Avvicinamenti al romanzo: Wu Ming 1 e Piperno su Littell

benevolelittell.jpgGrandissimo libro-mondo, Le benevole di Jonathan Littell è un caso estremale, per due motivi: affronta l’estremalità del secolo – cioè la mobilitazione totale bellica nazista che ha la sua apicalità obbrobriosa nello sterminio ebraico; e il punto preciso in cui la letteratura e la realtà si distaccano, perché la letteratura si fa morbosa. Riproduco qui di seguito due recensioni al romanzo a-storico di Littell, che mi paiono contrapposte nelle prospettive assunte: quella di Alessandro Piperno uscita sul Corriere della Sera e quella di Wu Ming 1 uscita su L’Unità. La questione che fa da perno è, per Piperno, letteraria; per Wu Ming 1, politica e letteraria nello stesso tempo. Il relativista blasé Piperno arriva a enunciare, proprio laddove non sarebbe il caso, un assolutismo della letteratura di invenzione che, come osserva all’inizio del suo articolo, sulla questione dell’Olocausto avrebbe indotto Primo Levi a trovare “rivoltante” il libro di Littell. Essendo lontano da una concezione assoluta della letteratura, Piperno cade a mio avviso nella posizione opposta, secondo un movimento che fu proprio delle avanguardie storiche italiane: l’invenzione iuxta propria principia, l’abbassamento che può tutto, la comunicabilità del tutto. Letterale da Piperno: la letteratura “da sempre, si è sobbarcata l’onere di cercare la verità attraverso la desacralizzazione”. Si tratta di un’affermazione censurabile nel momento in cui, a pronunciarla, non tanto è un intellettuale (peraltro un amico) che sa di letteratura, ma una persona che non ha la benché minima idea di che cosa sia il sacro (censurabile e scandaloso, dal mio punto di vista, un suo intervento, ancora sulle pagine del Corriere, circa la rivolta dei monaci buddhisti in Birmania, dove Piperno si mette a dare una definizione di pratiche buddhiste a partire da ciò che vede in tv, senza minimamente sapere che tipo di riflessi “karmici” ha l’ahimsa su chi la compie in quel modo, cosa voglia davvero “rovesciare la ciotola delle offerte”, su piani di cui Piperno non è disposto ad ammettere nemmeno lontanamente l’esistenza). In questo caso, come già meditato e reiteratamente espresso da Claude Lanzmann (anche violentemente, su Le Monde, a proposito di Littell) si viene a ricoprire una posizione oscenamente morbosa. Se ci si vuole divertire delle varianze inventive della letteratura su un fatto storico che è costato la vita, tra indicibili (e l’aggettivo non è casuale) orrori a 6 milioni di persone, si è liberi di farlo. Non contesto né la grande operazione stilistica né la qualità del romanzo-universo di Littell, sia chiaro: mi oppongo allo sguardo finzionale che ad Alessandro piace molto, fino a essere elevato come assoluto della narrazione. Avrei volentieri risposto a Piperno – ma si sa: non dispongo di sedi pubbliche per ingaggiare un dibattito tanto alto, e il Corriere è una di queste sedi.
D’altro canto, la precisissima analisi e le molteplici prospettive richiamate da Wu Ming 1 mi sembrano ricoprire la mia posizione in merito. E’ proprio per l’adozione inventiva dello sguardo in prima persona che il libro di Littell è un atto che tracima dalle buone intenzioni di un fan del Novecento, che pretende di scrivere il romanzo definitivo sul nazismo (ambizione, questa, non francese: americana, semmai). Littell si fa sfuggire di mano, anche grazie all’immensa competenza filologica e storica, il racconto di una realtà che, in quanto estremale, non può cadere nelle gabbie del romanzo storico e tuttavia non vuole essere un saggio: il problema è irrisolto, ma la conclusione è che si esce dalla lettura di questo libro avendo adottato un protocollo mitologico sbagliato, morboso e osceno.
Littell, a proposito del titolo che ha dato al suo libro, richiama l’Orestea, e fa male: qui non c’è nessuna mimesi (appare come mimesi, ma, essendo filtrata dallo sguardo finzionale, non è mimesi) e nessuna catarsi (sulla quale non c’è meditazione: si assume che la catarsi sia l’effetto dell’identificazione, il che significa non avere compreso Platone, Aristotele e la tradizione umanistica che ne discende). C’è semmai l’adozione di una mitologia che va negata – non c’è mitologia nell’Olocausto ed è immorale sostenere il piacere di averla esperita, seduti in poltrona a sfogliare un libro. Con felice intuizione filologica, Wu Ming 1 individua in Melville e in Moby Dick il modello letterario che Littell cerca vanamente di fare deflagrare: e, siccome ci riesce solo in parte (ed è la parte sbagliata), la questione si fa politicamente grave, e letterariamente consona a una vittoria postuma concessa a Hitler proprio sul piano in cui Fackenheim chiede che sia negata. Mentre la Balena Bianca (si veda il 42 capitolo di Moby Dick) è il mito vuoto e potenziale, la Balena Bruna e Novecentesca di Littell rischia di essere il mito pieno – una posizione che non letterariamente, ma umanamente eticamente e in assoluto giudico come l’avrebbe giudicata Primo Levi: “rivoltante”.
Tutto ciò meriterebbe un dibattito in sede adeguata. Lancio qui un appello a chi voglia riprenderlo o, eventualmente, organizzarlo.
Di seguito, gli articoli di Alessandro Piperno e di Wu Ming 1.

Littell, nel girone dello sciacallo

di ALESSANDRO PIPERNO
[dal “Corriere della Sera”]
Appena terminato Le Benevole, il romanzo assoluto (come altro definirlo?) di Jonathan Littell, mi chiedo: cosa avrebbe pensato Primo Levi di questo libro? Istintivamente mi viene da pensare che lo avrebbe trovato rivoltante. Ne I sommersi e i salvati accusava di libidine letteraria ogni tentativo di speculazione artistica sull’orrore. Lo sterminio, per lui, era una questione da lasciare ai testimoni: un approccio empirico che stroncasse sul nascere ogni forma di estetizzazione. Levi riteneva che i superstiti ai campi non avessero il diritto di parlare in vece di chi non ce l’aveva fatta, figurarsi se avrebbe accettato l’idea che un giovane ebreo scrivesse un libro sposando, per ragioni narrative, il punto di vista di un criminale nazista. Allo stesso tempo però, forse, leggendo Le Benevole, il memoriale di un ufficiale delle SS, si sarebbe potuto imbattere nella trasposizione letteraria dell’ idea cardine della sua speculazione: la «Zona Grigia». Nella breve prefazione all’autobiografia shocking di Rudolf Höss – comandante ad Auschwitz – Levi scriveva come quel libro fosse utile a mostrare «con quale facilità il bene possa cedere al male, esserne assediato e infine sommerso, e sopravvivere in piccole isole grottesche». Processo psichico che sembra replicato da quello vissuto da Max, il Narratore del romanzo di Littell. Un giovane uomo con ambizioni artistiche e dalla sessualità complicata che si ritrova ingranaggio di una macchina programmata per lo sterminio sistematico alla quale reagisce con blanda riluttanza. Ho letto che una parte della critica francese ha intravisto in Max una sorta di epigono dei grandi malvagi della letteratura di ogni tempo: da Riccardo III a Kurtz, da Jago a Stravoghin. Mi sembra uno stravolgimento della verità: ciò che manca a Max, con tutta la sua cultura, è un’adesione consapevole al Male. Lui è un malvagio per caso: uno che, nelle prime pagine del memoriale, ha l’esigenza di rifugiarsi nel tipico ragionamento relativista del nazista auto-indulgente: «La guerra totale è anche questo: il civile non esiste più e tra il bambino ebreo gasato o fucilato e il bambino tedesco morto sotto le bombe incendiarie c’ è soltanto una differenza di strumenti». Un argomento che ci ripugna più di una confessione di colpevolezza ma che getta una luce ambigua sulla reale coscienza di Max. Ciò che di lui ci perturba è proprio questa sghemba adesione al Male. Un paradosso che viene favorito dall’ uso magistrale che Littell fa della prima persona. Una strategia narrativa che rende questo libro, per altro zeppo di stereotipi (il nazista dandy omosessuale, Hitler che si muove come un rabbino…), una bomba ad orologeria consegnata nelle mani del lettore che, strada facendo, si troverà a intrattenere un rapporto di empatia con questo assassino, assistendo, attraverso i suoi occhi, a una sequela di orrori. È attraverso la messa in scena di questa ambigua soggettività che Littell ci fa capire che Max appartiene all’ umanità non meno di noi. Ecco perché fin dal principio, facendo il verso a Baudelaire, ci chiama in causa definendoci: «Fratelli umani». Noi suoi fratelli? Cioè lui un uomo come noi? E noi mostri come lui? È questo il gioco di Littell? Temo di sì. Un gioco che funziona, che ti conduce nel nucleo di un problema che tutti abbiamo rimosso. Chi erano i nazisti? Cosa avevano dentro? Cosa pensavano? Un vecchio cliché sostiene che chi tenta di capire dal di dentro l’esperienza del nazismo corre il rischio di accettarla. «Si è arrivati a dire» dice Pierre Nora «che per mettersi nella pelle di un nazista bisogna essere un po’ nazisti». Si tratta comunque sia di un esercizio precluso allo storico. Non per caso Littell, in una intervista, ha detto: «Uno storico non ha diritto al salto intuitivo, all’empatia dell’immaginazione». Ma un romanziere questo diritto ce l’ha. È il suo pane quotidiano. Littell ha confessato più volte che il personaggio di Max è nato nel momento in cui lui ha deciso di donargli qualcosa di sé: i gusti, il modo di pensare, chissà forse anche qualche perversione. Così come Balzac, secondo il mito, stabilì di essere un genio nel momento in cui inventò l’ idea del «ritorno dei personaggi», così Littell ha trasformato il suo romanzo in un libro capitale nel momento in cui ha deciso di donarsi al suo orrendo Narratore. Se Le Benevole fosse stato in terza persona sarebbe stato un buon libro normale. È la prima persona a scatenare in noi un pervertito processo di empatia. Così, quando Max arriva a sparare in faccia a una ragazzina perché gli sembra che lei sia troppo bella per poter soffrire, per un attimo sentiamo la forza delle sue ragioni. Intendiamoci: non sto facendo alcuna confusione tra vittima e carnefice (psicologismi da strapazzo!). Sto parlando della Zona Grigia, della complessità del Male. Del diritto di ogni individuo di immergersi in esso e del dovere di comprendere che esso ti riguarda. Ecco, mi pare che Le Benevole sia un tentativo schietto di capire il Male in relazione all’ uomo, sottraendolo a qualsiasi fatua consolazione demoniaca. Ma tutto questo non ha ancora risolto la questione più annosa: è lecito fare un romanzo con questo materiale? Non c’è un momento in cui la letteratura deve auto-censurarsi per rispetto delle vittime? Ho sempre guardato con sospetto alla sacralizzazione della Shoah. Forse perché l’ho sempre ritenuta una cosa troppo umana per essere confinata in un paradiso di martiri o in un inferno di satanassi. Sempre Levi scrive che «una certa dose di retorica ci vuole affinché il ricordo duri». Ma mi chiedo se tutta questa retorica non abbia ottenuto proprio l’effetto contrario a quello auspicato da Levi: e cioè se non abbia favorito un oblio morbido e perbene. D’altra parte tra un ricordo cristallizzato dalla retorica e un oblio completo non c’è così tanta differenza. Sono due forme per non affrontare schiettamente la verità. Ecco allora perché la letteratura. Perché essa, da sempre, si è sobbarcata l’onere di cercare la verità attraverso la desacralizzazione. Esiste un limite oltre il quale non è consentito spingersi? Sicuramente. Ma non quello sancito dalla morale corrente, bensì quello imposto dalla letteratura stessa. Littell, nell’accingersi a scrivere di questa peculiare tragedia novecentesca, sapeva che non gli era consentito affrontarla né in modo estetizzante (alla Visconti o alla Benigni per intenderci) né in modo ideologico (i nazisti sono grassi rossi e sudati, e gli ebrei magri e con gli occhi dolci di un cagnolino). La sola via concessagli era la Zona Grigia. Per immergersi nel fondo della quale doveva farsi sciacallo: sì, sciacallo di una realtà orripilante (il nazismo, lo sterminio) e sciacallo di se stesso. D’ altra parte, a dispetto di quello che si pensa, ogni vero scrittore è uno sciacallo. La parte sporca del suo mestiere è quella di speculare sui morti e sulle tragedie. Pensate a Proust che, con la spregiudicatezza che lo distingueva, nel pieno della Grande Guerra, comodamente infilato nel suo letto da malato, ficcava nella Recherche i cadaveri ancora caldi dei suoi amici morti in battaglia, al solo scopo di commuoverci. Sì, come ci ha insegnato Edgar Poe, lo scrittore è colui che specula sulla nostra emotività di lettori. Ed ecco perché Le Benevole è un libro importante del nostro tempo. Perché emana l’odore ributtante della Zona Grigia. Non a caso tutta la narrazione è percorsa da precise notazioni olfattive che sembrano voler immergerci nella paludosa fangosità della condizione umana. È come se Littell volesse dirci: ehi lettore, siamo tra uomini e gli uomini sono così: per quanto provino a dissimulare la propria umanità, nei momenti importanti della loro vita (a letto, in bagno, quando amano o quando sono vicini alla morte) puzzano come cadaveri.
***

Nessuno è immune dal diventare nazista

di WU MING 1
[da “l’Unità”]
Premio Goncourt 2006. Monumentale opera prima scritta in francese da uno statunitense. Caso editoriale in diversi paesi. Oggetto di stupore, shock e ammirazione. Alzate di polveroni a destra e a manca da parte di storici e critici, di ebrei e gentili. Perché?
Perché è chiaro fin da subito (dal lungo prologo intitolato “Toccata”) che Le benevole di Jonathan Littell vuole imporsi come il romanzo supremo e definitivo su Germania nazista e sterminio degli ebrei.
Di questa ambizione, questa hybris che fa scavalcare ogni argine e sfidare ogni precedente narrazione sull’argomento, ho un’esperienza diretta di molti giorni. Leggere Le benevole è ritrovarsi testimoni, percossi e attoniti, di un tracimare: goccia dopo goccia, rivolo dopo rivolo, il fiume di dati, episodi, conversazioni, ricordi, sogni e citazioni si compone, si allarga, si alza, si gonfia finché non esonda. Arriviamo sul fronte russo sospinti da un’alluvione, immane ondata che spazza via interi mondi e innumerevoli vite, finché non impatta con la resistenza di Stalingrado, inattesa, inspiegabile. Le giornate di Stalingrado scavano un momento di “vuoto” nel romanzo e nella vita del protagonista, Maximilien Aue, ufficiale SS. Il vuoto si riempie di follia, follia per una volta non sistemica né organizzata, follia non burocratica bensì singolare e selvaggia. L’accerchiamento sovietico apre un crepaccio nel tempo e la psiche devastata di Aue produce visioni e fantasticherie. I passaggi sono fluidi, non più scanditi da cifre, date e acronimi, tutto è bianco e non si sentono rumori… E’ a questo punto che l’onda s’incurva e volge indietro, con violenza moltiplicata. L’Armata Rossa e il Generale Inverno annichiliscono la Sesta Armata. Aue si salva, lo riportano a Berlino.
Una volta respinta, la piena – che, ripeto, è una piena di informazione – copre altre direzioni, invade altri campi. Le acque brune e scure trasportano nuovi dati, episodi, conversazioni, reminiscenze di incesti e sodomie, incubi e rimandi ad altre opere (drammi, romanzi e saggi, film e documentari). Personaggio, autore e libro s’impantanano nell’asfissiante burocrazia dell’universo concentrazionario, della Endlösung, dell’Olocausto. Che è ormai soprattutto amministrazione: se le spaventose Aktionen, i massacri di ebrei nell’Ucraina occupata, avevano smosso la coscienza del protagonista sferzandolo con dubbi e rimorsi, la “soluzione finale” lo trova desensibilizzato, apaticamente dedito al compito: “adesso predominava in me una grande indifferenza, non tetra, ma lieve e precisa”. Siamo a poco meno di 2/3 del romanzo: Auschwitz compare solo adesso, ecco Höss, ecco Mengele… La piena diventa un lago artificiale di acqua densa, appiccicosa, le minuzie galleggiano e si attaccano alla pelle. “E poi, se dovessi ancora raccontare in dettaglio tutto il resto dell’anno 1944, un po’ come ho fatto fin qui, non la finirei più. Vedete, penso anche a voi, non soltanto a me, un pochino perlomeno, certo ci sono dei limiti, se mi sobbarco tutte queste fatiche non è per farvi piacere…” E avanti così, poi la catastrofe, la fuga, la mimetizzazione borghese.
Questa non è semplice audacia da esordiente: l’impressione è che l’autore sia stato travolto dai propri studi e dal progetto narrativo, e ne sia rimasto prigioniero. Littell si è recluso per anni nel mondo che andava evocando, la Germania del Terzo Reich vista come un unico, grande campo di concentramento che imprigionava anche i carnefici e i loro complici (immagine proposta anni fa da Bruno Bettelheim). Siccome “è libero chi è vassallo” (Frei sein ist Knecht sein), ne è derivato un grande arbitrio del raccontare: Littell vuole dire tutto, mostrarci tutto, descrivere ogni meccanismo, indugiare su ogni delitto.
Le benevole è un libro iperrealistico, sembrano davvero le memorie per troppo tempo procrastinate di un ex-criminale di guerra. Nel numero di pagine (956 nell’edizione italiana, per giunta fittissime e quasi prive di a capo), nell’esorbitante numero di divagazioni ed eccedenze, nell’attenzione pedante per i minimi dettagli, si manifesta la tipica “incontinenza” dei memoriali di certi anziani.
Le benevole sembra anche la versione narrativa (e capovolta, poiché dal punto di vista degli assassini) della colossale impresa storiografica di Saul Friedländer, i due volumi de La Germania nazista e gli ebrei. Friedländer aggiorna le ricerche di Raul Hillberg e si dedica alla ricostruzione più vasta e minuziosa della “soluzione finale”, attingendo a ogni sorta di fonte, procedendo per accumulo di migliaia di microstorie, che collega e incastra fino a indurre il quadro generale. Tuttavia, la narrazione di Friedländer è moltitudinaria, sono milioni di persone a reggerne il peso e il dolore. La storia più difficile da raccontare e da ascoltare batte sulle tempie mentre leggi, e solo un impianto corale può darle fondamenta abbastanza solide. Le benevole ha invece un solo protagonista, unico “filtro”, un “io” dai piedi d’argilla che sotto il peso della tragedia sbanda, si incurva, sovente cade, perde consistenza e coerenza. Che compito ingrato, il soliloquio dell’inenarrabile.
La domanda che si pone il lettore è: perché Aue – nonostante il disgusto, i conati di vomito, la diarrea psicosomatica che lo perseguita per quasi mezzo libro – fa quello che fa?
Perché a suo modo è un illuminista, sembra dirci Littell. E’ un giovane intellettuale dalle buone, anzi ottime, letture, ed è consapevole della “dialettica negativa” dell’illuminismo, tanto da volere vederla compiersi.
[Qui sorvolerò sul fatto che il cosiddetto “illuminismo” liquidato da Adorno e Horkheimer e poi da frotte di pensatori postmoderni non corrisponde in alcun modo all’illuminismo storicamente, concretamente esistito. Lo spiega molto bene Robert Darnton nel suo L’età dell’informazione, Adelphi 2007.]
In parole povere: Aue vuole scoprire fin dove potrà spingersi prima di smettere di provare qualcosa. Vedere se i mille pretesti, le razionalizzazioni di comodo, i falsi sillogismi riusciranno a prevalere sulla nausea, la pietà e i sensi di colpa. Man mano che ciò accade, si trova a rimpiangere l’orrore e la pena che provava al principio, “quello choc iniziale, quella sensazione di una frattura, di uno squassarsi infinito di tutto il mio essere”. Aue è la cavia del proprio esperimento sui limiti dell’umano. Insieme a noi, “fratelli” chiamati in causa fin dall’incipit, scoprirà che l’umano non ha limiti, che “disumano” e “inumano” sono epiteti ipocriti. E’ questo ad avere turbato molti lettori.
La consueta trappola dell’io narrante: io cammino con Aue, lo seguo nell’esperimento, ragiono con lui, in un certo senso sono lui, come lui è me e chiunque di noi: “Gli uomini comuni di cui è composto lo Stato – soprattutto in periodi di instabilità -, ecco il vero pericolo. Il vero pericolo per l’uomo sono io, siete voi. E se non ne siete convinti, inutile continuare a leggere oltre. Non capirete niente e vi arrabbierete, senza alcun vantaggio né per voi né per me.”
Finché Aue soffre per il dolore che infligge, io soffro insieme a lui, ho gli stessi conati di vomito. La descrizione delle Aktionen in Ucraina è quasi insostenibile: chi è padre o madre vedrà i propri figli in ogni bambino fucilato e gettato nudo sul cumulo di morti. Queste pagine fanno amare la vita disperatamente, ti ci fanno aggrappare con tutte le forze, perché non c’è nulla di “edificante” nel modo in cui le vittime vanno a morire, sono decine e decine di pagine di macelleria a cielo aperto, pagine brutte, perché è la morte violenta a essere brutta: non c’è tempo per ultime frasi che tocchino il cuore; non c’è spazio per pose plastiche nella calca della fossa comune; la morte subita in mucchio è ancor più misera e priva di redenzione.
Gradualmente, però, la quantità mi prevarica, fa scattare le mie difese, distanzia l’esperienza e annulla la compassione. Un morto è omicidio, un milione di morti è statistica, ipse dixit. Di massacro in massacro, mi desensibilizzo insieme ad Aue, conseguo il suo medesimo distacco. Il romanzo coglie nel segno (se questo era il segno a cui mirava) e arriva a dimostrare che chiunque può abituarsi all’orrore. Al limite la pagherà con disturbi psicosomatici, cacarella, bruxismo… Poca roba. Del resto, non muoiono di fame e stenti ogni giorno migliaia di bambini senza che io ci perda il sonno? Il fatto che io non sia lì a guardarli morire, bensì distante migliaia di miglia, mi rende poi tanto diverso da Maximilien Aue, mi rende forse più innocente di lui? Aue è mio fratello, è contro me stesso che devo vigilare, nessuno di noi è immune dal diventare “nazista”.
Littell, per dirla in una delle sue lingue native, has got a point, eppure il suo successo è un fallimento, perché mi anestetizza, toglie calore alle dita che reggono il libro. L’inflazione della valuta-morte mi fa davvero sembrare uno sterminio poco più di una statistica, e il rischio è che diventiamo più cinici anziché più vigili nei confronti di noi stessi. Eterogenesi dei fini. Per metterla giù in modo chiaro: finiamo la lettura più stronzi di quando l’avevamo iniziata.
Detto questo, è un romanzo importante, epocale, che non si può né si deve ignorare, che va letto e affrontato. E’ anche un romanzo impervio, con centinaia di nomi e cognomi che non è possibile tenere a mente, parole tedesche che mettono soggezione, scartoffie infilate nel flusso senza alcuna mediazione. Sovente Littell va oltre il nozionismo e si produce in tirate piene di riferimenti criptici, come se si stesse rivolgendo – e forse è davvero così – alla corporazione degli storici anziché ai lettori comuni.
Durante un viaggio a Parigi, Aue si imbatte in un libro di Maurice Blanchot, Passi falsi, il quale contiene un saggio su Moby Dick, “libro impossibile” che “si rivela solo attraverso l’interrogativo che pone”. Fin troppo scoperta, la dichiarazione di poetica: Littell è melvilliano dallo sfintere al nervo ottico. E se Melville – come fa notare Henry Jenkins – scriveva così perché era un fan, un appassionato della navigazione che voleva sviscerarne ogni aspetto, allora Littell di cosa è fan? Littell è un fan del Novecento, inteso come “secolo di ferro e fuoco”. Coglierne l’essenza è stato per anni la sua ossessione, la balena bruna a cui dare la caccia.
Ma non è forse l’ossessione di noi tutti? Quel mondo è sempre con noi: la seconda guerra mondiale è l’evento storico più raccontato e rappresentato di tutti i tempi, e il Führer ci tiene compagnia continuando a sbucare come monito, icona pop, pietra di paragone. Qualunque sterminio e genocidio è implicitamente o esplicitamente valutato in confronto alla Shoah, a cui ci riferiamo per metonimia: “Auschwitz”. Qualunque nemico, anche occasionale, viene paragonato all’imbianchino. L’avvocato americano Mike Godwin ha coniato una “regola” (Godwin’s Law) secondo cui “più una discussione on line si protrae nel tempo, più aumentano le probabilità che uno dei partecipanti venga paragonato a Hitler.”
Le benevole non sarà il romanzo definitivo su nazismo e dintorni. Continueremo a raccontare quella storia, perché non possiamo farne a meno. Ci viviamo ancora dentro e chissà quando ne usciremo. Il nazismo ha perso eppure ha vinto, condicio sine qua non del nostro immaginario.
Jonathan Littell, Le benevole, traduzione di Margherita Botto, Supercoralli Einaudi, Torino 2007, pp. 956, € 24

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