del romanzo fatto e finito. La risposta è negativa, perché:

a) il concetto di non-persona è trattato in modo superficiale (l’assunto è propugnato all’inizio e semplicemente ricordato a intervalli calcolati: Ehi, ricordatevi: è il nulla!). Non è mai esplicitato (di nuovo) e sempre dato per presupposto. A p. 98 e dintorni viene detto che la non-persona “matura” — ma come può “maturare”? E se matura solo il suo sembiante, il suo apparire, cosa significa o perché dovrebbe seguire questa via? (Non è chiaro, davvero: si può intuire vagamente il senso, ma “dieci anni di riflessione” avrebbero dovuto portare a un risultato cristallino).
b) il lupo Fenrir è un errore concettuale. A parte il trattamento in stile Wikipedia (la descrizione della corda che lo lega è pari pari), qui Fenrir non annuncia la fine del mondo: non c’è un vero Ragnarok, non viene ucciso un “Odino” europeo e non c’è un figlio che lo vendica. Dopo Hitler c’è soltanto la desolazione del dopo Hitler. Inoltre, punto assolutamente cruciale, Fenrir dà una spiegazione a ciò che per presupposto non si dovrebbe spiegare. (Perché Hitler ha fatto ciò? Perché era posseduto da Fenrir! — Il rischio, terribile, è questo. Si potrebbe rispondere: Questo non è spiegare. È solo fornire un’immagine della fine. Ma perché usarla? Perché mitizzare Hitler in modo così strisciante? È totalmente contro le premesse). Infine, nel suo discorso finale al protagonista (p. 474), il Lupo parla come un accademico da due soldi, e suona francamente ridicolo.
c) la non-persona, se intesa come bolla di non-essere (qualunque cosa significhi) non implica automaticamente il suo essere maligna. “Il non-essere corrompe l’essere”: cosa significa? Il nulla è una categoria morale opposta al bene? E l’essere coincide necessariamente col bene? (Un conto è dire questo, un altro che uccidere sei milioni di ebrei è male). Ci sono troppi nodi che rimangono irrisolti: tutta una tradizione filosofica che mi sembra negletta o trattata con sufficienza.
d) l’estetizzazione del dolore non è affatto evitata, né tantomeno il protocollo finzionale (ritmo, psicologizzazione forte dei personaggi, patetismo fuori luogo o persino imbarazzante — “i Santissimi”, “i bambini…” — etc.)
e) ancora, frasi come “L’amore non è. Il mondo non è. Nemmeno la Germania è. Niente è e lui naviga, bolla oscura nel non essere.” (p. 207) sono del tutto prive di controllo. È il nichilismo ontologico totale? Cosa c’entra con la non-persona? Che c’entra l’annullamento della Germania?

5. Conclusione. Hitler sembra una biografia scorciata del Führer, fondata su una metafisica priva di rigore e mascherata da romanzo. Dal punto di vista meramente narrativo, il libro è godibile — una lettura che funziona e che procede davvero spedita. Ma la sua disonestà intellettuale è del tutto palese. Genna non ha gli strumenti teorici per un’operazione simile: l’ha dimostrato con la pastoia che spaccia per base concettuale. E trattare il simbolo del Male più assoluto con questa superficialità mi sembra davvero immorale. (Ancor più dopo aver speso pagine e pagine sulla rete a ricordare il valore etico del suo assunto).
Comunque: se Genna ha aperto una via (cosa di cui non sono affatto convinto), ben venga. Ma a mio parere interrogarsi sul male non significa limitarsi a rievocarlo, soprattutto con simili mezzi. Così come continuare a testimoniare senza riflettere porta allo svuotamento della memoria, alla sua mera riduzione in fatti, numeri, cifre, eventi, filosofie passeggere e senza fondamenti chiari.

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