Lavorare alla cura esistenziale

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Si va verso la cura esistenziale.

E’ un periodo in cui mi riesce poco di essere oggettivo e, quindi, mi pare sia il caso di astenersi da affermazioni apodittiche, da visioni che non siano mirate a oggetti concreti o particolari. Però mi permetto un’osservazione, che concerne una sensazione intorno a ciò che è un generalmente, sia pure relativo alla mia singolarità. Da mesi mi capita che moltissime persone mi manifestino due generi di disagio: microscopicamente fisico e sintomatico di uno smarrimento circa il senso dell’esperienza attuale. Cerco di spiegarmi brevemente. Tante persone che conosco, in chiacchiere superficiali o in contatti scritti, denunciano piccoli fastidi fisici, nulla di grave, spesso relativi alle articolazioni o a fenomeni metabolici, oppure si lamentano delle cure mediche, che in questi anni stanno generalmente esprimendo nemmeno un’agonia, bensì un crollo verticale simile a una morte istantanea. Accanto a questa denuncia molto intima di piccole incrinature del corpo, probabilmente dovute alla coetaneità delle persone con cui comunico, emergono espressioni di malessere circa la consistenza del discorso esistenziale, della crucialità e della sedimentazione dei rapporti, sia con gli altri sia col mondo. E’ una sofferenza più diffusa che acuta e spesso motivata con la frenesia non sostenibile dei tempi in questa porzione spaziotemporale, con la storicità, ovvero con l’accelerazione tecnologica, la quale comporta un impatto oramai molto evidente sull’antropologia in genere e sulla psicologia più in particolare. Sono enunciate differenti e sempreguali ricette per la risoluzione di questo disagio rispetto al senso. Mi pare che in totale la cosa possa riassumersi così: c’è un distacco da una naturalezza del sentire se stessi, collocati in un luogo in cui si avverte la consistenza sia del piacere sia del dispiacere, della tramatura che rende continua la sostanza che è se stessi e il mondo esterno (considerato come esterno, intendo). Non mi sto riferendo a crisi esistenziali o psichiche verticali; piuttosto, mi colpisce il diffuso, che è a bassa intensità, ma c’è, così come nei decenni passati mi colpiva moltissimo l’incremento silente nell’utilizzo di psicofarmaci e antibiotici.
Ciò che penso rispetto a questa mia esperienza personale, che è microcollettiva, potrebbe essere espresso in molti modi, dal metafisico al politico al personalistico. In un passaggio di un saggio che ho scritto (si intitola “Io sono”) lo definivo in maniera ostica, riferendomi alla “vaporizzazione del testo” (il testo-mondo, il testo-sé). E’ possibile che si stia aprendo uno spazio alla cura di qualcosa che è davvero più che psichico o non solamente psicologico? Secondo me: sì. Direi che questo spazio consisterebbe nella cura di qualcosa che fatico a chiamare con un nome carico di tradizione e a mio parere fuorviante, asserendo che è lo spazio di una terapia dell’anima. Perciò dirò che a mio parere si sta aprendo lo spazio per la cura esistenziale. E’ dove si è visti, dove si è ascoltati, dove si intreccia un dialogo consistente, che coincide con un dialogo tra sé e sé. La chiamo terapia o cura, ma di fatto è un lavoro su di sé, in cui serve ed è bello ed è opportuno che ci sia l’altro. Chi è quest’altro? E’ un terapeuta? Sì, ma non uno psicologo, non un professionista medico. E’ qualcuno che sa fare consistere il dialogo e conosce la testualità: del mondo, quindi di se stessi.
A questa cura di sé mi piacerebbe lavorare.