Raimo | Genna: dialogo su “Assalto”

Assalto a un tempo devastato e vile, nella sua attuale forma (la cosiddetta “versione 3.0”), è il libro che, insieme a Hitler – Romanzo, mi ha coinvolto maggiormente in un confronto a due, in una serrata discussione che ha realmente inciso sul testo, determinandone cambiamenti radicali, tagli e aggiunte. Si tratta di editing? Io credo si tratti soprattutto di un dialogo tra scrittori a partire da un testo, senza sentimentalismi e con molte idiosincrasie da parte mia. Un’esperienza intellettuale impagabile, di cui devo ringraziare Christian Raimo, per l’appunto mio editor nell’occasione e mio amico. Pubblico qui una delle tracce scritte di questo confronto, che per me è stato davvero importante. Non so se, in questo modo, posso risultare utile aprendo le porte dell’officina letteraria a chi è interessato – credo che il dialogo sia davvero un po’ troppo criptico per risultare utilizzabile, ma non abbastanza da non poter essere testimoniato. [gg]

CHRISTIAN RAIMO: Qual è l’elemento comune di questo libro? Di questi nuovi testi e dei vecchi? Per me: dietro la politica va esplorata una dimensione teologica.

GIUSEPPE GENNA: Questo concerne la parte che risale a 10 anni orsono. Ora è così, ma in altro senso. Potrei riassumere il movimento, seppure imprecisamente, in questo modo: ciò che si mostra è immediatamente teologico (uso qui la tua terminologia, perché per me non si tratta, adesso, di teologia: si tratta di prassi metafisica, che è altro). Perciò non c’è distinzione tra politico e teologico, a meno che l’intenzione a priori, che è prassi non artistica e tantomeno metafisica, non sia sociologica: cioè legata alla connessione tra memoria e presente, con anticipazione del futuro. Questa rottura del libro è analogica al salto testamentario: con lo sguardo a cui ha abituato il Vecchio Testamento non è possibile entrare nell’esperienza del Nuovo. Entrare nel Nuovo significa per me pormi (porre a me: non al lettore) una domanda che è priva di risposta. La problematica artistica in generale mi si configura così: ogni cosa o parola costituisce un rimando allusivo a una domanda priva di risposta. Sono perfettamente cosciente che ciò non costituisce una poetica e ha esiti anche rovinosi o ridicoli in termini di poetica – ma è proprio questo il punto per me (per me: non per il lettore): il punto non è più la poetica.

Se Italia de profundis è lo scavo dentro il vuoto che si esprime – prima esteticamente, poi moralmente, poi teologicamente – dell’Italia e di GG: cioè l’assenza di un’appartenenza, un legame due volte vuoto; qui ci dev’essere l’invasione dell’altro e il rapporto asimmetrico con l’altro che viene all’idea che va indagato.

Sì, ma in modo molto anomalo per me. E’ il punto in cui l’altro proprio non eviene in modo asimmetrico (il che era invece il proprio della precedente sezione), bensì avviene un incontro in cui non so dire e anche l’altro non sa dire. Tutto ciò non è oggettivo e, sia chiaro, non è nemmeno soggettivo.

In questo senso la costante registrazione di come queste pelli e questi volti altrui ti “chiamano”, ti urticano, è una delle tracce più vitali.

Per me è il contrario, proprio specularmente il contrario: l’altro non mi chiama affatto, c’è in quanto un io percepisce, e l’io è capace di percepire io anche senza l’altro. Si tratta di un anti-maritainismo, di un bergsonismo particolare, non certo alla Jankélévitch e nemmeno alla Hadot. Qui c’è uno spostamento verso un’alterità culturale che è sempre stata presente in noi, tra noi. L’occhio non vede se stesso, che sia mio o dell’altro: posso tentare di spiegarmi solo con queste analogie impermanenti. Ciò che mi urge è che tu possa comprendere come si è consumata, in quale direzione, una rottura con un passato che fu testimoniato per iscritto.

Una discesa agli inferi della falsa coralità contemporanea.

Ancora: questa è una fedele descrizione delle parti scritte anni fa. Non è così ora che io cammino, seppure incerto e, al limite, ben fuori della letteratura. Potrei dire che è una discesa agli inferi della falsa egoità. Ovvero, dell’io psichico. E non contemporaneo, poiché solo per accidente càpita qui il tempo o riferimenti alla contemporaneità.

Prendiamo il lavoro che fa Giorgio Falco nell’Ubicazione del bene – figlio se così si può dire del tuo lavoro originario, profetico e funereo, sul sobborgo milanese – lì andrebbe ricercata una dimensione che invece in quello che scrivi tu è centrale: il desiderio (sempre irrealizzabile) di avere qualcosa in comune con i personaggi esausti che descrivi; o se vogliamo dirla meglio, di sentirti almeno come loro.

Non ci sono personaggi. Ci sono rare figure (come la Bambina) o reperti che io (ma solo io!) avverto come pop: ricordi che vanno svanendo. E’ come uno svenimento, un attimo prima di svenire: mi accorgo che sto svenendo, poi svengo.

Ci sono pezzi la cui la tua scrittura manca di una formalizzazione adeguata: esprime l’impasse, non la elabora: questi pezzi per me devono fare parte di una sorta di “cammino preparatorio” al libro e non del libro pubblicato: il lettore non dev’essere messo a conoscenza di tutti i passi falsi, o anche dei passi che si riveleranno veri, se così si può dire. Il rischio altrimenti è di un’esibizione dell’impaccio: ne risulta l’opposto della scrittura auto-enfatica, quella che Wallace definiva “guarda-mamma-senza-mani”: una sorta invece di “guarda-mamma-zoppico”.

Questo lo trovo molto preciso, giusto. Davvero te ne ringrazio, perché ritengo tu abbia ragione a pieno. Tuttavia non si tratta di preparazioni. L’officina, qui, è direttamente l’esito, per stare a una metafora imprecisa.

Un rischio serio – che dev’essere corso, ovviamente, ma che in definitiva dev’essere evitato – è questo, a mio parere: che la tua capacità aforistica, sintetica, non abbia il sapore del vaniloquio. Ci sono delle intuizioni straordinarie come quella del “nuovo paradigma” che però si appoggiano come esemplificazione su elementi instabili: un articolo brachilogico, una balbuzie morale, le citazioni di Bush. Metti in fila una serie di indizi che non riescono ancora a comporre un insieme, come se avessi raccolto materiale d’osservazione sufficiente ma non l’avessi selezionato né messo in ordine. (Anche qui – c’è qualcosa che forse fa parte di un “laboratorio preparatorio” che non dev’essere condiviso con il lettore). Questo discorso, anche proprio questo sul “nuovo paradigma”, necessita rigore – quindi messa in dubbio, autocritica, ipotesi e non apodissi. Quello che non riesce ancora a produrlo, occorre secondo me attendere, e pubblicarlo in caso un domani. Sarei rigoroso con me stesso su questo.

Questo discorso tocca il problema dell’eventuale inattualità di ciò che dico – il quale problema non mi pongo affatto. I reperti non li indago in quanto li espongo. L’equalizzazione è assolutamente illegittima, nella prospettiva che enunci. Non mi è possibile tuttavia praticare la prospettiva che enunci. Comprendo perfettamente il discorso che mi fai, so quasi cartesianamente che il procedimento (sia pur mediato da consapevolezza, non intelligenza) risulta fallace. Però non è la logica della fallacia, qui, che governa. Gli elementi che tu percepisci come instabili equivalgono per me ad altro, che forse andava aggiunto (e l’ho aggiunto, infatti) – cioè l’esemplificazione, abbozzata, che la lingua traumatica è la lingua da sempre e per sempre. L’esposizione balbuziente non è automimesi, è proprio l’ambiente in cui sono se scrivo questo che scrivo. Il “nuovo paradigma esige” certamente rigore, ma ti garantisco che la medesima esigenza poteva essere espressa anni fa, laddove ho accennato al paradigma precedente. Non si tratta di compiere apodissi, sebbene il tono possa apparire apodittico. Dico quanto vedo – se vedo, ragiono poi. Ho lasciato depositare per anni questo che non è un discorso, non è una discussione. Non enuncio una profezia, qui non c’è violenta inattualità. La capacità aforistica è smontata da un formulario ripetitivo, che riguarda la sussunzione praticata a partire dalle prospettive debordiane – e ora rigettata. Proprio non sarei rigoroso con me stesso, perché il me stesso è nel trauma. Non parla chi è curato dal trauma. Il traumatizzato non fa ipotesi, dice verità soggettive contraddittorie e irricomponibili. Se ciò, e da un punto di vista tematico e da un punto di vista formale, sembra “osceno”, non lo è dal punto di vista della prassi di “discriminazione” interiore. La quale non viene detta, se non di sfuggita, ma viene applicata, seppure fallimentarmente. L’insieme, in pratica, non va composto e non va componendosi. La formulazione di una simile composizione costituirebbe peraltro una panoplia inadatta allo stato delle cose in cui sono io (non in cui è la società, anche se in parte i due stati paiono coincidere – ma se visti dall’esterno). Ti prego di credere che non sto “giustificando” la mia scrittura: adesso è questa cosa qui, non posso prescindere dal fatto che sia eventualmente deludente.

Ma il rischio anche è che io lettore dica: sta vaneggiando, è il pazzo che sale sull’autobus. Questo è un effetto che per me fa parte del rischio della letteratura, e del rischio della scrittura, o dell’arte in generale. È pazzo il fratello scemo di Ordet o dice la verità? Ma la vera sfida è puntellare questo rischio, quest’ambivalenza, questa possibilità di kitsch e vaneggiamento, tenendo ferma – nella forma – una coesione. Pensa a quello che riesce a convincerti di Herzog o di Von Trier.

Non per me, quanto alla coesione. E’ proprio questo che tento disperatamente di dire. Non è coeso dentro, è naturale che non sia coeso fuori. Non devo essere null’altro che ciò che è. Non ho mire relative a nessuna storia della letteratura, né passata né presente. Sono interessato alla topicità assoluta di questa esperienza che nemmeno riesco a qualificare come psichica, e perciò emotiva. Il rischio del ridicolo c’è, lo so. A me non interessa di rovinare eventualmente Assalto; interessa, come ti dicevo, di non rovinarlo al modo in cui Moresco ha rovinato Lettere a nessuno. E anche rispetto a Ordet, che è un “testo” ben presente in queste pagine, è proprio lì che vorrei fare capire di essere: non nell’ambiguità che tu esponi e che Dreyer credo effettivamente induca. E’ più spostato che mi sento: nel punto in cui manco riesco a formulare la domanda che riesci a fare tu su quel film. Se, tuttavia, ragiono su Herzog (non su Von Trier), mi rendo conto che non riesco a stare nella coesione di The Wild Blue Yonder, cioè nella cornice narrativa. Sono come uno psicotico schizoide che non regge nemmeno alla vaga idea di trama, e che in un qualche confuso modo avverte che è possibile incontrare e amare gli altri nel cuore della sua schizofrenia. Che essa produca rottami sbagliati o indegni, a questo punto, è un effetto collaterale.

L’altro versante di rischio, l’altra possibilità di scivolare è il moralismo: alle volte hai una formidabile generosità nel presentarci l’incontro con gli altri, con le parole degli altri – gli anziani, i malati, i reduci di ogni ordine e grado – e sembra che devi per forza sintetizzare con qualche parola in più la categoria che li sussume. O ricavarne, senza troppa attesa, una teoria. Non serve, a mio avviso. È un’induzione da un solo elemento, a volte. Ma soprattutto, consola, scherma. Priva il lettore della possibilità di sensibilità, di sentire l’altro, che invece metti in gioco, attraverso, veramente, una notevole capacità sinestetica: tu produci attraverso la scrittura sensibilità. È un tuo dono. (Questo non vuol dire – altrimenti  mi fraintendi – sottrarre consapevolezza, lavoro intellettuale; ma vuol dire non sovrapporre l’una tua capacità all’altra: anche questo è un tuo dono: non fare mangiarli a vicenda – e diventare o iperestetico o ipercategorizzante).

E’ vero. Queste proprio sono le restanze, le rimanenze di un passato che non è stato armonicamente incluso in uno stato di spaesamento che segue ciò che è avvenuto.

Che il “laboratorio preparatorio” non vada condiviso con il lettore in questo senso per me può rivelare una forma di paternità. A un figlio non dico tutto. Un padre è colui che guida. Negli ultimi anni gli intellettuali tutto hanno fatto fuorché guidare. O perché – come nella maggior parte dei casi – non riconoscevano nemmeno il paesaggio che stavano attraversando. O perché non avevano gli strumenti di orientamento. O perché chiedevano conferme in continuazione. La movement therapy è ai miei occhi un’allegoria potentissima di quello che significa questo stallo: tu lì reimpari a muoverti – un’abilità che l’essere umano Genna aveva perso. Ma, senza che lo volessi forse, impari anche che cosa significa muoversi, e in definitiva quindi, impari che cosa vuol dire guidare.

La movement therapy è la movement therapy: ci sono capacità motorie che io non ho mai perso, non avendole mai acquisite. Sulla paternità: io non intendevo che lo scrittore dovesse farsi padre, intendevo che lo scrittore e il lettore sono destinati a farsi padri. Quali padri? Storicamente abbiamo una serie di forme di paternità molto diverse; culturalmente e geograficamente, non ne parliamo neanche. Il padre è padre in quale senso? Accade che diventi padre. Sarai un padre buono? Un padre adatto? A quale valore? A quale norma? Qui la norma è una: è la pulizia interiore in forma di attenzione, non di crescita esercitata su un’anima in formazione. Imparo a muovermi, non: reimparo. Che la Bambina sia il Padre è per me non solamente plausibile, ma nel qui e ora è perfettamente attuale. Ciò non significa scaricare sulla bambina alcuna proiezione o incertezza. Perché il Padre guida? In base a cosa? Si dà qui, consapevole o meno che sia non importa, la distanza tra il teologico e il metafisico: io guido l’io, il Padre è dentro e cioè sono io. Non è conoscibile, questo Padre: è esperibile, e ciò significa ben altro, poiché sta oltre le forme che diciamo significati. Poi: chi sono gli intellettuali? E sei sicuro che non guidino? Un intervento che ti ho contestato dieci anni fa continua a maturare in me, continua a tornare, non riesco ad afferrare, provo disaccordo e concordia. Dobbiamo guidare gli intellettuali che vengono dopo di noi anagraficamente? Chiaramente, Christian, sto ponendo domande, non sono quesiti ironici. Gli intellettuali – e questo mi importa di più – da centinaia di anni non guidano più, mediante allusione, verso la prassi metafisica, salvo eccezioni che cito fino alla nausea. A me non interessa che Volponi guidasse o che Carducci o De Sanctis o Croce pure: guidavano in direzioni che non mi toccano. E qui e ora deve avere rapporti con prima? Se sì, il che è legittimissimo, siamo in una determinata forma d’arte, rispetto alla quale ora mi sento inadeguato e disinteressato.

Ancora: ci sono dei momenti in cui ti chiedo più didascalia e meno allusione. Mi sembra sensibile il pezzo in cui parli dell’Italia come punta estremale dell’Occidente in disforia: anche qui, come direbbe Benjamin, il discorso politico che tutti ammanniscono (le critiche sociologiche, la “quotidiana anestetica apocalissi Repubblica” la definirei) dev’essere rigettato, e mostrata al suo posto la dimensione teologica che sta dietro a ogni ragionamento politico.

Da un lato ti dò totale ragione: infatti quel racconto l’ho tagliato. Dall’altro no: perché dovrei spiegare?  Poi, nuovamente: come posso spiegare che l’evento metafisico è la stessa cosa dell’evento naturale e dell’evento politico? Anche qui: io intendo in certo modo la teologia, in altro l’esperienza metafisica, e la scrittura mi si è spostata in quest’ultimo àmbito (se di àmbito si può parlare…).

Mettiamo Italiana è la spirale dell’ascesi discendente: la sensazione che a volta ho io è che l’effetto di affratellamento – attraverso i sensi e la guida intellettuale – che tu riesci a produrre venga alle volte depotenziato da una pre-esibizione simil-sapienzale di quello che andrai a dire. Non sono sicuro di questo. Ma spero sia chiaro. Quale sarebbe l’atteggiamento di me lettore se questo pezzo non avesse questo titolo già auto-conclusivo e se iniziasse senza le prime dieci righe, ossia da “È il primo gennaio 2008…”? Sentirei che mi sta occultando qualcosa? O ti sentirei più vicino perché capace di una sincerità meno invadente, meno esibita? Questo racconto per me ha, con alcune revisioni possibili, le potenzialità di un piccolo capolavoro: un Solaris alla stazione di Milano vale come un grande antitodo alla “quotidiana apocalisse Repubblica” e le sue inchieste sui barboni che furono ceto-medio. Rivedilo, rendilo essenziale, fanne il capolavoro che è, veramente tarkovskiano.

Ho tagliato il racconto. Sarà pure un capolavoro, ma eventualmente in un senso che non mi interessa. In Stalker cosa mi interessa? Scene staccate. Se le avesse sottratte, Tarkovskij, dalla cornice narrativa, avrebbero perso di senso? Mi sarebbero interessate di meno? Secondo lui sì e questo basta. Infatti ha girato e montato quel film. A me interessa altro, contro cui la “forma Italia per come è descritta mi pare decisamente schierarsi, opponendo un troppo pieno che rimarrebbe tale perfino se svuotassi e spostassi come mi suggerisci di fare.

Trenodia privata per un pubblico dissesto va nella direzione che per me è la cifra principale di questo assalto: la teologia che rovescia e disvela la politica, la convocazione e l’autoconvocazione privata, personale, paolina, alla rivoluzione che non solo non è avvenuta, ma è diventata appunto pubblico dissesto.

Però Paolo è proprio l’avversario, per me. O meglio: ciò che si è cristallizzato in comprensione storica dalle parole di Paolo. Non concordo assolutamente con la tua percezione di questo testo. Se esiste necessità, per me, è per mostrare il fallimento temporaneo di un lavoro interiore che tenta di trascendere proprio i ricordi e che enuncio a fine del capitolo che precede la Trenodia: dico di occuparmi degli incorporei, cito Porfirio sui ricordi, avviene che non riesca a fare che il contrario di ciò che enuncio.

Pulsazioni della vocazione a padre non mi convince invece. Fa parte per me del laboratorio da non dare senza mediazioni (temporali, stilistiche) al lettore. E non è secondo me solo una questione di forma, di giusta maturazione di un percorso di formalizzazione. Mi sembra, ma qui siamo nell’impressione, che sbagli bersaglio, più che mancarlo. La tua capacità di paternità (nella sensibilità e della guida intellettuale, nell’orientamento da stalker) tu la palesi in tutto il libro – qui è come se dovessi ritirarti e mostrare un’incapacità che non è il punto. Ossia, è come se ti dicessi: “Mi insegni a giocare a calcio?”, e tu mi raccontassi il tuo impaccio con il nuoto – perché lo faresti?

Non è in questione la mia capacità di paternità, bensì l’esposizione al Bambino. Si tratta di una riflessione a salti sul vuoto che governa il detto cristico per cui dei bambini è il Regno dei Cieli. Per essere come bambini vanno abbandonati i pesi (le ricchezze che avvantantaggiano un cammelo per il supposto accesso al Regno). Questi pesi, nel caso che espongo come posso, sono certi “saperi”. Non è in dubbio la capacità paterna: può sembrarlo, ma non è in dubbio. Io sono in dubbio, a fronte di una onnipotenzialità che si manifesta: cioè viene messo praticamente in dubbio l’”io”. Capisco bene perché tu vedi un altro bersaglio, dico che hai chiaramente ragione da quella prospettiva. Però qui non c’è prospettiva, se non quella del cadere a pezzi di determinate guaine interne.

Non disperse membra e sillabe del padre mi interessa di più come esperimento, una ricognizione del passato che passa per un cammino personale (e ancora, di ricerca teologica), ma così ellittico, così tanto deprivato, mi risulta spesso difficile da seguire: la retorica che eviti finisce per diventare una retorica dell’antiretorica. Ostile, in definitiva. Prova a lasciarlo, ma a dispiegarlo un po’ di più, a renderlo chiaro, didascalico, narrativo se vuoi.

No. Spiego solo all’inizio di cosa si tratta: sono parole dal diario di mio padre, scoperto postumo, laddove si descrive l’innamoramento per mia madre e il sentimento di vita che pervadeva quest’uomo ad altezza anni Sessanta. Poi: emerge o non emerge. Se non si capisce, non importa. E’ per me, come letteralmente dico, un “fondamento”, però è “mobile”. Però è per me, non per il lettore. Nel caso ci incontriamo dove è mio padre, fuori dal superfluo, in un reperto che è conca eventualmente abitabile – ma non è detto affatto che succeda.

Pater e Conosci la Madre… per me sono entrambi troppo abbozzati.

Sì, la forma è quella: non possono che essere troppo abbozzati, sebbene io lavoro metrico sul primo brano sia stato intenso (ma questo davvero non c’entra nulla). E’ abbastanza paradossale che l’inizio delle Upanishad e il Canto di Shankara, dove al Brahman si sostituisce la “madre”, possa apparire abbozzato. E’ però quanto accade, precisamente, se apri le Upanishad e leggi. Deve andare così, non c’è altro modo di andare, qui, se non così – anche se uno è deluso (non è che io non provi delusione).

Mentre Non ha lettere l’amorosa presenza è un bozzolo che riesce a coinvolgermi di più, ma lo rivolterei come un calzino: stessa topografia ma forma diversa nello spazio. Non è affatto detto che riesca. Così refrattario a una forma, sembra che affidi al lettore un lavoro di cui non vuoi caricarti. Che accenni come “da ritornarci su” su un ipotetico piano di lavoro emotivo. Ci sono frasi che valgono alle volte intere letture di tre pagine di associazioni liriche che non sono facili da mettere a fuoco. Qui per esempio: “il bacio nell’anticamera, in piedi, tu sulle punte, guardati entrambi da basso”. Prova a non appesantire con il resto. Prova a scrivere una semplice storia di quest’amore da apprendere. [Lo stesso vale per La cosa che desidera librarsi. ]

Perché avverti un lavoro di cui non voglio farmi carico? Probabilmente perché sono state troncate le parti in cui spiego. Ho mutato e tagliato alcune cose, sebbene lo sguardo dal basso che rilevi sia per me molto semplice: anzitutto perché lo hai visto cinematicamente molte volte, e poi perché banalmente c’è una bambina piccola che guarda due adulti darsi un bacio. Tuttavia qui sì c’è mimesi: precisamente è quanto mi accade dentro, è questa forma qui. Se ciò impone fatica al lettore, mi dispiace: si salta, si va avanti, è noioso, non interessa. Ciò che ti sembra un accenno, a me sembra questo affiorare e subito affondare di gesti. Non ci tornerò mai su, poiché ora e qui è in questo modo. Del resto, continuo a dire: letteralità. Nella letteralità si utilizzano metafore, condensazioni liriche o epiche, metonimie, tutto lo spettro retorico: resta il fatto che ciò che eviene è letterale. Letteralmente accade questo. Poi so benissimo di non essere Burroughs, cioè che non sono capace di esercitare l’attenzione e l’arte secondo il vertiginoso insegnamento che ristà nel titolo kerouakiano Il pasto nudo. Tuttavia non riesco a dire altro, o in altro modo, che questo. E non perché sia vero: semplicemente perché è quanto accade, e non per scrittura automatica, nel qui e ora.

Andate, mie parole, calcate le tracce dei linguaggi infiniti è un testo bello, ma assolutamente preparatorio, laboratoriale, secondo me; lo taglierei.

Tagliato. Tuttavia non è laboratoriale.

Egogonia e Di là delle opere del Sole sono ancora abbozzati e tracciano sì un percorso comune al resto dei testi, ma un percorso veramente troppo disomogeneo, potrebbero sembrare un’appendice che hai voluto aggiungere per fare massa. Li taglierei: se diventeranno qualcos’altro, se si muoveranno con le loro gambe in futuro, magari potrebbero far parte di Assalto 4.0.

No, proprio non fanno parte di Assalto, hai ragione: li ho tagliati. In ogni caso non si tratta di cose che si muoveranno: stanno lì, così, già elaborati, da più di 5 anni. Fanno parte di ben altro progetto che, per quanto suppongo, non darò mai alle stampe.

Sii rigoroso, autoselettivo. “Esamina tutto, tieni ciò che è buono” – Paolo, Lettera ai Tessalonicesi.

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