La mia amica D., in tempi non sospetti, ha scritto questo:
Nel Salon del 1848, Charles Baudelaire scriveva: “la critica, perché sia giusta, dunque perché possa avere la sua ragion d’essere, dev’essere parziale, appassionata, politica, vale a dire fatta da un punto di vista esclusivo ma che apra il massimo di orizzonte”. Aprire il massimo di orizzonte significa anche aprire il massimo di spazio operativo non solo per il lettore, a cui la critica pare rivolgersi in prima istanza, ma anche – e forse soprattutto – per chi scrive e scriverà. La giustezza della critica, come avrebbe potuto definirla Benjamin che proprio da Baudelaire è partito per tante delle sue riflessioni, coincide con una apertura, una apertura operativa: perché la critica è un’azione, così come lo è la parola letteraria, la parola poetica. La giustezza della critica ha una condizione – antiretorica – che la accomuna alla scrittura letteraria: fare ciò che dice, coincidere con ciò che asserisce.
La legge della critica non è diversa da quella della scrittura, infatti la critica è un’azione che accade dentro la lingua, attraverso la scrittura: essa è – profondamente e non per modo di dire – l’imperativo alchemico del solve et coagula. L’esito è la coagulazione, la condensazione di un’esperienza di dissoluzione del testo – o nel testo – che chiama altre dissoluzioni e altre coagulazioni: l’apertura di orizzonte risiede probabilmente nel moto di dissoluzione che non è distruzione ma fluidificazione e scioglimento. Perché vi è una circolarità: come nella fisica qualitativa goethiana, ritmata da sistole e diastole. La fine del movimento, la fine di quest’alternanza che è una osmosi perché il respiro svolta, e ciascuno dei due momenti o poli del movimento svolta insensibilmente nell’altro, è la morte. Dunque non ci si può fermare o pretendere che la storia o la letteratura finiscano nel punto di coagulazione o dissoluzione che è stato raggiunto hic et nunc: la storia e la letteratura finiranno, se mai, nella catastrofe dell’umano (anche solo individuale) per il venir meno dell’interprete, nella scomparsa definitiva dell’uomo dalla faccia della terra e nella scomparsa della terra, nella fine del tempo. Se ciò non si dà, finché non si darà – perdizione o redenzione che sia –, le forme trasmuteranno le une nelle altre senza soluzione di continuità (anche in nostra assenza, soprattutto in nostra assenza). E anche gli scarti, gli stacchi, entità ontologiche abissali, non saranno che salti (quantici) che intervengono a ritmare complicandolo un continuum che si raddensa in polarità che possono apparire opposte.
Ma l’individuo che compie quest’opera non solo non è esente dal moto di dissoluzione e coagulazione che investe la materia dei testi – il testo è la materia prima di questa alchimia –, ne è profondamente investito – se così non è, non c’è critica; se così non è, non c’è scrittura: “vaporizzazione e centralizzazione dell’io”, dice ancora Baudelaire – l’io è la materia prima di questa alchimia.
E ora una premessa: parlarne qui, parlarne in questi termini, senza il supporto dei testi ossia senza l’accadimento-esibizione in atto dell’opus criticum, è già uno slittamento, un tradimento, una traduzione. È, anche, una premessa, almeno localmente: una premessa che si riflette in se stessa, una premessa che, come ogni premessa, arriva al termine provvisorio di un percorso, alla chiusura di un cerchio, prima che il cammino riprenda descrivendo un altro cerchio più ampio, che torna inevitabilmente al suo inizio… e così via. Parlarne in questi termini significa offrire solo figure, rinviare all’opera per speculum et in aenigmate. Significa anche affermare, proprio attraverso queste figure, che niente sostituisce o può sostituire l’opera – ma le figure, nella loro allusività, la portano, possono accompagnarla e indurla. Nessuna comprensione può darsi se non attraverso una personale vaporizzazione e centralizzazione dell’io: nulla può sostituire questa esperienza, questo attraversamento. Un altro soggetto non può compierlo al posto nostro: può precederci, confortarci – per il fatto di averci preceduto – sull’umana possibilità di intraprendere questo cammino, ma la sua esperienza non può sostituire la nostra. Occorre fare il percorso in sé, rifarlo. Il fatto che altri uomini abbiano vissuto prima di noi, non ci esime dal vivere e non risolve – volta per volta, quando si presenta – il dilemma della scelta. È falso pensare che si possano accumulare conoscenze tesaurizzate da altri. Si può farne tesoro nel senso di chiedere consiglio, cercare lumi nell’esperienza altrui… ma poi cammineremo con le nostre gambe, agiremo con le nostre mani – nel bene e nel male. Virgilio accompagna Dante nel suo viaggio ultramondano, lo accompagna per un tratto, e poi lo accompagna Beatrice. Ma il viaggio rimane di Dante. È come se Dante fosse un Platone che torna verso il mondo delle Idee, compiendo a ritroso il cammino dell’incarnazione: non è come se, è. Nessuno può percorrere per lui la via che dal groviglio della foresta oscura porta alla visione – la visione non è garantita, la visione può anche non arrivare, il rischio è reale, la diritta via è davvero smarrita, non per modo di dire.
È falso pensare che vi sia un sapere che può essere trasmesso come un pacchetto di informazioni, una quantità di byte incisi su silicio, una moneta del pensiero. Il poeta, il critico, possono solo, nella migliore delle ipotesi, nella convinzione che vi siano un vero e un bene attingibili attraverso il bello, fare la loro invitation au voyage, che non è superficiale invito alla lettura, ma invito a intraprendere il viaggio interiore di dissoluzione e coagulazione, di vaporizzazione e centralizzazione, in cui è consistita la scrittura (e in cui può consistere la lettura), un invito a salpare dal porto del sé verso un porto più ampio che a sua volta non potrà non essere un porto del sé, un altro sé raggiunto attraverso altro, in una alternanza di raccoglimento e abbandono. Da qui a qui, attraverso un lungo giro che è la vita. E, in un senso, si tratta di un viaggio immobile, di un viaggio sul posto: c’è un porto, sotto il porto da cui si salpa, che non viene mai meno ma che, tuttavia, si tratta di toccare. C’è una sostanziale immobilità che regge, e non per modo di dire, il movimento: un’immobilità dentro cui tutto accade, una quiete che è data ma non ancora avvertita, non ancora posseduta: di qui la necessità del viaggio.
Non si tratta di mettere in campo un nuovo apparato esoterico, ad usum modae o ad usum renovatio o ad usum Narcissi se non delphini – anche se qui si nega il fondamento di ogni essoterismo: l’essoterismo semplicemente non esiste, è un’impostura. Non c’è oggettività nel senso in cui l’afferma l’essoterismo di declinazione razionalista o scientista, anche in campo letterario: non ci sono nozioni, pacchetti di informazioni, che si possano spostare, sommare, sottrarre, moltiplicare, scambiare. Tutto questo nell’ambito dell’umano – e non ce ne sono altri, la conoscenza di cui “disponiamo” è conoscenza umana – non esiste. Non c’è oggettività, ma esiste l’oggetto, ed è centrale, un nucleo magnetico.
Non c’è valore di scambio, in assenza di valore d’uso, come vorrebbero farci credere. “E qual è dunque il valore d’uso della letteratura?”
Le parole non sono etichette. E nemmeno lustrini: specchietti per le allodole. Se Baudelaire utilizza il linguaggio alchemico, gnostico, allegorico, analogico, non lo fa per fare, per gettare un po’ di magico fumo negli occhi al lettore. O, se lo fa – toi, hypocrite lecteur, mon semblable – lo fa consapevolmente: gioca con l’insipienza, la pigrizia, la vigliaccheria, la riottosità di questo suo simile, di questo fratello. Prende in giro anzitutto se stesso. E le corrispondenze, come peraltro è stato fatto notare, sono ancor prima che sensibili o sensoriali, riflessi di una universalis analogia che è forma del mondo. Ripercorro altri passi, ricalco orme altrui.
Il sapere non è a portata di mano, o per dirla in maniera che di questi tempi non può non suonare provocatoria e forse anche settaria: non è alla portata di tutti. Ciò non significa che vi siano individui che costitutivamente non sono in grado di raggiungerlo: significa che è frutto di un lavoro, anzitutto su se stessi, dentro se stessi, ed è raggiungibile – anzi è già qui – se si è disposti a compiere questo lavoro, se si è disposti a sperimentare una conversione (ossia, ancora una volta una dissoluzione e ricoagulazione), altrimenti no. “L’arte non risponde mai al desiderio di renderla democratica; non è per tutti; è solo per coloro che sono disposti a compiere lo sforzo necessario per capirla. […] Si fa un gran parlare dell’umiltà che occorre per abbassarsi, ma occorre un’umiltà altrettale e un vero amore della verità per sollevarsi e con grande fatica conseguire più alti risultati”, ha scritto un traduttore. Ripeto: non ci sono pacchetti-moneta di nozioni-sensibilità-sentimenti che sia possibile scambiarsi. Non c’è nessuna acquisizione individuale che possa valere per qualcun altro, che si possa “lasciare in eredità” o scambiare: se si dà eredità, se si dà tradizione, se si dà scambio, è perché ciò che si scambia o si eredita, ciò che si riconosce come tradizione, è stato già in qualche modo acquisito, trovato, incontrato in prima persona. Solo questa dispositio rende possibile l’incontro, lo scambio, fatta salva la funzione maieutica. Non è un caso che Socrate dica di “non insegnare niente” ma di aiutare i giovani che si pongono rispetto a lui nella posizione di discepoli a partorire una verità che portano in grembo, in gestazione, già presente allo stato fetale se non rifinito. E cosa ha operato la fecondazione? I maestri si incontrano quando si è gravidi o fecondi, seppure inconsapevolmente. I maestri che non necessariamente sono vivi e presenti in carne e ossa. Infatti, secoli separano le vite di Dante e Virgilio, le loro biografie.
Se, in un tempo, gli uomini si sono pensati come nani sulle spalle di giganti questo loro pensiero e sentimento riflette qualcosa. Ma non necessariamente l’inesistenza assoluta del novum, la sua inattingibilità. Sarebbe una lettura assai letterale della loro affermazione.
Ogni individuo che nasce è un novum – almeno finché clonazione non ci smentisca – e dunque ogni soggetto che pensa o scrive è dotato di una individualità mai avvenuta prima.
Quale sguardo? Quale forma? Siamo abituati a pensare lo sguardo della teoria, lo sguardo della critica, come uno sguardo dall’alto e da fuori, uno sguardo panoramico, una sorta di sguardo divino: uno sguardo che si arroga la posizione e la visuale di quello che umanamente immaginiamo possa essere lo sguardo di Dio nel modo in cui è stato emblematizzato: un occhio al centro di un triangolo. Ci sono molti tipi di sguardo, di percezione dello sguardo. Di autorappresentazione dello sguardo. Per prima cosa dirò che lo sguardo dall’alto e da fuori è uno sguardo rassicurante (o inquietante): non gli sfugge niente. Quindi conosce la verità: la vede. La verità di un testo, in questo caso, la verità del mondo. Paralizzata in un istante: ma esiste il tempo. Il futuro e il passato sono adesso nell’occhio di Dio? E il mondo, nel suo occhio, è finito? È già finito? È conchiuso?
Esiste il tempo e il problema della visione di Dio – o della visione in Dio – è un problema complesso: limitiamoci allo sguardo umano. L’esperienza di abbracciare l’orizzonte equivale a una visione dalla sommità di una montagna, e ancora la totalità della terra ci sfugge. Forse è meglio la terra vista dalla luna, o da una navicella spaziale abbastanza distante per coglierla nella sua rotazione: perché la terra si muove. L’esperienza di abbracciare l’orizzonte equivale a una visione dall’alto di una torre altissima (la torre di Babele?) o, come ha scritto qualcuno, a una visione a volo d’uccello: ma l’uccello si muove, se non vola, cade (il suo è uno sguardo costitutivamente mobile, pertanto). È questa una visione che dà un senso di potenza? Può darsi: tutto rientra in un unico quadro, almeno astrattamente. Allora lo sguardo della teoria, lo sguardo della critica in via astratta contiene una pulsione: la pulsione a dominare o a contenere tutto, la pulsione a non tralasciare niente, la pulsione a restituire l’oggetto (anche un oggetto vasto come il mondo) in maniera completa, totale. Una pulsione è un conato, non è necessariamente una realtà. Questa è la pulsione astrattiva dello sguardo, che diventa pratica astraente: il respiro della pulsione astrattiva si rovescia (svolta) in una pratica astraente: inspiro ed espiro. Lo sguardo non ha limiti, contorni propri, evidenti, come la mano, il braccio: contiene tutto quello che può caderci dentro. In un senso seleziona, ma molto meno del tatto: se tocco un oggetto non posso contemporaneamente toccarne un altro; se allungo la mano e non lo raggiungo, non lo tocco… oppure mi devo spostare con tutto il corpo. Lo sguardo è aperto, abbastanza aperto, non ha confini esterni apparenti ma è portato dal corpo, limitato dalla fisiologia dell’occhio (e del cervello). Lo sguardo aperto portato dall’occhio portato dal corpo nella realtà si sposta dentro una foresta di corpi, si muove tra le cose, a una certa altezza, determinata dalla statura del suo portatore: certo, posso salire in piedi sopra una scala, o arrampicarmi su un albero e aggrapparmici col corpo facendo girare lo sguardo a trecentosessanta gradi, come la civetta di Radi. Ma normalmente cammino in un foresta di corpi, animati e inanimati e li colgo nella loro animazione o immobilità, un’immobilità sempre presunta, momentanea, più astratta che reale. Questo dovrebbe/potrebbe essere lo sguardo della critica dentro la forma: nella foresta del testo. C’è una dimensione di attraversamento, che è temporale. Il testo non è istantaneo: è uno spazio di scrittura che si snoda, è uno spazio di caratteri che evocano e dunque scompaiono in quanto caratteri per lasciare posto a ciò che chiamano, è un sogno ad occhi aperti che viene compitato, decifrato, seguito. Allora il tempo e la postura nello spazio, il tempo e il movimento fluiscono incessantemente nel soggetto e nell’oggetto, nel lettore e nel testo, nel critico e nel testo. È strano pensare a un testo come a un oggetto spaziale: il testo è un’esperienza temporale, per lo più interiore, contenuta nel parallelepipedo magico del libro, dell’oggetto libro che, quello sì, può essere spostato, esiste spazialmente e può essere distrutto dalla faccia della terra, insieme all’esperienza che evoca. Oppure il supporto, questa pillola allucinogena che è il libro, rimane, ma è la lingua in cui è scritto ad andare perduta: le sostanze vitali di cui è composto diventano improvvisamente frammenti inorganici inutilizzabili, diventano improvvisamente disumane. Cadono fuori da ogni comprensione possibile. E interrogano. Decifrazione dei geroglifici, dei caratteri cuneiformi: se “niente di ciò che è umano può esserci estraneo”, ciò che è identificato come lingua, come messaggio, come sogno a occhi aperti, come allucinazione possibile, non può lasciare indifferente l’animale intenzionale.
Vorrei parlare dell’intenzionalità, di come si costituiscano contemporaneamente, nella profonda riflessione husserliana, il polo soggettivo e quello oggettivo – separabili solo in via astratta. Non c’è testo senza lettore, dunque, e non c’è lettore senza testo. Ma non c’è lettore che arrivi alla fine di un testo uguale a se stesso: simile in questo al fiume eracliteo, e allora il testo è il greto, l’alveo del fiume, ma anche le minuscole particelle acquatiche che vengono inconsapevolmente a costituirci. Cosa possiamo fare? Narrare questa esperienza usando espedienti, creando una lingua, una lingua critica. Ogni lingua critica è un tentativo di caracteristica universalis come lo è, del resto, ogni lingua letteraria: pulsione totalizzante. Si sta, quantunque parzialmente inconsapevoli, su uno sfondo di consapevolezza che si cerca di dilatare. E la lettura critica, attraverso la trascrizione di se stessa – che comporta un ulteriore passaggio nel tempo, un ulteriore bagno nel tempo –, è il tentativo di emblematizzare un’esperienza, di restituirne le coordinate. Si creano costellazioni, si tracciano congiunzioni astrali, come all’epoca dell’inesistenza della luce elettrica o dei lampioni a gas: è lo stesso movimento, verrebbe da dire. Il testo mi dissolve e mi dà la possibilità di coagularmi. Per questo non ha senso pensare a una scienza esatta, di aspirazione positivista, della critica. Il sogno positivista è un sogno bellissimo, ma – per il testo non diversamente che per l’uomo – è un sogno macchinico. Dov’è l’anima in tutto questo? Non ha senso separare l’anima dal corpo: non lo faceva neppure Cartesio, costretto a ipotizzarne la comunicazione nella sublime ipostasi della ghiandola pineale, sito abissale, ombelico del mistero. Il tutto per dire cosa?
La critica rinasce ogni volta che qualcuno si accosta a un libro e sente il bisogno, la necessità impellente di mettere in comune l’accaduto: né il testo, né l’esperienza gli bastano. L’uomo è un animale supplementare, perennemente insoddisfatto o, se si preferisce, temporale: travalicante, un élan vital che ha costantemente bisogno di fissarsi, di vedersi per sentire di esistere e contemporaneamente di superarsi. La critica non è diversa dalla conversazione. Perché (ci) raccontiamo? Perché ascoltiamo? Che bisogno ne abbiamo?
Guardando le cose in maniera così elementare, così dal basso, ci si rende conto di una necessità: quella di abbattere alcuni eidola, pur sapendo che il loro abbattimento, fissandosi – ossia coagulandosi –, ne creerà di nuovi. Ma l’imperativo non solo husserliano del “ritorno alle cose stesse” rimane centrale. È il parametro su cui misurare costantemente la propria attività di lettori che ripetono, sintetizzano, restituiscono, trasmutano esperienze. Ma di quale “trasmissione” si tratta: mi sembra una corrispondenza d’amorosi sensi non diversa da quella dei sepolcri. Si cerca di scavalcare la distanza, la diversità, la differente conformazione e collocazione monadica, nel momento stesso in cui si prende atto della singolarità di un’esperienza irripetibile. Un’esperienza a due, peraltro: il lettore-critico e il testo. Allargare la polarità: una diade che diventa triade, lo schema peirceano che diventa vivo, il mistero dell’interpretante, un ponte gettato sul vuoto in cui si spera di incontrare un’altra polarità. Il mistero della critica è lo stesso del linguaggio, della comprensione-incomprensione tra esseri umani.
Il testo è anche una partitura, una partitura per lo spirito, per la mente, per l’immaginazione radicata in una memoria corporea sempre latente sempre attivabile. Il testo è un oggetto composto secondo determinate regole, che sono regole temporali, anche se hanno una trascrizione, una traduzione spaziale: misconoscerlo significa fraintenderlo. Esempio banale: una certa parola non ha lo stesso peso in un punto del testo piuttosto che in un altro, dunque le occorrenze non sono reversibili, non sono interscambiabili, hanno un valore temporale in relazione al flusso del vissuto di lettura. Certo, tutte le parole esistono simultaneamente nel corpo dell’oggetto libro: ma non è questo il loro uso corretto, non è dalla loro contemporaneità spaziale che può essere ricavata la loro funzione. Errore della vulgata strutturalista: spazializzare la temporalità del testo. Il testo è una tela come può esserlo una sinfonia o un poema orale: in un senso molto lato e traslato. L’hapax è un accento, più che un punto individuato nell’indifferenziazione spaziale, e quando lo si riconosce, non subito ovviamente (la lettura non è lineare, va a spirale, ha un andamento di risacca), diventa a posteriori l’irripetibile, il caduco, la scintilla di perfezione. Strategie temporali: ritmi. Il ritmo di un testo è tutto, il suo sviluppo, la sua modulazione. Non scambiare la descrizione metrica (spaziale) per la successione modulatoria-incantatoria. Il testo – prosa o poesia – non è un puzzle, non è un lego. È un flusso. Ritmo del sentire, ritmo del pensiero: idion. Parlare del tempo è la cosa più difficile. Il tempo, e la scrittura che è tempo, consente di parlare dello spazio: lo scioglie, lo dispiega. Come dispiegare il tempo nel tempo? Come mostrarlo? La scrittura (letteraria) sceglie di agirlo. La scrittura critica, a volte (nel peggiore dei casi), come la scrittura scientifica (sedicente tale), lo dissimula. Accettare la dimensione ermeneutica significa partire dall’idion, da quell’idion di secondo insondabile grado che è l’incontro tra un soggetto e un testo (un oggetto estetico è stato erroneamente detto, pensando in qualche modo a un’afferrabilità istantanea, ma neppure un quadro, neppure un paesaggio, si coglie istantaneamente). L’istantanea non esiste: è come lo scatto dell’occhio di un uomo che muore, l’immagine staccata dalla lama della morte, ultima immagine.
A volte, parlando con altri lettori, mi viene da chiedere: ma come? Non ci hai pensato? Cosa hai sentito? Che griglie hai applicato? Farsi attraversare, sottoporsi al fuoco di fila, al getto fortissimo emanato dal testo, lasciare che il suo geyser pieghi le strutture pregresse, deformi le griglie, ci consegni una nuova forma di noi stessi, per partire in nuove perlustrazioni, dentro nuove passioni. Tutto questo è ingenuo? È il principio dell’esegesi: l’inter-azione. Azione reciproca. L’interpretazione è un essere agiti che agisce, si fa attivo, rilancia.
Dov’è l’oggettività del testo in tutto questo? Sta, certo, ancora una volta, nella sequenza di parole, nel loro ordine, nella punteggiatura, nelle spaziature, nelle campiture, nelle suddivisioni. Nella traccia. Ripeto: neppure un quadro può essere guardato in un istante: il tempo esiste. Ne siamo talmente consapevoli da dimenticarlo continuamente. Ogni nuovo compositum humanum, come amavano chiamarlo i cartesiani, fa venire alla luce una nuova possibilità di sintesi, di interazione, di esperienza: qualunque sia la fissità dell’oggetto. Non è l’oggetto in sé a cambiare, è lo sguardo, la radicalità dell’esperienza a rinnovarlo, eppure l’oggetto umano, dotato inevitabilmente della mortale (perché temporale) abissalità del suo produttore, contiene già tutti gli abissi della comprensione e del fraintendimento. È una totalità continua, sempre più complessa al concrescere del tempo. Quanto meno temporalità contiene (quanto meno ha fatto i conti con la temporalità, o quanto meno l’ha lasciata scivolare al proprio interno) tanto meno è parlante. Mistero dell’invecchiamento. Compararsi all’oggetto, comparare l’oggetto a sé. Commisurarsi. È questo il lavoro agrimensorio del lettore. Ma il nucleo afferrabile con una mano non arriva mai: la verità indicibile del testo rimane la sua capacità di agire, di intercettare il lettore. La sua protratta capacità. Compatibilmente con la sopravvivenza dell’idioma in cui è redatto.
Una critica fenomenologica potrebbe portare in primo piano la questione dell’interazione soggetto-testo, porsi come una risposta attiva che non nega l’idion – la duplice individualità – ma cerca di farla rilucere tra le pieghe della descrizione. Arricchire il testo, se possibile: cosa significa? Renderlo fluido per un possibile lettore al quale dovesse risultare inerte. Perché? Per l’impulso a condividere il piacere, la meraviglia o l’angoscia. Non si vuole rimanere soli. Ci si illude, passandosi l’avatar dell’esperienza, di potersi passare l’esperienza. Scrittura critica: l’allucinazione di un’allucinazione. Condividere un sogno: far sedere qualcuno nella camera oscura della propria mente mentre scorrono le immagini del film irripetibile – indimenticabile – proiettato dalle parole. Cosa mi ha detto di me stesso? Cosa mi sta dicendo? Come mi sono conosciuto? Sospensione del tempo (ordinario) in cui si ricrea il tempo (vissuto) riformandolo: un vissuto all’ennesima potenza – o spettrale (a seconda dei punti di vista). Il libro, come il quadro, diversamente dal discorso orale, diversamente dal paesaggio, posso ripercorrerlo: ho l’illusione di farlo e di scoprire nella sua struttura, nel suo andamento il segreto della sua magia (che è poi il motivo per cui ne parlo, per cui ne scrivo). Catturare l’illusione, impadronirsene: giocare (che non è esattamente la stessa cosa del sogno dello sguardo panoramico). Ho divagato. La scrittura, arte del tempo attraverso lo spazio, non può essere compresa a prescindere dal tempo. L’imperativo ritmico del “solve et coagula” suggerisce e emblematizza questa dimensione. C’è poi la questione di cosa si chiede a un testo (è la stessa, in effetti): quale tipo di verità. Platone parlava del vero, del bene e del bello. Con l’articolo determinativo. E con una precisa relazione (gerarchica), data per scontata.
A noi – qui / ora – viene più spontaneo parlare di “funzioni”: non che sia più fondato. La funzione estetica, ecc.: parcellizzazione dell’esperienza. Le regioni non-comunicanti dell’intenzionalità. Sì, c’è un oggetto (che poi è un flusso), ma come è dato? In quale orizzonte?
L’orizzonte lo dà l’intenzione autorale (anche involontaria) in relazione al contesto. C’è uno zoccolo di consapevolezza, di volontarietà da cui non si può prescindere. Detto questo, resta l’ordine delle parole, la trama fonico-ritmica che costruiscono, le immagini che dipanano e come tutto questo si organizza, in relazione a quale progetto (raggiunto… mancato). Com’è fatto questo idion, anzitutto? Come si presenta? Come interagisce? Non posso certo dirlo a partire da una sorta di neutralità: la critica fenomenologica, per quanto possa mettere tra parentesi le griglie e le istanze interpretative pregresse, non può certo prescindere, rimuovere e mettere tra parentesi la postazione soggettiva da cui si dipana il raggio intenzionale che si intreccia inscindibilmente con la polarità testuale. Ecco: queste parole sono scritte da un soggetto intorno alle parole scritte da un altro soggetto, a partire da quell’impulso. Non sono scritte da chiunque e nemmeno da nessuno. Più che di fusione di orizzonti si dovrebbe forse parlare di trattativa, di concertazione, di mediazione di orizzonti. Violenze reciproche: purché siano dichiarate. Il senso di questo discorso è forse la dichiarazione preliminare di non-dissimulazione, non-occultamento, non-neutralità: nei limiti del possibile. Detto questo, il testo è guida. Virgilio è un primo livello della poesia, va bene per inferno e purgatorio. Poi però arriva Beatrice. Ci sono gradazioni. Ordini di priorità: la grammatica, la retorica… e poi? Il pensiero ha molte maschere, molti indispensabili travestimenti. La via diretta non è necessariamente la più breve o quella che porta all’agognata destinazione. Ciò che è astrattamente auspicabile non è necessariamente praticabile quando si entra in sfere di interazione complesse. La comprensione è frutto di un percorso. Forse anche l’illuminazione è l’esito di un percorso, benché sembri una prole sine matre creata. Dare l’idea del percorso è un modo. Il viaggio non è solo una dislocazione nello spazio: è una dislocazione nello spazio attraverso il tempo. L’istantanea bi-locazione non è un viaggio. La metafora del viaggio significa qualcosa del tempo. Iliadi e odissee: conflitti e viaggi.
Allora: il testo. Entrare in risonanza. Come quando si traduce. È un’esperienza che si può sempre fare: basta mettersi lì, aprire il libro. Si è investiti da un flusso di parole, si inizia a intuire qualcosa, a riconoscere delle forme, via via che il flusso si snoda. E via via che il flusso si snoda si anticipa e si regredisce, si fa continuamente la spola in un tempo, mentre l’altro scorre irreversibilmente. Sagome, masse, incantamenti, ottusità, dissonanze. Si procede, si torna indietro. Protensioni e ritensioni (o ritenzioni), diceva Husserl nella Fenomenologia della coscienza interna del tempo. L’antitesi fa capovolgere il tempo: dà l’impressione di un capovolgimento del tempo. Di un suo scorrere a ritroso. Di qui l’idea di circolarità. (Lo scrivo pensando alla tecnica compositiva di Victor Hugo). Insistendo sulle vocali (sempre nel caso di Victor Hugo). Dimostrazione fonica di un principio retorico: dimostrazione come si dice “esibizione”, come quando un venditore fa la dimostrazione di un prodotto. Così agisce la letteratura. Mostra, esibisce, incarna: l’idion. Guarda, o meglio, vedi: ogni cosa si rovescia nel proprio contrario, che poi a sua volta si rovescia nel contrario, e così via. Questo è il flusso. Primo livello. Gli accenti, l’andamento degli accenti: dove appoggia la voce? Importanza delle vocali e delle consonanti che le uniscono, le sorreggono. Non sono le vocali a sorreggere le consonanti… emissione della voce.
C’è altro. C’è l’orizzonte letterario, il sapere pregresso, la techné, la cassetta degli attrezzi dello scrittore, lo sfondo a partire dal quale ha deciso o si è trovato costretto a scrivere. I generi, le forme, gli artifici principali e comunemente accettati: l’orizzonte di partenza, diciamo.
Come interviene la sua individualità? Con quale forza, con quale potenza, con quali intenzioni (reali, presunte, consce, inconsce)? Cosa c’è prima? E dopo? Che dichiarazioni ha fatto? (leggerle in filigrana) Cosa ha prodotto? Che tipo di oggetto? Ossia: che tipo di esperienza ha voluto indurre e/o veicolare? Sembra che la letteratura non esista in questo discorso: non esiste come disciplina accademica, diciamo, perché non è nata per esserlo, anche se è uno dei suoi destini possibili. Così come il corpo non nasce per la medicina, e nemmeno per l’anatomia. Non nasce per il regime separato della malattia, anche se la malattia non è soltanto un accidente (come la morte, del resto).
Ogni nuovo scritto re-interroga la nascita della letteratura, la nascita della scrittura. Esordire: uscire dall’ordine, ma anche creare un ordine ossia uscire dal caos, da qualcosa di insoddisfacente, di insufficiente. Cosa accomuna lo scrittore e il critico: l’insoddisfazione del pregresso, il senso di insufficienza, inadeguatezza, incompletezza, lacunosità, nebulosità, debolezza del pregresso. Comunque: qualunque cosa i due dicano. Presunzione comune o comune ottusità. Sta di fatto che “c’è qualcosa (o tutto) da rifare”. Si potrebbe scambiarlo per narcisismo, ma non è solo questo. Non è esattamente essere innamorati di se stessi ma provare meraviglia – una meraviglia ineludibile – di fronte a qualcosa che sembra di aver visto nascere per la prima volta coi propri occhi.
Qualunque interrogazione è lecita, purché sia dichiarata, qualunque domanda. Anche spingere, forzare, se questa attitudine violenta fa sprizzare liquidi vitali, nutrienti, urticanti. Che ci fanno rimbalzare indietro.
Questo discorso nasce da una esperienza diretta, la traduzione, che è semplicemente un approfondimento, una radicalizzazione, un inveramento dell’esperienza della lettura. Il punto di vista esclusivo, a cui allude Baudelaire, è, inevitabilmente, quello del soggetto che intraprende il voyage, che inevitabilmente, per Cèline come per Dante, è un voyage au bout de la nuit, ossia verso la luce. E le chiavi di lettura si trovano dentro il testo: è lì che occorre cercarle. Non ci sono altri luoghi.
Dunque la lettura è un’azione (un’interazione, per essere precisi), più che una contemplazione: non c’è alcuna verità pregressa. Prima dell’interazione rappresentata dalla lettura ce n’è un’altra – la scrittura: corpo a corpo tra lo scrittore e la lingua che si dispiega dentro il discorso, la filatura o tessitura dello scritto. Ma la lingua, a sua volta, non è qualcosa di separato e separabile: è fatta di discorsi scritti o orali – altro luogo non c’è, altro corpo non ha, senza luogo e senza corpo non esiste: le grammatiche sono la sua anatomia, in un senso. La lingua non è uno scheletro che possa esistere separatamente. O una massa di carne che possa esistere separatamete: è un organismo in cui lo scrittore è immerso, il lettore è immerso. La lingua, per come è stata pensata, non esiste. La lingua, per come è stata pensata, è un’astrazione mitologica. Saperlo quando si affronta la lettura, la scrittura. Non c’è una lingua come una cassetta separata da cui si possano prendere elementi. L’apprendimento della lingua è un fare, è un’azione compiuta dal cervello, sensibilità, cuore e organi fonatori: l’apprendimento della lingua è un gioco che improvvisamente, a un certo punto (quando?), diventa la realtà.
Il “come” del testo è il suo aspetto fondamentale. Il “come” del testo è il testo: ed è qualcosa di estremamente complesso, che coinvolge contemporaneamente moltissimi piani. Si cerca di attraversarlo a poco a poco, lasciando tralucere questa complessità, cercando di violentarla il meno possibile: e tuttavia è un corpo a corpo.
La deregulation della critica è quel movimento per cui la percezione dei corpi (del critico, del testo, dello scrittore) si perde, per cui il “come” non ha più senso: è tutto già dato, predigerito, in griglie pregresse, di cui possiamo conoscere in anticipo i risultati: non c’è alcuna trasmutazione, c’è anzi rimozione costante della dimensione vitale e corporea che agisce e su cui agisce la trasmutazione. È tutto asettico. Un obitorio. Siamo in presenza di preparati anatomici. Non ci sono uomini, non ci sono secrezioni: ci sono solo cadaveri che odorano di formalina.
Torturiamo un testo vivo: è meglio. Sentiamolo gridare, agitarsi, inarcarsi, emettere suoni, liquidi, odori, sostanze. Sentiamoci sporchi. L’anatomia è una finzione: il cadavere è una finzione. Sono corpi vivi quelli che vengono dissezionati, ma il critico è come rivestito da una pellicola di plastica, è sordo: è carnefice e non si accorge di esserlo, non vuole accorgersene. Certo, esiste l’espressione idiomatica “massacrare un testo”, ma ha perso ogni pregnanza e, del resto, si riferisce a un’altra operazione: la stroncatura. Senza stroncarlo, siamo sempre in condizione di massacrare un testo. Che fare?
La deregulation della critica è l’impero del gusto, delle idiosincrasie individuali spacciate per regole auree e declinate sotto forma di metodi di indagine intersoggetivamente condivisibili, oggettivamente esistenti, sui quali esiste un accordo. A chi sto parlando?
La deregulation della cultura è trattare i corpi e i loro prodotti come fossero morta merce, costringerli a stare nella camicia di forza, nella pellicola plastificata della merce: fusi di pollo al supermercato. Eviscerati, decapitati.
Queste cose non si devono dire. E non perché coincidano con una sorta di rivelazione di cattivo gusto della nudità del re: affatto. Queste cose non si devono dire perché i morti – quei morti lì almeno – non esistono, sono ben vivi. I polli disossati sotto cellophane non esistono: qualcuno li vede, ma non esistono comunque. Chi ha perso la capacità di vedere la vita, di interagire con la vita e con i corpi si interroghi. Non lasciamoci ridurre allo stato di cadavere: lo diventeremo, a un punto, e ci decomporremo, se non ci saremo fatti cremare. In ogni caso, per ora non lo siamo ancora completamente, quantunque il nostro corpo emetta continuamente residui. Perché dovremmo morire prima del tempo? O incauti visionari, vi caveremo gli occhi, vi taglieremo le mani, vi strapperemo la lingua e le budella, vi entreremo con rostri in tutti gli orifizi e infine vi decapiteremo… Volete ancora essere vivi? Dovete occupare lo spazio di un pollo incellophanato e pronto alla cottura.
Il libro è lì, pronto a spalancarsi, pronto a spalancarci. Il libro è lì: morto geroglifico da scambiarsi per… per cosa?
Spiegateci da dove viene tutto questo odio per la visione, tutto questo odio per la vita, tutto questo odio per i liquidi e per i corpi che li emettono? Rispondete: “muoia Sansone con tutti i Filistei”. Che lo stupore e la commozione scompaiano dalla faccia della terra, che la terra sia ridotta a un pianeta di cenere, a un pianeta deserto, a un pianeta morto. La generosità degli orbi: cavare un occhio a tutta l’umanità. Il proselitismo dei monchi: tagliare una mano a tutti quelli che ne hanno due.
E piccoli giochi di potere e di castrazione: ma talmente piccoli… Piccoli giochi di cadaverizzazione dell’esistente.
Il critico non sceglie di dissolversi di fronte al testo. È il testo a operare la dissoluzione del critico. Come? Investendolo con i suoi valori, investendolo con l’inaspettato, l’inatteso, lo sbagliato. Che cosa è sbagliato in un testo? Tutto ciò che non ci si aspetta. La scolpitezza, la plasticità. Lo sbagliato è la giustezza più profonda del testo: la sua capacità di agire, la sua energeia, la sua violenza non residua – vale a dire ineliminabile –, quella da cui nessuna griglia critica riesce a mettere al riparo. [L’anatomista è al riparo già da sempre: mai si è udito di un cadavere che abbia assalito il suo dissezionatore. Eppure – c’è da dirlo – anche i presunti morti si vendicano. Con la stupidità dei vivi / attraverso la stupidità dei cosiddetti vivi.]
Muori dunque… e non per scelta: semplicemente verrai ucciso. Il testo è più forte di qualunque istanza di dominio. È in grado di dissolverti. Il tempo diventa per l’incauto anatomista un redde rationem. Il testo sopravvive: il commento no. Si dissolve, sparisce. Come non fosse mai esistito.
Il soggetto – critico-lettore – non è in grado di dissolvere il testo: lo crede soltanto.Crede che i suoi attrezzi anatomici siano in grado di smembrarne l’unità organica riducendola ai minimi termini. Ma la vita è già assente. È già un corpo morto, un cadavere, quello a cui ci si trova di fronte in simili casi. Un vivo – in realtà – considerato un morto, morto.