Inedito: “Mimesi del progresso alle storie”

Un inedito dall’opera in perenne progresso: “E di notte: storie. Vaticini. Paurosi. Mostri. || Mettere il sasso perfetto, liscissimo, ovoidale, delicato, nella bocca nella saliva e succhiare, succhiare la pietra. || Io che fui minerale, che fui vegetale: sono”.

Tieni me, tu, tieni a me, madre dolcissima.
Affronta, tu, me, padre dolcissimo tardi.
Fratelli, tutti, sorelle, tutte, amiamoci, senza differenze usuali, senza quelle tremende sorti.
Castriamoci. Uniti andiamo. Uniti saremo.
Finalmente saremo. Finalmente, finalmente…

Qui non cresce e si sviluppa, coperta, la parola.
Questa parola si fermi.
Si fermi qui, su carta, nell’aria, l’amore.
Traccia di, senso di: capogiro.

Ossicino che viene nell’interno del gomito dell’amato, dell’amata, posando sulla costola, con dolcezza di senso e tremito di tutto l’essere intero. Intero? Essere?

Animale in tundra antica, fatta di vapori l’aria.

Un dì i nostri padri uscirono da caverne buie intatti, la nuova forma è assunta.

Il puzzo concrezionato della bavaglia di peli unti sul petto noi, dopo.
Noi dopo di noi.

Ambiente salino, cerebellum contaminarsi in acque, se nel fango, se nella melma, nell’acqua torbida io, io nuoto.

Strisciando sui grani d’oro di sabbia calda, la schiena esposta con la vertebrale lunga e orizzontale, a scatto, sotto lontano il sole.

Minuscolo, rattrappito, increscioso, puteolente, artigliato da animali ignoti, riparato nell’alveo del tronco a pena bucato da intemperie che sono state qui quando io non sono stato qui: io.

E di notte: storie. Vaticini. Paurosi. Mostri.

Mettere il sasso perfetto, liscissimo, ovoidale, delicato, nella bocca nella saliva e succhiare, succhiare la pietra.
Io che fui minerale, che fui vegetale: sono.

Uomo vegetale in tanta erta unito a un vapore che… un vapore che…
Svapna. Sonno, qualificato, con i sogni.

Io sono entrato tra le due erte: bosco.

Vidi tre animali, e ferocissimi m’interdissero essi la strada, verdastra buia, nell’incedere incerto, il cuore esplose in battiti veloci, pulsante e ossesso, continuamente, pulsando sempre differenziava e prima e ora e dopo, questi tre animali feroci, questi mostri bui, questa lingua che

non si muove e non favella

e fu di colpo buio e quindi si aprì un pertugio e io, io ivi entrai in fuga e in ansia da quanto era stato e fu, teso tantissimo a quanto sarà stato di me, a quanto sarà, niente dimenticato, niente, sì, teso là, io, uscii ed era interno e vidi un’ombra e l’ombra, essa, a forma umana, mi parlò e disse, ed essa mi guidò, senza vedere dove, io, fedele, là la seguii, per i perigli e ognidove, snodando il corpo quando lo spazio si fece stretto e io, io dimenticai con sonno e non conforto di essere inviato altrove, io, qui, e poi riuscii a un azzurro che ricorda terso il mare e nuovo il cielo e un monte apparvero, tre, tutti insieme, e il monte a fatica salimmo io e l’uomo incerto che mi guida al fianco al buio e svaporò nell’immensa luce, è di azzurro, etere e metallo rarefatto, fino alla cima dove io, io vidi donna da un cielo calare, dove?, da dove?, si calò, tutto si fermava, fu fermo, niente più niente da dire, da raccontare, da raccogliere, io addivenni quanto ero stato, inaccorto, dall’inizio, ora, l’eccezione, tutto finisce e tutto in sé si va, sì, riassumendo, e no, niente, non una fine e non un inizio, e però è, questo, dimenticato, è, è questo, è, finché nuovamente non uomo io mi sovvenni, di questo io non ricordai né ombra né luce e svenni e non vidi mondo o luce, niente e tanto niente parla per bocca mia, per dita che segnano la traccia e graffiano l’etere crollando essi, segni, per l’aria marina e dopo qui, segno esso stesso ominide riassunto, sì, attacca un filo e pare numinoso e, di schiena, curve e macre nella schiena viste le vertebrali e i peli, a bavaglia, puteolenti, le tre bestie feroci questo filo d’io vede e parla, viene da niente e parla, su questa carta inesistente.

E dice:
Senza niente sapere mi applico alla varianza di ciò che non comprendo.

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