L’opera assoluta di Alessandro Bergonzoni: un’installazione vivente

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Alle 11.30 stamani, nella Sala della Passione della Pinacoteca di Brera, ho assistito a un’installazione performativa di Alessandro Bergonzoni. Il titolo era complesso: “TUTELA DEI BENI: CORPI DEL (C)REATO AD ARTE (IL VALORE DI UN’OPERA, IN PERSONA)”. La sala era, come si suole dire, gremita. Si suole dire tutto: vi siete accorti? Con quali parole, con quale disperazione infibrata, con quale infibulazione io posso continuare a solere dire e solere dire proprio la disperazione e la primaria meraviglia, l’incubo dell’incanto, l’enormità del tutto che mi è concesso nello spazio piccino di me, che sono immenso nell’aria e sono l’aria, che vede e sente e suole poco? Poiché questo è stato assistere all’opera d’arte di Bergonzoni: è stato non assistere, ma essere, ed esserci, lì, dove il suo corpo muto e fermo mormorava l’inesausta vibratilità di quel mantra sottile che ci fa essere pianti da quella che si suole dire realtà. Io ho assistito alla croce verticale, oggi. La croce è una linea che organizzò lo spazio, quando noi, scimmie un poco angeliche e molto meschine, imparammo prima della nostra storia a essere spazio e a essere tempo: essendo il corpo, allontanandoci da quello e avvertendo l’impulso alieno e fossile ad averlo e non a esserlo, sforzandoci quindi con impeto focolarino di riappropriarcene, mentre facevamo la strage e lo scempio di corpi viventi che dispongono della comprensione del cosmo in cui sono sgocciolati a una vita nuova e pesante, mostosa e metallica: hanno, i corpi, la capacità equivoca di essere tutto non essendolo. A quell’incrocio, quindi in una croce, abbiamo stabilito la nostra storia, con le sue pietre miliari di sangue secco coagulato male, in perenne ossidazione, distinguendo il lì dal qui, il prima dal dopo e perfino ciò che sta e si muove. Sapevamo tutto, dimenticato, dimenticandolo, sfogliandoci nell’aria chimica di un pianeta mai esausto, una imperennità che consideravamo ironicamente stabile, sotto la nostra natura bipede e piatta, massacrando il volto all’infermo, massacrando di colpi all’inferno. Che cosa è, dopotutto, un inferno?: è uno spazio, è geometrico, per esempio: una cella, non affrescata. Non in un duomo o in un’escrescenza delle nostre, architettoniche, biche, robe entomologiche variamente slanciate e rastremate verso quello che si suole dire alto. Una cella senza affreschi, senza dipinti secenteschi di minore importanza, onusti e iscuriti dell’opera lenta e infame dei candelabri che sono i nostri fiati. Come quelli che lì avevamo alle spalle e ai lati tutti, chiusi in una sala semibuia della pinacoteca: una cella chiusa, non si poteva uscire, e senza carceriere che non fosse la nostra stessa volontà di restare lì a vedere: vedere cosa? Lo spettacolo dell’arte, da tempo immemorabile, è stato ed è finito, si è sfinito: il tempo è sfinimento. Il museo spartisce con la guardia molto di sé e parecchio di noi, quelli chiamati democraticamente a informarci, a formarci, quando semmai il problema è l’opposto: sformarci è il nostro sogno precoce e indistinto, offuscato proprio dai corpi. In quale senso tutelava il bene e il corpo Alessandro Bergonzoni lì? Dove era? C’era la parete cieca, illuminata, vedevi la sua muratura, se non gloriosa, antica: l’antichità, questa ruggine del tempo che nemmeno hai vissuto tu, era un valore per le scimmie ingentilite dai pigmenti, che dalle grotte iberiche e francesi presero forme animali e migrarono ovunque: nei marmi, sulle tele, si appiccicarono ai muri. Eravamo, dunque, di fronte a un muro, metri di muro in verticale, pallidamente illuminato, quando è entrato, passo deciso e magrezza nemmeno più sapienziale, ecco: è entrato chi? Parrebbe Bergonzoni. Indossava lo spolverino nero che sembra la tonaca. L’altro giorno ero a Isernia, si avanzava un prete vecchio, illuridito dallo sfregare carne umana continuamente, non certo dagli scaracchi della divinità, ridotta da tanta era a un carro carnacialesco, con la cartapesta delle scritture sacre trasformate in bollettini dell’oratorio, e, mi dicevano, quel vecchio, con la gromma incrostatasi sotto l’unghia fino alla lunetta, era spretato e indossava la tonaca, illegittimamente: non avevo visto mai una tonaca più soave e luminosa! Perché come se fossero morti vestiamo i vivi? Quanto più casta e giusta è la nudità dei corpi, che li avvicina al loro disincarnarsi… Ritto, nello spolverino nero, alto come lo si conosce e secco, verticalissimo, il coccige allineato alla fontanella cranica, le mani lungo i fianchi, immobili, sia pure non serene, ha dato le spalle a noi, popolino di spettatori, noi: che eravamo gli inconsapevoli e, quindi, in un certo modo, in quanto inconsapevoli, i bambini, gli inermi, i massacratori. La voce di Bergonzoni ha rotto il silenzio. Era registrata. L’uomo era lì, a due metri e mezzo da me, voltato verso un muro, silenzioso: forse mormorava tra sé e sé qualcosa di inedito e troppo importante, forse il silenzio ha troppa importanza… Chiedeva, la voce di Bergonzoni, che, essendo registrata, aveva qualcosa del divino per come lo abbiamo pensato e non sentito da quando siamo tutti sapiens sapiens, chiedeva quella sua voce rimbombando un poco, quale rapporto ci fosse tra colpa e arte, accennava al tema della delicatezza della “presa in carico”, soliloquiava davvero?, era questa voce sola che a boato sussurrato ci parlava della cancellazione della beltà della persona dal Museo Esistenziale Dell’Arte… E si accendeva alla parete un quadro immenso da un proiettore verso il fondo della sala, sul muro premanzoniano si accendeva un quadro, una sorta di strano blu Klein, ridotto a quasi poco bianco in basso a sinistra in una pennellata larga verticale e, un poco ancora, in alto a sinistra, una pennellata minore. La voce spenta. La luce avanza i progressi della sua legione fatta spettro: i colori, infatti, si accendono. L’uomo Bergonzoni è rastremato verticale come una colonna, inaggettivata, non è dorica e non è ionica e soprattutto non è infame e in quei momenti non ha fame, neppure: è che è lì. Assiste, forse, all’accendersi di questo quadro immenso proiettato, immane, l’aria umana, i fiati di noi che nei minuti l’abbiamo perso, l’antico vizio all’attenzione, allo stare come quando si sta fermi, e abbiamo davanti a noi, che raccoglie la congerie concitata dei nostri sbadigli e delle nostre frenesie trattenute, un prete più che ortodosso, che sulle proprie spalle raccoglie le esalazioni di anima che emettiamo, questo prete bergonzonico che sta facendo la liturgia antica, preconciliare, dando le spalle al popolo e lanciandone i corpi eterici verso il tabernacolo che era centrale e qui è un quadro informale che si accende piano. Piano. Piano. Secondo i ritmi di questo saluto al sole e alle tenebre che tutto sono e sono anche umane – questo esercizio di rinnovato yoga e fisico e immaginale, disincarnato essendo carne, che *è* Alessandro Bergonzoni, un uomo ritto e pontificale, che fa da ponte, a noi, verso quel quadro che, ecco, si accende, ed è la forma immensa del volto massacrato di Stefano Cucchi.
Assume le gradazioni delle tonalità storiche che hanno preso tutte le immagini, le orientali quanto le occidentali, le masaccesche quanto le caravaggesche, con cui hanno preteso di spingerci tutti oltre l’immagine, oltre la bidimensionalità e oltre l’uomo carnale, il corpo derelitto, il corpo violato, preso in carico e rifiutato, reso rifiuto, reso violaceo come quegli edemi, il corpo straziato come quella restanza di sospiro che mostra i denti giovani e consumati e intatti, la lirica accondiscendenza di qualunque pietà qui convocata a questa oltranza estrema, che va oltre l’oltraggio: trasformare l’oltraggio al corpo nell’oltranza che siamo. Io, lo scrittore che non si sente tale, io, che faccio di me retorica di derelizione e soffro le gocce chimiche di un benessere instabile strappato al mondo della tridimensione, io, l’inadatto, il purpureo, il sentimentalismo nascosto per pudore e spacciato per vittimismo illegittimo, io, il sacco ileo che di tutto fa escrezione e si sente vuoto, io, il poveraccio che non sa e cerca l’abbastanza per durare quel poco e simula l’oltraggio per difendersi dalla natura oltraggiosa, io che non conosco l’arte di sapere l’arte, io, lo scribacchino finito, la cui finitudine è sbandierata senza posa per ottenere amore: io ho scritto in un libro di quell’immagine, proprio quella, che si accende in faccia a noi e all’esichia immobile di un artista, quell’immagine che è tutta l’arte, l’avevo messa nel libro “Fine Impero”, per dichiarare la fine delle immagini, di tutte le immagini, e la fine delle parole, le mie, e ho accanto a me il corpo di un’amica che mi vergogno di disturbare se respiro male, affratellato alla strage che sta compiendo l’artista Bergonzoni. Si suole dire. Avevo detto quell’immagine per pagine, dando l’addio finto alle parole false, ricercando i silenzi veri tra le sillabe della mia impotenza, quando l’impotenza è un resto umano, enorme, carne disincarnata, immagine verissima ma non per cronaca eppure storica e di cronaca, cronica, cronicario, quel teschio cromagnon, quella teca delle sofferenze, quella cristianità assoluta che indistingue qualunque definizione, qualunque definitezza, che ebbe nome Stefano Cucchi, ma non aveva nome Stefano Cucchi, perché già era stato tradotto in immagine, non in arte?, traslato, il funerale che strappa l’immagine dal corpo e te la conduce menzognera nella teca cranica cromagnon che hai. Sono affranto. Sono affratellato: a chi? Alla persona. Quale? Bergonzoni? Cucchi? L’amica che ho a fianco? Gli altri? Me stesso?
E comincia a parlare e si gira, immobile, l’artista. Chiede, la sua stessa voce, che è registrata e rimbomba dalla sfera semibuia così lontana dal celeste: “Sei tu confine?”. E parla: non è vero: non sta parlando. Lui, immobile, che guarda senza sguardo, che è senza giudizio, che rende cristalline le immagini tutte, ascolta l’immagine della sua voce, questa impronta sonora irradiata dalle casse da morto, ascolta se stesso, cioè lui prima, in altra situazione, quando registrava: e dice l’indicibile, non lo so ripetere, ricordo il “viola inviolabile”. Fa la letteratura nuova: la fa contemporanea. Fa l’arte tutta nuova. Poi il quadro, ora alle sue spalle, trascolora. Cosa ne dirà la conservatrice, la restauratrice, che poi prenderà la parola (chiunque prende la parola, non la emette: prendiamo la parola e la nascondiamo, la portiamo via)?
All’improvviso è bianco, non c’è più forma, non è un quadro: è luce.
Lui se ne va via.
C’è solo io. Io solo.
Poi c’è stata la conferenza stampa.

PS. Non ho finito di dire. Non finirò di dire, di quest’opera, un assoluto topico per me. Continuerò, appena posso, nei prossimi giorni, che sono tutti giorni del giudizio, che sono tutti i giorni della creazione. Mi scuso per l’insufficienza. Volevo dire a tutte e tutti che siamo oltre: siamo contemporanei.