Don DeLillo: CONTRAPPUNTO

delillo_contrappunto“Cosa succede quando l’introspezione raggiunge un’intensità tale da annullare il mondo circostante?” – è una non-domanda che Don DeLillo pone in chiusura del suo organismo saggistico-narrativo Contrappunto – Tre film, un libro e una vecchia fotografia (Einaudi, collana Arcipelago, traduzione di Matteo Colombo, 10 euro).
Poiché non credo più al genere “recensione” e nemmeno all’intervento critico che non sia al minimo un piccolo saggio, limito a qualche notazione il mio intervento, privo di qualunque pretesa.
Desidero mettere in relazione parte dell’incipit dell’assai bistrattato (dai critici di ogni nazione, a parte alcune significative eccezioni) Body Art, romanzo dello stesso DeLillo, con la non-domanda suddetta:

“Il tempo sembra passare. Il mondo accade, gli attimi si svolgono, e tu ti fermi a guardare un ragno attaccato alla ragnatela. C’è una luce nitida, un senso di cose delineate con precisione, strisce di lucentezza liquida sulla baia. In una giornata chiara e luminosa dopo un temporale, quando la più piccola delle foglie cadute è trafitta di consapevolezza, tu sai con maggiore sicurezza chi sei. Nel rumore del vento tra i pini, il mondo viene alla luce, in modo irreversibile, e il ragno resta attaccato alla regnatela agitata dal vento.”

Esiste dunque un’apparentemente insanabile contraddizione circa l’oggetto della narrazione di DeLillo, che fa da filo trasparente alla sua produzione che segue l’uscita di Underworld. L’oggetto è infatti vuoto (rimando alle mie note sul Personaggio Vuoto, se a qualcuno interessasse navigare in simili acque): l’oggetto vuoto è la consapevolezza stessa.
L’introspezione giunge a un’intensità altissima quando l’oggetto di percezione dell’introspezione è la coscienza stessa, cioè ciò che regge la percezione e la permette. Ne fuoriesce consapevolezza.
In un primo momento, l’attività di ricerca di consapevolezza, sia essa necessitata e voluta oppure suppostamente casuale, fornisce alibi psichici all’umano per esprimere l’ultima forma qualificata e qualificante di sé: cioè il proprio talento, che è il proprio destino. E’ un’intera corte regale di vizi e virtù, che sembra permettere l’espressione del talento e invece, al contrario, condiziona il talento stesso: nell’intensissima introspezione si manifesta paura, disagio, follia, fenomeno psicologico ed emotivo, somatosi, et alia, in cambio dell’approdo a una forma, che è sempre una forma di se stessi.
Se, tuttavia, la forma è veicolo di consapevolezza e la ricerca della forma avviene al buio, mentre si sta creando (e si cerca la forma nell’attività poetica: intendo latamente poetica, cioè artistica – vale a dire di scrittura narrativa e in versi, di arte visiva, di performance, di musica, di arte plastica, di teatro), ciò che accade è quanto viene narrato nella citazione da Body Art: tutto succede tranne che il mondo circostante sia annullato. Anzi, si manifesta un’attenzione consapevole che è disponibile a centrare il proprio fuoco su qualunque fenomeno si presenti ai sensi o alla mente.
La risposta alla non-domanda di DeLillo è: quando l’introspezione raggiunge un’intensità tale da annullare il mondo circostante, appare la paura. La paura assume una forma psichica che può esternamente essere percepita come follia, bizzarria, creatività, esorcismo, ipersensibilità e un’infinitudine di altre interpretazioni. DeLillo inerisce a una domanda autentica, in pratica, che è implicita in Contrappunto e sarebbe così formulata:

“Cosa succede quando l’introspezione raggiunge un’intensità tale da non annullare il mondo circostante?”

Tale e ignorata è in definitiva la questione di Body Art, di Cosmopolis, dell’incipit de L’uomo che cade. Propriamente, è la questione che l’occidente rifiuta di affrontare. Per questo motivo, DeLillo è lo scrittore più tragico, più comico e più nascostamente epico del nostro tempo (e non intendo “epico” secondo la significazione data dalla critica ciechissima quando rivendica Underworld come “testo epico che narra l’America e la Storia”).
Contrappunto – Tre film, un libro e una vecchia fotografia sono 20 pagine che possono essere accostate a una raccolta di sutra orientali e che, come le raccolte di sutra, narrano in una maniera a cui l’occidente contemporaneo pare non essere più abituato: narrano il percorso che ha per esito l’approdo al vuoto, cioè alla possibilità che le foglie viste possano essere trafitte di consapevolezza.
Ecco un esempio di misinterpretazione che non dipende dall’interprete, bensì dall’impossibilità dell’occidente a togliersi le vesti e a recuperare la naturalezza della nudità in questo tempo. Scrive di Contrappunto Michele Lauro su Panorama (confondendo la questione essenziale posta da DeLillo, poiché la trappola interpretativa è sempre la contrapposizione di opposti mentali, spesso di derivazione Romantica, come, nel caso di Lauro, il conflitto genio/follia):

Don DeLillo sperimenta sulla pagina scritta la composizione di voci sovrapposte, prendendo spunto, anzi facendosi suggestionare, da un insieme di suoni, parole, immagini statiche e in movimento. Le voci sono quelle di tre geniali artisti attivi nella seconda metà del secolo scorso. Il pianista canadese Glenn Gould (1932-1982) è protagonista del secondo dei film citati nel sottotitolo, Trentadue piccoli film su Glenn Gould, 32 ovviamente come le Variazioni Goldberg di Bach – il re del contrappunto – opera su cui Gould si cimentò per tutta la vita e che rimase fra le sue interpretazioni esemplari. La figura del pianista è in stretta risonanza con il primo dei film, Atanarjuat, algida visione di antiche leggende inuit ambientate nel profondo Nord, uno spazio geografico-interiore da cui Gould era profondamente, ossessivamente attratto (isolamento, solitudine, estasi), anche se in vita non riuscì mai a raggiungere il Canada artico ovvero la sua idea di Nord. La voce dello scrittore austriaco Thomas Bernhard (1931-1989) si accorda alle note del pianista: un suo libro, Il soccombente, si apre infatti con un suicidio che si consuma nell’ascolto della prima Variazione Goldberg eseguita da Gould. Non solo. Tra Bernhard e Gould si assiste a una progressiva fusione: “Le identità di autore, narratore e personaggio sfumano l’una nell’altra” dice DeLillo. Lo stesso Gould nella sua opera “non si limita a reimmaginare Bach, ma intavola una sorta di dialogo correttivo con se stesso”. Il terzo film, Thelonious Monk: Straight No Chaser, si apre sulle note sbilenche del piano di Thelonious Monk (1917-1982), icona jazz e con melodie come Round Midnight divenute patrimonio immortale nonché personaggio bizzarro, indecifrabile e dedito agli eccessi, fino alla schizofrenia che ne ha minato gli ultimi anni di vita. Monk è fra i protagonisti anche della “vecchia fotografia” scattata al Village nel 1953, che lo ritrae in compagnia degli altri santoni del be-bop: Charlie Mingus, Roy Hanes e Charlie Parker.
Mentre le voci dei tre virtuosi si inseguono in contrappunto, il lettore scivola nel cuore della melodia per affrontare l’interrogativo cruciale. Le oscure controparti del genio luminoso sono – fin dalle civiltà antiche – la solitudine, la distanza, l’introversione, l’isolamento dalla società, fino all’inevitabile malattia. “Cosa succede quando l’introspezione raggiunge un’intensità tale da annullare il mondo circostante?”. La domanda chiave non può avere risposta. Nell’urlo muto di Bernhard sull’Etna, nelle dita di Gould che si muovono in spazi immaginari, nella danza derviscia di Monk è l’eterno confine, labile, per lo più invisibile, fra genio e follia [grassetto mio: qui è la conclusione di una prospettiva fuorviante rispetto al non poter rispondere alla domanda sulla consapevolezza. gg].

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