Riprendo qui lo splendido articolo di Alessandro Piperno su Littell, apparso quest’oggi nelle pagine culturali del Corriere. Non concordo in nulla su quanto Piperno scrive della questione che è per me il buco nero della rappresentazione ne Le Benevole: cioè l’invenzione di una mimesi per me oscena nel campo di concentramento. Sono certamente convinto, come Piperno, che Le Benevole siano un romanzo con cui e su cui confrontarsi. Non sono convinto della critica iperbolica che ne fa Alessandro: l’ambizione esplicita dell’autore amerigo-francese è proprio quello di fare un romanzo “assoluto” (per usare una delle tre scomode parole impiegate dal mio amico Piperno), ma proprio per questo il risultato va valutato in due sensi. Il primo dei quali (ed è il meno impegnativo) è se Littell sappia narrare fino in fondo, ponendosi tale ambizione: la mia risposta (ma è solamente mia) è negativa, il libro non regge nella seconda metà e crolla nel finale, e solo parzialmente è embricato nel mondo che Piperno convoca quale materia unica della letteratura. Il secondo punto riguarda l’assoluta confusione che Piperno (ma la fa Littell a monte) stende tra due aggettivi, “religioso” e “metafisico”. Poiché si è qui e ora perduta la percezione dell’elemento metafisico, si scade a quello religioso, che è estetizzabile. “Metafisico” non significa nemmeno “oscuro” o “mistico” (questa incredibile miscomprensione che dobbiamo a secoli di cattolicesimo…). Se non si parte dal dato metafisico, è assolutamente incomprensibile la posizione di Lanzmann. Il quale, proprio, non estetizza il dato reale – dice che la letteratura è penultima, che la realtà ha un punto impenetrabile per i linguaggi (e l’apicalità della realtà che sta alle radici di tutto il contemporaneo, come Atene e Gerusalemme stanno alle radici dell’occidente: mi riferisco all’apicalità dei campi di concentramento nazisti). Se l’immaginazione non entrasse in questo conflitto, che né la filosofia né la letteratura e nemmeno la mistica possono risolvere, non esisterebbe “forma”. E’ dunque, a mio parere contraddittoria la posizione di Littell, e di riflesso quella di Piperno: due assolutisti della letteratura che relativizzano a priori l’elemento unico di ogni assolutezza, cioè quello metafisico. Le Benevole, solo in questo senso, è un libro irresponsabile e dannoso. Ciò non toglie che sia un gran libro. Ma finché non ci si mette d’accordo sulla percezione di ciò che è metafisico (il che, preciso ulteriormente, non significa che non sia mondano e reale), le esplosioni di successo spettacolare evocate da Piperno e non realizzatesi in Italia saranno assai facilmente spiegabili così: Littell colpisce un punto sociologico, e non lo fa con la narrazione, che è essenzialmente condensata nei momenti allucinatori di Max Aue. Il modernismo di Littell, la titanica convocazione della tradizione letteraria per dire che siamo tutti fratelli (l’incipit è di Villon: Littell lo usa), porta all’inevitabile conclusione che la letteratura, se riguardata in questo modo, produce essa stessa il rogo dei propri libri, poiché, come la tecnica, si pretende assoluta. Non si percepisce la continuità tra la tradizione umanistica e il nazismo. Né si mette in discussione Hitler, che è per me l’aspetto meno grave del buco nero aperto con estetica raffinatezza da Littell. Si scontrano qui due concezioni di letteratura antitetiche. E’ bene che accada, anche se l’unica a passare sui mezzi spettacolari (stampa compresa) è quella che dice che Stavrogin è “metafisico” in quanto è “malvagio” mentre non si sa cosa sia l’emento metafisico; l’altra visione della letteratura (a cui aderisco con ogni fibra del mio essere) è, nonostante quanto lamenti Alessandro, minoritaria, incompresa e incomprensibile finché non si compie un atto di scavo di ordine metafisico – che non vuole significare diventare religiosi, ma andare a ciò che un materialista come Marx chiamava “radicalismo”.
Tesi – È uscito in Francia «Le sec et l’humide», un’analisi sul materiale utilizzato dallo scrittore. Un romanzo con il quale è necessario confrontarsi
Littell, il male è nel Dna dell’uomo
All’origine delle «Benevole»: la psicologia nazista e la lingua dei carnefici
di ALESSANDRO PIPERNO
In questi giorni dietro alle vetrine delle librerie parigine scintilla uno smilzo saggio di Jonathan Littell dal titolo enigmatico: Le sec et l’humide (Il secco e l’umido). Nella postfazione, lo storico tedesco Klaus Theweleit riporta alcune frasi di Claude Lanzmann: «Littell», afferma Lanzmann, «ha inventato la lingua dei carnefici. Ora, per me i carnefici non parlano come li fa parlare Littell. In realtà i carnefici non parlano affatto ». Al che Theweleit insorge: «Su questo punto, Lanzmann si sbaglia. È vero, i carnefici si sono rifiutati di parlare di fronte alla sua telecamera. Ma tra loro hanno sempre parlato».
Theweleit prende capziosamente alla lettera Lanzmann solo per riaffermare che, finché la questione- Shoah verrà affrontata con gli strumenti offerti dalla metafora, essa continuerà a essere quell’anti-Olimpo tenebroso e siderale cui un certo misticismo celebrativo l’ha ridotta. La cosa strana, en passant, è che sia proprio Lanzmann (autore di un film-capolavoro sulla Shoah composto di luoghi, di facce, di corpi, di voci) a rifugiarsi ora dietro detti corrivi e oracolari come «i carnefici non parlano affatto» che fanno il verso alla famosa sentenza di Bataille: «I boia non hanno parole ».
Occorre ricordare che Klaus Theweleit è autore di Virili fantasie,
uno studio teso a dimostrare come il risentimento del nazista scaturisca dal terrore in lui suscitato dalla vischiosità dell’esistenza.
Da qui il culto della forza e della secchezza e il desiderio di annientare tutto ciò che sia percepito come femmineo e liquefatto: bolscevichi ed ebrei in testa. Come si evince dal titolo del libro — Il secco e l’umido — Littell è stato molto influenzato dalle teorie di Theweleit, soprattutto nella creazione di Maximilian Aue, protagonista- narratore de Le Benevole. Libro con cui, come mi ostino a credere, è necessario confrontarsi.
Mi sono chiesto perché un romanzo preso seriamente da intelligenze autorevoli come quella di Pierre Nora e Marc Fumaroli, lanciato con tale enfasi dal Nouvel Observateur e che proprio in questi giorni sta infiammando i giornali tedeschi, abbia prodotto in Italia nel migliore dei casi uno sfoggio di sufficienza, e nel peggiore autentico scherno. La risposta che mi sono dato è che dalle nostre parti c’è una tale allergia all’ambizione e alla grandezza che Le Benevole deve essere apparso un’ottima palestra per esercitare il proprio snobismo decostruttivo. Per il poco che conta il mio contributo, continuerò a scrivere che Le Benevole è un libro assoluto. E non tanto per le sue implicazioni teoriche ma soprattutto per il contributo alla letteratura e per quella scorticatura interiore che ha lasciato in molti di noi.
Dai tempi lontani di Wilhelm Reich, passando per le perlustrazioni sulle genealogie culturali del Terzo Reich intraprese da Mosse, fino alle tesi di Goldhagen secondo cui l’antisemitismo hitleriano sarebbe il velenoso distillato dell’anima tedesca, chi non ha sognato di formulare una teoria ultima sulla «psicologia fascista»? Non essendo uno storico, tanto meno uno psicologo, mi guardo bene dall’entrare nel merito. Preferendo attenermi a ciò che scriveva qualche tempo fa lo psichiatra Niels Peter Nielsen: «Noi sappiamo che il nazismo fu un fenomeno molto più insidioso, ed anche più accattivante, di quanto si immagini comunemente. Sappiamo che le barriere tra “noi” e “loro” non sono così alte come ci piacerebbe credere».
Ebbene, chi può negare che la letteratura sia la trivella capace di bucare la «barriera» di cui parla Nielsen? La sola disciplina umana che si avvalga di due facoltà determinanti per qualsiasi tipo di comprensione: immaginazione ed empatia? Chi dice che Primo Levi avesse ragione quando ci ammoniva: «comprendere significa mettersi al loro posto, ma nessun uomo normale può identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann»?
Diciamo che Littell ha diffidato del monito di Levi, pur tenendone conto. Guardandosi bene dallo scandagliare le personalità di Goebbels o di Himmler, si è occupato con dedizione di un immaginario collaboratore di cui quei mostri si avvalsero: Maximilian Aue, appunto. E per farlo ha prestato a Max gusti e perversioni. Compromettendo se stesso, ci ha compromesso. Risucchiandoci nel vortice di una vischiosa complicità, chiamandoci in causa per giudicare e comprendere i suoi atti, è venuto meno alla legge non scritta che costringeva i romanzieri ottocenteschi a distinguere sempre il bene dal male.
Pensateci: ci imbattiamo nel sublime Vautrin solo alla fine di Illusioni perdute proprio perché Balzac vuole preparagli la grande entrée che meritano i malvagi! Ma pensate anche a quanto Conrad ci parli di Kurtz prima di mostrarcelo o a quante chiacchiere inutili ci imponga Dostoevskij prima di lasciare al suo Stavrogin la possibilità di manifestarsi. Stratagemmi narrativi atti a isolare quei satanassi nel teatrale cono di luce della loro perfidia metafisica. Ecco, diciamo che Max Aue, frutto della poetica post-novecentesca di Littell, è solo in apparenza imparentato con quei demoni ottocenteschi. Ed è proprio perché Max risulta assai meno teatrale e affascinante dei suoi gloriosi predecessori, proprio perché la sua presenza scenica non ha alcuna potenza shakespeariana, che lui ci somiglia: appare un nostro consanguineo, come lui stesso rivendica al principio del suo memoriale.
L’intento di Littell (ribadito da quest’ultimo libro che rappresenta il nucleo teorico de Le Benevole) è di illustrare come il male ci riguardi in quanto fenomeno terreno. In tale senso il secco e l’umido vanno intesi come simboli profani della condizione umana.
Non conosco romanzo meno religioso de Le Benevole.
Littell è letteralmente impantanato nei fluidi della vita, e la sua narrazione strabocca di fango, neve, sangue, escrementi, liquido seminale. È come se la forza di gravità schiacciasse in terra come scarafaggi sia i lettori sia i personaggi. Così Littell ci induce a riflettere sulla «psicologia fascista»: essa va sì storicizzata, senza dimenticare che fa parte del Dna collettivo. Un virus non debellabile.
«Non siamo gli ultimi» era il titolo apocalittico di una serie di quadri dipinta da Zoran Music sulla sua esperienza a Dachau. Un titolo che esprimeva una semplice verità cara a Littell: non ci sono azioni che un gruppo di individui abbia commesso che altri uomini prima o poi non possano ripetere. Come a dire che la storia, nella sua saggezza, è più efficace nell’impartire lezioni di perversità che di misericordia. E che la psicologia individuale, a confronto di determinate condizioni, è destinata a ripetere le medesime malvagità, se possibile avvalendosi di strumenti sempre più sofisticati.
Perché mai tutto ciò — una così nuda verità su noi stessi — non dovrebbe essere materia di romanzo?